Great writing

Mariarosa Mancuso

Un grido di dolore. E una pressante richiesta. “Voglio una donna!”, urlava Ciccio Ingrassia arrampicato sull’albero in “Amarcord” di Federico Fellini. Roger Rosenblatt ha i toni più composti di chi scrive benissimo (da romanziere, da giornalista, da commediografo) e come piedestallo sceglie il New York Times. Due parole sole – Great Writing – per chiedere ai romanzieri e ai memorialisti di fare sul serio. E’ stufo di vederli cincischiare, di sentirli parlare delle loro fisime come se fuori non esistesse un mondo fatto di carne, sangue, dolore, morte, anche di eroismi degni del nome.

    Un grido di dolore. E una pressante richiesta. “Voglio una donna!”, urlava Ciccio Ingrassia arrampicato sull’albero in “Amarcord” di Federico Fellini. Roger Rosenblatt ha i toni più composti di chi scrive benissimo (da romanziere, da giornalista, da commediografo) e come piedestallo sceglie il New York Times. Due parole sole – Great Writing – per chiedere ai romanzieri e ai memorialisti di fare sul serio. E’ stufo di vederli cincischiare, di sentirli parlare delle loro fisime come se fuori non esistesse un mondo fatto di carne, sangue, dolore, morte, anche di eroismi degni del nome. E’ stufo di vedere gli scrittori che giocano con il dizionario, di osservarli mentre inventano stranezze, invece di immaginare situazioni sensate. Che bello sarebbe se parlassero della nostra vita, dice, non delle loro paturnie e dei loro ombelichi. Magari suggerendo come comportarsi e cosa pensare, compito che ormai neppure la politica si assume più.

    Era dal “Canone occidentale” di Harold Bloom che nessuno lanciava un tale macigno nel placido laghetto della letteratura contemporanea (“placido” e “laghetto” con il senno di poi: chi ora ci nuota crede di trovarsi in un oceano tempestoso, in balia dei flutti da bestseller). Torto non possiamo dargli, anche coltivando un’idea di letteratura più frivola della sua. Dove per esempio i romanzi scritti bene valgono più di quelli scritti male. Se ne ricaviamo anche una griglia per guardare il mondo – una griglia, non un messaggio: la differenza sta nel fatto che nella prima ci stanno i buoni e i cattivi, con motivazioni nobili o ignobili, nel secondo solo animucce petulanti – tanto di guadagnato.

    Se leggendo l’orribile sorte di certi criminali nei romanzi di Charles Dickens (assieme a Shakespeare e a Francis Scott Fitzgerald tra gli autori prediletti da Rosenblatt) decidiamo di condurre una vita specchiata, meglio per noi e chi ci vive accanto. Vorremmo però modestamente far presente che la noia incattivisce, quindi ogni manufatto artistico che procura svago o divertimento un suo minuscolo contributo a migliorare il mondo lo fornisce. Siamo un po’ meno d’accordo quando Rosenblatt sostiene che gli scrittori acrobati fuggono la vita vera, “come se le persone non fossero strane abbastanza”. Certo che lo sono, ma dopo un editing al cui confronto quello che Gordon Lish fece a Raymond Carver è una limatura di unghie.

    La richiesta è legittima. Anche noi preferiamo i romanzi di peso specifico ai romanzi di carta velina. Pur non condividendo il pari merito tra “Il dottor Zivago” e “Uomo invisibile” di Ralph Ellison. Per non parlare dell’illeggibile Lessing accostata a Philip Roth (nobilitato dai romanzi recenti sugli acciacchi, non è detto che le seghe continue del “Lamento di Portnoy” facciano parte dei valori e disvalori su cui è necessario prendere posizione). Anche noi abbiamo pensato che a certi scrittori bisognasse impedire di nuocere. Poi abbiamo sentito Ismail Kadaré dire: “I cattivi romanzi sono le prime linee che cadono sotto i colpi del nemico, per consentire ai bravi di avanzare”, e abbiamo guardato con occhi più benevoli la spazzatura che ingombra la scrivania.

    L’ultimo libro di Rosenblatt si intitola “Kayak Morning: Reflections on Love, Grief, and Small Boats”: un memoir scritto tre anni dopo la morte improvvisa della figlia malata. Da mettere vicino ai diari della vedova Didion e di Joyce Carol Oates. Lutti raccontati, che aiutano a far fronte ai lutti vissuti. Sempre, per chi li firma. Per chi li legge, a condizione che siano scritti con la grazia che letteratura comanda. In caso contrario, per ricordarci il nostro destino mortale, un necrologio basterebbe.