La sfinge iraniana

Giulio Meotti

L’Iran arranca sotto il peso delle sanzioni internazionali. Dall’inizio del 2011, il rial ha perso il sessanta per cento del suo valore rispetto al dollaro. Stanno aumentando i prezzi, anche se le merci fondamentali continuano a essere presenti. L’inflazione sta salendo alle stelle, con il prezzo del latte che è aumentato del cento per cento. Un chilo di manzo costa ventitre dollari. La produzione petrolifera è la più bassa di sempre: negli ultimi sei mesi si è passati da tre milioni e mezzo di barili al giorno agli attuali due milioni e settecentomila. Così, in un paese in cui il petrolio è chiamato “grande dono” (di Allah), si sente ripetere “siamo ricchi ma viviamo da miserabili”.

    L’Iran arranca sotto il peso delle sanzioni internazionali. Dall’inizio del 2011, il rial ha perso il sessanta per cento del suo valore rispetto al dollaro. Stanno aumentando i prezzi, anche se le merci fondamentali continuano a essere presenti. L’inflazione sta salendo alle stelle, con il prezzo del latte che è aumentato del cento per cento. Un chilo di manzo costa ventitre dollari. La produzione petrolifera è la più bassa di sempre: negli ultimi sei mesi si è passati da tre milioni e mezzo di barili al giorno agli attuali due milioni e settecentomila. Così, in un paese in cui il petrolio è chiamato “grande dono” (di Allah), si sente ripetere “siamo ricchi ma viviamo da miserabili”.

    Eppure, nulla si muove in Iran. Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, forse Assad. Ma Khamenei, la Guida Suprema, la sfinge persiana? Com’è possibile che il regime dei mullah resti in piedi, nonostante la repressione infinita, la paura, i ricatti, le mistificazioni, la violenza poliziesca e sociale sotto gli occhi di tutti? Come può sopravvivere un governo in cui chi commette il “lavat” (il reato di omosessualità) va alla forca? Come può continuare a essere popolare un regime che ha causato il più massiccio esodo di cervelli al mondo? Ogni anno trecentomila laureati iraniani se ne vanno. Un paese in cui le carceri sono piene e le esecuzioni hanno raggiunto livelli record. Un paese in cui gli adulteri vengono lapidati, i “blasfemi” impiccati agli alberi, i cortei degli oppositori dispersi a colpi di catene e le femministe, che si battono contro l’obbligo del velo, sfigurate con il rasoio.
    La vitalità, la sopravvivenza e il vigore della Repubblica islamica dell’Iran ha numerose ragioni.

    Uno dei pilastri del regime è il socialismo economico voluto dalla mullahcrazia. I proventi del petrolio vanno in aiuti e sovvenzioni, come gli affitti delle abitazioni delle famiglie povere e dei pasdaran della Rivoluzione, la vendita di riso, pane e medicinali a prezzi calmierati e il carburante meno caro al mondo. Lo statalismo del regime iraniano si ingrossa ogni anno di più con la massa di funzionari pubblici e di agricoltori sovvenzionati. La popolazione, sempre più povera, gode di una immissione impressionante di liquidità, che fa sì che gli iraniani possano comprare condizionatori, frigoriferi, lavatrici e compact disc. Per non parlare dei prestiti e mutui super agevolati. Se il reddito medio pro capite annuo è di quasi tremila dollari, il potere d’acquisto è di oltre ottomila. Tre volte tanto, grazie ai super oleati sussidi islamici. Ai ceti più bassi sono svenduti terreni nelle aree urbane. Fortissimo è poi il peso delle organizzazioni caritatevoli religiose, che foraggiano i pellegrinaggi alla Mecca ma anche i matrimoni. L’assistenza sanitaria è elargita a tutta la popolazione, compresi pastori e nomadi. Oltre che su Allah, il regime fonda il proprio potere su un populismo le cui parole d’ordine sono “onore, giustizia sociale, lotta alla corruzione”.

    Poi c’è la repressione. La polizia, segreta e non, l’esercito e le milizie sono gli strumenti del potere di cui dispongono i vecchi “guardiani” khomeinisti, che alle antiche ciabatte hanno preferito le Mercedes. Tutte le principali istituzioni rivoluzionarie islamiche capillarmente presenti nel paese – pasdaran, bassiji, moschee e tribunali islamici – fanno oggi muro a difesa della Guida Suprema Khamenei, e del presidente Mahmoud Ahmadinejad, pur indebolito alle ultime elezioni.
    I pasdaran comprendono 125 mila miliziani e le unità speciali più fedeli contano altri diecimila uomini. Le milizie popolari arrivano addirittura a un milione di membri. L’ideologia del martirio, l’antisemitismo, la corsa alla bomba nucleare, il revanscismo, la repressione dei diritti umani, la negazione dell’Olocausto e la prospettiva apocalittica della distruzione di Israele trovano ragion d’essere in un consenso al regime che ha superato la fase delle grandi contestazioni di tre anni fa. Sotto l’ala di Ahmadinejad, le Guardie Rivoluzionarie hanno espugnato province, regioni, ministeri, fondazioni, la tv di stato e la radio, scalzando spesso il potere ai preti musulmani e al bazar. Hanno accumulato un potere economico gigantesco mettendo le mani su più di cento attività economiche fondamentali, sono diventati contractor nella costruzione di gasdotti e si sono assicurati contratti di esplorazione in campo petrolifero. Fanno di tutto per sabotare le relazioni tra l’Iran e l’occidente. La parte più ortodossa dei pasdaran deve impedire che l’Iran adotti il “modello cinese.

    Si sente dire che sia la povertà a spingere l’Iran verso l’estremismo e non il credo rivoluzionario, che il millenarismo emerga da un senso persistente di degrado economico, di risentimento contro le élite corrotte del paese e dalla frustrazione per il divario crescente tra ricchi e poveri. Si dice che la maggior parte degli iraniani sia più preoccupata del prezzo del grano e delle cipolle che dall’arricchimento dell’uranio, dall’egemonia del medio oriente o dalla distruzione d’Israele. Si legge spesso che l’Iran è una società giovanissima e molto emancipata, afflitta da una inflazione epidemica appesantita da una dollarizzazione crescente e da una disoccupazione pazzesca. Ma è anche e soprattutto una teocrazia in cui appare ancora molto salda la consistenza, forse persino più che maggioritaria, del grande blocco sociale, religioso e ideologico che tiene in piedi il regime.
    C’è chi, come l’intellettuale Mohsen Sazegara, militante della prima ora dell’immensa legione dei mostazafin (i senza scarpe), i sanculotti dell’imam Khomeini, ripete dagli Stati Uniti che “l’ideologia rivoluzionaria è in declino, su tutto prevale l’attrattiva del denaro e i pasdaran sono divenuti un’organizzazione mafiosa che corrompe l’esercito, la polizia, i media, l’industria, il governo”. Ma allora su cosa si regge la Rivoluzione? Forse sui due milioni di rial al giorno, millesettecento euro in dieci giorni, la paga dei manovali della repressione del 2009, ragazzi cresciuti lontano delle grandi città, nel Khuzestan o nel Mazandaran, e che sono stati chiamati nella capitale a fare il lavoro sporco?

    Una figura come l’ayatollah produttore di pistacchi Hashemi Rafsanjani aveva indotto l’occidente a pensare a una burocratizzazione della gerarchia al potere che prima o poi si sarebbe sfracellata. Ma il “golpe di palazzo” del 2009 è fallito, il tentativo di Rafsanjani di organizzare un Termidoro, di defenestrare Khamenei attraverso il Consiglio degli Esperti. Qom, il collegio dei saggi islamici, tace. Soltanto l’ayatollah Montazeri e l’ayatollah Tabrizi, fedelissimo di Rafsanjani, levarono le loro voci da Qom contro la repressione della piazza e i brogli elettorali, quando l’Onda Verde aveva fatto intravedere una possibilità di cambiamento dall’interno.
    La Repubblica islamica resta un sistema chiuso, come l’Unione sovietica: alla base della piramide le clientele e il bazar avvincono al regime gli insider, mentre al vertice si scontrano i “poteri forti” (mullah, esercito, milizie). Contano le grandi famiglie clericali e gli investimenti economici. In Iran è in atto una lotta di classe che oppone la mullahcrazia plutocratica dei businessmen “aghazadeh” (figli di mullah) ai nuovi potenti delle milizie religiose e paramilitari. Ma non c’è stata alcuna “glasnost” del regime più fanatico del mondo.

    C’è una grande confusione in occidente sulla rivoluzione iraniana, ovvero l’illusione che sia esaurita, che aspetti solo un regime change, quando invece è vitale ed espansiva. La leadership non è costituita da burocrati arricchiti come a Mosca, ma da dirigenti rivoluzionari fanatici e arrivisti. La rivoluzione, purtroppo, a differenza dell’Unione sovietica, ha una sua “legittimità”, ovvero nasce e trova ancora fondamento in un movimento popolare, che pure ristretto magari al quaranta per cento della popolazione, è un blocco sociale rivoluzionario di venti milioni di iraniani e che ha egemonizzato molto facilmente il resto della popolazione.
    Il regime iraniano non si regge dunque soltanto su un micidiale apparato di violenza religiosa, poliziesca, giudiziaria e politica che fa impallidire la Gestapo nazista o la Stasi della Ddr. La Rivoluzione è legittimata dal fatto che il regime islamico della sharia non è frutto di un golpe, ma è l’erede di una rivoluzione popolare e popolana di successo.
    Per capire la forza di quella rivoluzione si deve tornare al 6 giugno 1989, il giorno del funerale di Khomeini. Nove milioni di persone cercarono di rubarsi il corpo del fondatore del governo islamico, il primo dai tempi del profeta Muhammad.

    Il regime iraniano gode poi di legittimità perché alimenta i sogni (e i deliri) di potenza del popolo persiano. Un regime che aspetta solo la bomba atomica per guardare oltre i confini del cosiddetto “arco della crisi”: dal Golfo all’Indonesia passando per l’Africa.
    La bomba atomica, “bomba di Allah” e “bomba dei poveri”, non è una necessità soltanto della cupola di turbanti al potere, è anche un desiderio del popolo persiano. I sondaggi ci dicono che anche il 78 per cento del movimento di opposizione guidato nel 2009 da Hosein Mousavi voleva che il regime proseguisse nella ricerca di energia nucleare.
    Non solo il regime tiene, ma il suo messaggio messianico-fondamentalista che l’ha retta per venticinque anni ha preso piede in settori sempre più larghi della umana islamica nel mondo (basta pensare al Libano dominato da Hezbollah).
    I solchi scavati nella coscienza iraniana dall’ideologia del martirio, che pure sembra in recessione nel paese, restano immensi. La rivoluzione è legata all’insegnamento di Khomeini al tempo della rovinosa guerra con l’Iraq, quando la “presenza di Dio”, come veniva chiamato l’ayatollah, annunciò che il Corano considera il suicidio un peccato, però quando il credente si dà la morte per uccidere il nemico, in questo caso il suicidio si sublima nel martirio che gli garantisce un accesso al Paradiso. Fu così che legioni di giovanissimi candidati al martirio vennero mandati, scalzi, a far saltare i campi minati dal “cane rognoso” Saddam Hussein, sacrificando la loro fanciullezza con “piena soddisfazione” dei genitori. I giornali pubblicavano lettere tipo questa: “Come sono stato ignorante in questi pochi anni di vita passati nell’ignoranza di Allah. L’Imam Khomeini ha dato luce ai miei occhi, finalmente. Come è dolce, dolce morire, questa benedizione di Dio ai suoi favoriti”. Questi bambini erano vestiti di bianco e avevano la benda candida dei martiri intorno alla fronte con la scritta “salute a Khomeini”, e in tasca una chiave di plastica del paradiso. Oggi la grande visibilità dei cosiddetti kamikaze islamici, i Basiji, e il sostegno dei pasdaran, eredi di quei fanciulli, significano una cosa sola: il direttorio in turbante è pronto ad affrontare il martirio. Gli sciiti poveri e religiosi che sostengono il regime hanno poi una sorta di cupidigia del martirio che si portano dentro fin dal 680, quando il loro profeta Hussein venne martirizzato dai sunniti, morendo arso dalla sete.

    Quella fondata dall’ayatollah Khomeini doveva essere una utopia lieta, la pretesa di fare di cinquanta milioni di iraniani brava gente un esercito felice, pio e docile. Ma si è rivelata una camminata su chilometri di scheletri che furono spesso a lui devoti. E’ possibile che si rianimi e riprenda vigore la resa dei conti tra un largo movimento sociale di protesta e un apparato legato agli ayatollah, all’esercito e alle madrasse. Ma possono davvero Internet, i famosi party di Teheran, le parabole satellitari emblematiche di una “seconda rivoluzione” occidentalizzante, scalfire questa macchina di morte e di egemonia?
    Agli occhi della maggioranza degli iraniani il liberalismo ha già fallito in Iran con il regime dello scià Pahlevi e continua a vivere negli eredi della famiglia di monarchici all’estero e nella diaspora di due, tre milioni di ricchi esuli in Europa e negli Stati Uniti.
    La linea di Khamenei, offeso nel fisico per un attentato e quindi “martire”, predicatore che nutre un odio fosco per l’occidente, ha vinto su quella del “riformista” Khatami, ayatollah dal sorriso accattivante e punto di riferimento di quei quarantenni, sorta di Rastignac iraniani che volevano “ricominciare da capo”. L’Onda Verde tace, così come nel luglio del 1999 è fallito il tentativo fatto dagli studenti “figli di Khatami” di forzare la mano al loro leader aizzando una vera e propria sollevazione tesa a demolire il Consiglio dei Guardiani. I pretoriani dei teocrati castigarono gli studenti senza che Khatami battesse neppure ciglio.

    La teocrazia continua salda a dominare sul Bazar, la poderosa mafia del business (dalla grande distribuzione al commercio al dettaglio) che è il fulcro della “classe nuova”, mentre i giovani vivono tra la speranza e la furia di chi vuole tutto e subito.
    L’Iran può subire un regime change, perché vive il paradosso di essere un paese antichissimo ma tutto di giovani, in cui governano i vecchi con la sottana ma il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni. Un paese che ha per presidente un uomo, Ahmadinejad, che non conosce l’inglese e che non era mai stato all’estero prima di essere eletto (primato condiviso con la guida Khamenei). Ma così come Khomeini, l’uomo in ciabatte, vinse sullo Scià, l’imperatore del jetset più glamour e mondano, così oggi i basiji del Corano sono più forti della “gioventù della t-shirt”, che maledice in pubblico il Grande Satana ma nel privato sogna di somigliare ai coetanei di quel paese.

    E’ stato Maxime Rodinson a spiegare che la creazione di Khomeini, che viveva in quaranta metri quadrati, passando la giornata fra la stuoia-letto e la sua poltrona, è stata “al tempo stesso banale ed eccezionale”. Banale come ogni altra rivoluzione. Eccezionale perchè, nel XXI secolo, Khomeini ha saputo coniugare la rivoluzione con la religione. In Europa non si vedeva più nulla di simile dal secolo dei Lumi (e infatti Khomeini ha pianificato la rrivoluzione dalla periferia di Parigi, dove si trovava in esilio).
    Nella lunga distanza la guerra intestina e fatale fra la pietà religiosa e l’ambizione ultramoderna, tra il Corano e il pc, appare inevitabile. Ma dal vicolo cieco della dittatura in turbante si esce con il sangue, non con Twitter.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.