Non solo Bolt, a Londra

Beppe Di Corrado

Gli inglesi fanno un’altra Olimpiade. Cioè, c’è questa che organizzano per tutti. Poi c’è l’altra, invisibile agli altri, che fanno solo per loro. E’ una sensazione, ma è forte. Che i britannici si siano incastrati le gare per scandire il tempo della loro gloria. Tutto quello che non si vede e che invece c’è. Una specie di secondo piano di lettura: voi ne vedete quello più ampio, poi c’è ne è uno più stretto. Ci sono sport che interessano soltanto a loro: l’altro giorno Londra è impazzita per il salto a ostacoli. Ha vinto la Gran Bretagna e vabbè. Ma non è quello: è come se ci mettessero una passione diversa negli sport che gli altri capiscono così e così.

    Gli inglesi fanno un’altra Olimpiade. Cioè, c’è questa che organizzano per tutti. Poi c’è l’altra, invisibile agli altri, che fanno solo per loro. E’ una sensazione, ma è forte. Che i britannici si siano incastrati le gare per scandire il tempo della loro gloria. Tutto quello che non si vede e che invece c’è. Una specie di secondo piano di lettura: voi ne vedete quello più ampio, poi c’è ne è uno più stretto. Ci sono sport che interessano soltanto a loro: l’altro giorno Londra è impazzita per il salto a ostacoli. Ha vinto la Gran Bretagna e vabbè. Ma non è quello: è come se ci mettessero una passione diversa negli sport che gli altri capiscono così e così, mentre loro hanno codificato da sempre. I cavalli sono l’esempio: Greenwich Park, un parco meraviglioso tra il Tamigi e la cattedrale di Saint Paul, sempre pieno. Un’esultanza fuori dal comune per le gare e un seguito enorme su tutti i mezzi di informazione. Idem per il canottaggio, con la scelta di Eton come luogo della competizione per rendere omaggio alla propria storia e anche per marchiare di britannicamente autentico un pezzo d’Olimpiade. Un gioco dell’oca con le stazioni del loro orgoglio: gli altri? Hanno lo stadio, le telecamere, le dirette in Hd.

    Noi ci siamo, ma contemporaneamente ci facciamo anche i nostri Giochi. Allora ad Hyde Park c’erano duecentomila persone per il triathlon. Capito? Per il triathlon. Perché c’era la storia dei due fratelli contro: per noi e per il resto del mondo una curiosità interessante. Per loro una questione popolare: chi vince? E per chi tiferà il padre? Un giro attorno a se stessa per la Gran Bretagna. Naturale o forse no. Perché le Olimpiadi aprono, mentre loro hanno deciso di giocarsene un pezzo chiudendo: come se fossero i Giochi del Commonwealth. Roba nostra, voi non c’entrate. Nel velodromo era inutile avventurarsi: un feudo integralmente britannico per il ciclista Chris Hoy e i suoi fratelli delle bici. Anche i tempi sono un po’ sospetti: dopo i primi quattro giorni in cui gli inglesi sono andati nel panico per non aver preso neanche una medaglia d’oro, s’è capito che un pezzo del calendario era un intreccio geniale di orgoglio britannico: giorni su giorni in cui le potenziali vittorie sulla carta dei loro atleti non avrebbero dovuto essere oscurate da altro.

    C’è sempre una notizia più surreale dell’altra alle Olimpiadi. Una scala verso l’assurdità: quando ne hai troppe ne cerchi sempre una migliore. Non bastano i record, non sono sufficienti le storie strappacuore. Vittorie, sconfitte. Vuoi di più. Allora i Giochi diventano l’impero della curiosità. Londra una mattina s’è svegliata con una risposta da dare al mondo: ma i nuotatori fanno o no la pipì in acqua? I network americano Nbc spende una quantità indefinita di denaro per avere i diritti sulle Olimpiadi e così in un’intervista a Ryan Lochte, uno che ha preso cinque medaglie in questi giorni, l’amico-rivale di Michael Phelps, s’è sentita in dovere di chiedere: scusi, ma ogni tanto le capita di fare la pipì in acqua? E Ryan: “Certamente, la facciamo sempre”. Ha spiegato di averla fatta nella fase di riscaldamento prima di una gara. L’hanno presa come una confessione epica. Gli Stati Uniti sono impazziti e hanno fatto i distinguo: allora, i ciclisti se la fanno addosso se nelle ore e ore di pedalata di tappa non possono fermarsi e perdere l’attimo della fuga. I tennisti possono andare in bagno, come ha fatto Roger Federer durante la semifinale olimpica: ha chiesto il permesso all’arbitro ed è tornato dopo pochi minuti. Sui nuotatori c’erano dei sospetti. La risposta di Lochte ha scatenato curiosopoli. Sono spuntati i medici che hanno dato la loro versione clinica: “Sarebbe vietato, ma molti lo fanno”. Nel dibattito è intervenuto persino il Wall Street Journal che ha avuto la fortuna di poter parlare da solo con Michael Phelps e non ha resistito alla domanda: ma è vero? E lui: “E’ una cosa che fanno tutti gli atleti del nuoto. Quando stai in acqua per ore non è che esci a fare pipì”. Imperdibile polemica olimpica. Ci vogliono quattro anni per avere un’Olimpiade da raccontare, pensa se ci fosse ogni anno.

    Il villaggio olimpico è un carcere piacevole. Tutti chiusi, si entra solo col pass. Ti controllano ogni volta, anche se passi i metal detector, ti rendi conto di esserti dimenticato il cellulare e torni indietro a prenderlo: sotto lo scanner, per piacere. Dentro ci sono bar, ristoranti, animazione. Un Valtur da campioni. Ci sono un sacco di leggende metropolitane: le notti di sesso sfrenato, gli scherzi per far perdere il sonno agli avversari, le trappole per destabilizzare chi deve giocare contro di te il giorno dopo. Poi quando entri scopri l’altro mondo. Dei distributori di profilattici di cui pure si era parlato, nemmeno l’ombra. Del chiasso tra i corridoi e nelle strade, neppure una traccia. Le vie sono pattugliate dai poliziotti, esattamente come se fosse la periferia di Londra (cosa che tra l’altro sarà tra poco). In tutto questo, tra invenzioni molto ben create e la realtà, non si capisce come sia possibile che c’è sempre qualcuno che scompare. Qui ne sono spariti sette, tutti del Camerun: il portiere della nazionale femminile di calcio Drusille Ngako, il nuotatore Paul Ekane Edingue, cinque pugili, tutti già eliminati dai Giochi, Thomas Essomba, Christian Donfack Adjoufack, Yhyacinthe Mewoli Abdon, Blaise Yepmou Mendouo e Serge Ambomo. Il Comitato olimpico camerunense ha persino chiesto aiuto alla polizia e all’esercito. Hanno visto tutti i filmati delle telecamere interne al villaggio, hanno attivato gli agenti in giro per le strade di Londra. Nessuno li ha visti, nessuno li vede. Sette nomadi in cerca di chissà cosa e in direzione di chissà dove. Fuga per la sconfitta, visto che non c’è ne è uno solo di loro che sappia cosa sia la vittoria. Fuga dal proprio paese, evidentemente. Perché? La delegazione del Camerun non lo sa. Come si spiega? Nessuno lo dice. Si lasciano sfuggire soltanto una cosa: è già successo in passato che altri atleti camerunensi abbiano abbandonato i ritiri o i villaggi olimpici. Forse più che chiedere aiuto alla polizia dovrebbero farsi un esame di coscienza: se questi scappano è colpa nostra. Scelgono di perdere lo status di atleti per diventare persone normali.

    Venus e Serena Williams hanno vinto il doppio di tennis femminile. Oro, il terzo della loro carriera. Dici? Perché esultano così? Serena s’era già presa il singolare, tra l’altro. E poi queste hanno vinto tutto: Wimbledon vero, il Roland Garros, gli Us Open, gli Australian Open, le altre medaglie. Le vedi: diverse da quando avevano cominciato. Allora erano due ragazze che si mangiavano la vita: volevano arrivare per scaricarsi dall’idea di essere considerate non degne. Erano la working class a caccia di soldi, di fama, di successi. C’era il padre padrone, c’era l’America pesante da sopportare. Venus e Serena sono state per anni delle parvenu del tennis: senza alberi genealogici da continuare a far germogliare. Avevano quegli abitini da Little Miss Sunshine del tennis: troppo sgargianti, troppo eccentrici, troppo poco chic. Queste sono un’altra cosa. Le vittorie e i soldi le hanno sì trasformate. Hanno meno fame, ma ce l’hanno. Soprattutto hanno fatto uno scatto mentale in avanti: non sono più il ghetto che entra nei quartieri alti. No, no. Sono la nuova borghesia dell’America obamiana, dove il nero ricco è a suo agio, dove non si sente più fuori contesto. Adesso toccherà anche a Gabby Douglas, la prima afroamericana a vincere un oro nella ginnastica. Nata povera, cresciuta povera, diventata ricca in un giorno qui a Londra. Lei comincia il percorso che le Williams hanno già fatto: guarda a loro per imparare. Guarda a loro per vedere che hanno realizzato il sogno di George Jefferson. Lei è nata nel 1995, come fa a sapere chi è? Può soltanto aver saputo qualcosa adesso, poco prima dell’inizio dei Giochi, quando è arrivata la notizia della morte di Sherman Hemsley, l’attore che interpretava George nella serie “I Jefferson”. Gabbie può anche non sapere, gli altri sanno, però: il signor Jefferson era l’archetipo del nero americano che negli anni Settanta e Ottanta aveva fatto i soldi e che aveva come unica ambizione quella di integrarsi nell’élite della propria città. Le racchette di Venus e Serena sono le sette lavanderie di George Jefferson: la chiave per potersi comprare una casa nell’Upper East Side, benestante e bianco, e dire di avercela fatta. Per 253 puntate George combatte con la voglia di sentirsi come loro e non ci riesce. Venus e Serena hanno completato il percorso.

    Se non ci fossero i francesi non ci sarebbe neanche una polemica vera. Sono sempre loro i primi a cominciare: la Spagna che perde a basket contro il Brasile fa urlare i francesi al biscotto. I giornali scrivono, gli atleti stanno zitti, ma annuiscono. Alla Francia non andava semplicemente di trovarsi gli spagnoli contro. Succede e contemporaneamente succede anche nella pallamano. Stesso giorno. “Il giorno dell’arena”, titola l’Equipe che qui ha una squadra infinita di persone. Una la vincono, l’altra la perdono. Avanti e indietro. Siccome il pareggio non gli piace mai allora si buttano su un’altra rivalità storica. Quella con gli inglesi. La Francia si lamenta per il velodromo: dice che il cappotto degli inglesi a tutto il resto del mondo nel ciclismo di velocità è figlia di un mezzo furto. I britannici, dicono i francesi, conoscevano da prima la pista, conoscevano le potenzialità, i trucchi, i segreti, le imperfezioni. Le hanno sfruttate. Ora, il problema è che sulle biciclette gli inglesi sono diventati molto poco sportivi. Volevano vincere tutto e già aver perso sia la strada maschile sia quella femminile è stato un lutto. Nessuno, allora, che provasse a toccargli gli altri successi. Quando è accaduto è venuto fuori il caos. Per capire: è intervenuto il premier David Cameron. S’è sentito in dovere di rispondere: “Abbiamo un sistema che dà risultati. E questo li fa impazzire. E penso anche che vedere la Union Jack sugli Champs Elysées è stato un po’ difficile da digerire”. Si riferiva a Bradley Wiggins vincitore del Tour de France e vincitore a Londra dell’oro nella cronometro. La Bbc, però, ha avuto la sensibilità di smentire il premier. Non nella sostanza, ma nei toni anti francesi: la tv di stato britannica ha polemizzato col Cio perché in questi Giochi ha usato troppo poco il francese. Ma come? Il trionfo dell’inglesitudine che si lamenta del troppo inglese? Durante il briefing quotidiano con la stampa, un giornalista dell’emittente britannica ha fatto notare che in occasione di alcune gare di atletica gli annunci sono stati fatti solo in inglese, e non in francese, che è anch’essa lingua ufficiale del movimento olimpico. A quel punto, il direttore generale del Cio, imbarazzato ha smesso di parlare inglese e ha cominciato a spiegare in francese, che tra l’altro è la sua lingua: “Alle gare a cui sono stato finora ho sentito gli annunci in entrambe le lingue. Se ciò non avvenisse, credo sarebbe necessario intervenire. Forse la gara dei cento metri è stata talmente veloce che non c’è stato il tempo per usare anche il francese”.
     
    Ci sono medaglie che arrivano dallo stesso posto. Non dallo stesso paese, ovvio. Nascono in pochi chilometri quadrati. Londra s’è innamorata della storia del keniano David Lekuta Rudisha. Ha vinto gli 800 metri, ha fatto un record del mondo stellare. Bolt ha oscurato tutti gli altri, eppure se c’è un atleta che qui ha fatto l’impossibile è questo ragazzo alto e magrissimo che corre il mezzofondo come se fosse la velocità. Rudisha è stato tutto l’anno nella Rift Valley, l’altopiano del Kenya dove nascono i campioni della corsa. Tra Eldoret e Iten, dove il safari si fa senza incontrare gli animali, ma vedendo sfrecciare questi ragazzi a caccia di un futuro nella corsa. Anche l’oro e il bronzo dei tremila siepi vengono da lì. Da lì arrivano anche i signori della maratona. Nella Rift Valley si corre per professione e per necessità. Dicono che lì nasca un atleta ogni giorno: parte e non si ferma più. Lo chiamano Home of Champions, quel posto. Non un luogo, ma una zona intera, dove si crea fiato, gambe, voglia di vincere. Ci vengono gli stranieri: altri africani, europei, americani. Ci veniva Stefano Baldini, oro olimpico alla maratona di Atene 2004; ci viene Paula Radcliffe, la donna (inglese) più vincente degli ultimi anni e che a Londra non ha partecipato per un infortunio. Si mettono in scia dei padroni. Perché il Kenya è il primo produttore mondiale di maratoneti: nel 2011, i suoi corridori hanno vinto 98 volte in tutto il pianeta. Poi c’è il resto: la pista, col mezzofondo, col fondo. Dagli 800 ai 10.000 ci sono sempre e comunque i keniani. Si allenano tutti lì, sull’altopiano che forma le gambe, i polmoni e la testa del corridore moderno. Con gli atleti vivono gli scienziati che in queste zone vengono a studiare il fenomeno: che cos’ha di speciale questa terra? Che cos’è che rende questa zona il miglior campo di allenamento per la fatica? Che cos’è che rende i keniani i migliori corridori del pianeta? La genetica, sì. E poi? Questi sentieri dove la semplicità non c’è sono l’altra parte della spiegazione. L’altura aiuta a gonfiare i globuli rossi, l’ossigeno aumenta, la fatica si sente meno.

    Le Olimpiadi peggiori sono quelle dei giudici. Ti capita di parlarci mentre sei in coda per entrare nel megastore accanto allo stadio olimpico. E’ il giorno dopo la fregatura beccata da Tania Cagnotto nei tuffi: quarta per venti centesimi di punto. Esistono venti centesimi? Ti dicono di sì, perché una scala ci dev’essere per forza. E’ una convenzione necessaria. Gli sport con i giudici sono diversi: la boxe, i tuffi, la ginnastica, l’atletica. Ecco, non ce ne è stato uno che si sia salvato dalle bestemmie degli atleti. Sempre così e sempre uguale. Come nel calcio con gli arbitri d’altronde. Solo che uno s’aspetta che ai giochi Olimpici siano tutti bravi e belli e buoni. Un corno. Vanessa Ferrari è piccolina, ma a un certo punto alza la voce: “Mi hanno fregata”. Ha preso lo stesso punteggio di una rivale ed è giù dal podio perché i giudici hanno giudicato migliore la prova dell’altra ginnasta. Allora è possibile? Come si fa a rendere più omogeneo il giudizio? Non si può. E non c’è strada. Perché ti spiegano che, come per gli atleti, anche per i giudici il Cio deve rispettare le chiamate territoriali: un tot per ogni continente. Ci sono migliori e ci sono peggiori. L’Italia ha avuto un vantaggio in un incontro di boxe. Però le ha prese in ginnastica e nei tuffi. Non c’è compensazione olimpica, ovvio. C’è solo la polemica nostra e di altri paesi: gli Stati Uniti accusano l’arbitro della partita contro l’Italia di volley di averli sfavoriti. Sarà. Comunque per rendere la vita facile ai giudici e agli arbitri il Cio ha deciso di dare loro una divisa identica come modello a quella dei volontari olimpici ma diversa nel colore. Ai volontari viola, agli arbitri-giudici azzurra. Così che si possano riconoscere da lontano. Infatti li becchi subito e non si possono mascherare: nel parco olimpico sono costretti ad andare in giro in divisa. C’era anche Alan Bell, 61 anni, inglese. Ex atleta e adesso starter. E’ l’uomo che spara il via alle gare di atletica. Cento e duecento metri. Dicono sia bravissimo. E’ uno degli orgogli britannici di questa Olimpiade. L’anno scorso ai mondiali di atletica in Corea fu l’uomo che sconfisse Bolt: squalificato per una falsa partenza. Si sono rivisti quest’anno, sempre in pista. Alex con la divisa azzurra. Stavolta ha perso anche lui.