Bisogna essere autarchici, comprare italiano, spendere molto, mai all'Ikea

Umberto Silva

Tornare alla meravigliosa povertà di San Francesco, come ultimamente alcuni filosofi dall’intricatissimo verbo suggeriscono? Sono sicuri che il Santo non darebbe ordine a suo fratello Lupo di cacciarli dai sacri luoghi ove impera il sublime Cantico che nulla concede alla vanità del sapere? Comunque sia da qualche parte occorre tornare, che è poi sempre un andare, perché qui l’aria è irrespirabile: per la prima e ultima volta in vita mia giorni fa ho messo piede all’Ikea.

    Tornare alla meravigliosa povertà di San Francesco, come ultimamente alcuni filosofi dall’intricatissimo verbo suggeriscono? Sono sicuri che il Santo non darebbe ordine a suo fratello Lupo di cacciarli dai sacri luoghi ove impera il sublime Cantico che nulla concede alla vanità del sapere? Comunque sia da qualche parte occorre tornare, che è poi sempre un andare, perché qui l’aria è irrespirabile: per la prima e ultima volta in vita mia giorni fa ho messo piede all’Ikea, e ho avuto la visione di un gigantesco moloch, una balena bianca che s’inghiottiva la città di Padova, le sue case, gli abitanti, mogli, nonni, mariti, figlioli in carrozzina. Erano tutti contenti, gironzolavano da mane a sera, compravano qualsiasi cosa e le casse picchiettavano inesauste. Ecco – ha intuito il mio primitivo cervellino – dove finiscono i soldi degli italiani, in Svezia. Bando alle ciance, la legge economica che impera nell’era della globalizzazione e del diritto internazionale che proibisce di arraffare con la forza i beni dei vicini, è una sola: si arricchisce lo stato che esporta più di quel che importa. Facciamo qualcosa. San Francesco è il top, d’accordo, ma è un po’ lontanuccio, forse esiste qualcosa di altrettanto bello ma più vicino a noi e abbordabile: una sana autarchia. Se è vietato instaurare un regime autarchico – gli accordi internazionali lo proibiscono e le ritorsioni sono pronte – è tuttavia possibile farlo zitti zitti. Non i tecnici e i politici possono salvare la patria, ma il popolo unito in un rinnovamento spirituale necessitato dal guicciardino particulare – mai matrimonio è prolifico quanto quello del diavolo con l’acquasanta. Non occorre che il popolo rinunci ma che scelga; nessuna punitiva austerità solo patriottismo nella spesa. Si abbandoni il prodotto straniero - in certi frangenti storici l’esterofilia è chiusura mentale e non apertura -, si comprino manufatti italiani. S’investa sugli italiani che in Italia investono.

    Quando vengono da noi, gli stranieri si portano dietro anche la cartigenica e intatta la riportano in patria, tanto ci sono i nostri mari. Basta con la volgare moda dei viaggi all’estero, non c’è più niente da vedere anche perché nessuno ha più sguardo, si va solo in cerca di feticci che della cecità sono l’emblema. Lasciamo il voyeurismo ai popoli assatanati, a noi basti sdraiarsi in un prato ad ascoltare il canto dei grilli, ad annusare il profumo delle viole. Con l’autarchia dell’amore e della disperazione il paese imbruttirà? Diverrà bellissimo, come lo fu negli ultimi anni Venti e nei primi anni Trenta, un’autarchia di fatto che precede quella imposta dal regime fascista. Lawrence era estasiato di respirare l’italica aria di quegli anni, le piazze di De Chirico, le immortali donne di Campigli e le magiche città di Bontempelli, i cieli degli aereopittori e i paesini di Penna, le lumache di Montale e gli interni di Casorati testimoniano di un’Italia che, a dispetto dei proclami fascisti all’azione, era tutta ripiegata su se stessa, pensierosa, assorta nella sua eternità. Non c’era alcun bisogno di spendere miliardi di euro per inventarsi una blasfema particella di Dio, Lui stava in ogni bottiglia di Morandi o di gassosa, che fresca sotto il solleone era la ricompensa di una sudata settimana di onesto lavoro. All’Angelus si deponevano gli attrezzi e si ringraziava.