Taranto, dati impeccabili ma vecchi sui tumori (nel nord-est va peggio)
Poco da dire sulla qualità dello “Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio di inquinamento (Sentieri)”. Riporta le schede di 44 su 57 siti esposti al rischio, tra i quali quello di Taranto, segnato dalla presenza dell’Ilva, la più grande acciaieria europea. La documentazione statistico-epidemiologica è accurata, l’analisi scrupolosa, i possibili fattori confondenti non sottaciuti, le condizioni socio-economiche delle popolazioni interessate opportunamente considerate nei risultati.
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Poco da dire sulla qualità dello “Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio di inquinamento (Sentieri)”. Riporta le schede di 44 su 57 siti esposti al rischio, tra i quali quello di Taranto, segnato dalla presenza dell’Ilva, la più grande acciaieria europea. La documentazione statistico-epidemiologica è accurata, l’analisi scrupolosa, i possibili fattori confondenti non sottaciuti, le condizioni socio-economiche delle popolazioni interessate opportunamente considerate nei risultati. Poco da dire, di conseguenza, anche sulla scheda specifica di Taranto che risalta come uno dei siti a maggior rischio ambientale a livello nazionale. Tanto che si fa notare come a Taranto “gli incrementi di rischio osservati sono riferibili a esposizioni professionali a sostanze chimiche utilizzate e/o emesse nei processi produttivi presenti nell’area. Il fatto che gli stessi inquinanti siano riscontrati anche nell’ambiente di vita, a concentrazioni spesso rilevanti, depone anche a favore di una componente ambientale non trascurabile”.
In estrema sintesi: nel territorio di Taranto si registrano tassi di mortalità generale e mortalità per tumori, per alcune specifiche forme tumorali (in particolare del polmone), per malattie dell’apparato respiratorio e per malattie dell’apparato digerente che sono significativamente e non di poco superiori ai corrispondenti tassi regionali (mediamente attorno a un più 10 per cento per la mortalità generale e a un più 15 per cento per quella tumorale). E questa super mortalità è opera pressoché esclusiva delle esposizioni professionali e dell’inquinamento ambientale provocati dalla grande acciaieria. Si tratta, ripeto, di evidenze, che non si possono ragionevolmente mettere in discussione.
Perché allora proprio queste evidenze lasciano con uno strano sapore d’inconcluso in bocca, alimentando un senso di scetticismo, come se, oltre a rappresentare la realtà, un’altra ne nascondessero che travalica il caso stesso di Taranto e dell’Ilva?
Intanto, prima questione, i dati di mortalità su cui si fonda tutto il progetto Sentieri (pessima pensata: fa venire in mente la soap più lunga e sciropposa nella storia della televisione) sono relativi al periodo 1995-2002 e sono decisamente troppo vecchi. Ora, si possono dire tante cose al riguardo, che dati di questo tipo sono a relativa, e normalmente modesta, evoluzione temporale, che altre indagini più circoscritte, e di minore valenza scientifico-epidemiologica, di poco più recenti, confermano le tendenze in atto da tanto tempo e via di questo passo. Ma resta il fatto che qui si ragiona con dati vecchi minimo di un decennio e non è un ragionare così inappuntabile, su tale base.
E poi, seconda questione, i dati, con accompagnamento di analisi e interpretazioni, approdano alle conclusioni testé ricordate sul surplus di mortalità a Taranto in base al confronto con i corrispondenti dati regionali. Nessuno vuol mettere in discussione la piena – e ribadisco piena – appropriatezza dei dati regionali di mortalità tumorale della Puglia per giudicare quelli di Taranto, e tuttavia anche a questo proposito una qualche precisazione si impone. Per capirci, i dati di mortalità tumorale di Taranto sono sì del 15 per cento superiori a quelli della Puglia, ma anche così conciati restano assai largamente al di sotto di quelli di regioni come il Veneto e la Lombardia. Così appare pur sempre un tantino curioso che si scateni il pandemonio attorno a tassi di mortalità tumorale che a Taranto apriti cielo mentre in Veneto e in Lombardia verrebbero accolti tra gli applausi. Ora, lo sanno anche i sassi che la mortalità per tumori è, per un insieme di motivi che non si possono discutere in questa sede, assai più bassa al sud rispetto al nord, ma sempre Italia è e il fatto resta. Non voglio, con questo, dire che qualche magistrato dovrebbe ingegnarsi a vedere di chiudere pure il Veneto e la Lombardia, ma suggerire che anche in indagini così accurate e in un certo senso specialistiche si inseriscano termini di riferimento utili per una considerazione delle problematiche in questione in un ambito territoriale, e pure culturale, più ampio. Peraltro, ne guadagnerebbe l’applicazione di un principio di precauzione che, se concepito in modo integralistico, sconfessa assieme il buon senso e l’epidemiologia. Per esempio, sembra piuttosto realistico ritenere che dal provvedimento di chiusura dell’Ilva verranno danni alla salute capaci di pareggiare i vantaggi che si pensa di ricavare con la chiusura. I determinanti di fondo della salute sono anche le condizioni socio-economiche e gli stili di vita di un determinato territorio. Alzi la mano chi pensa che si avrà un miglioramento in questi ambiti in quel di Taranto a lavoro morto.
E così si arriva alla questione cruciale. C’è una distanza abissale tra informazione e potere che, sia detto, non è sempre e solo colpa del potere – che, pure, ne ha una concezione ancillare che fa ormai a pugni con la rilevanza che l’informazione statistico-quantitativa riveste nelle società post industriali d’oggi. Mi resta difficile capire, ad esempio, perché ancora non si sia in grado di fare indagini epidemiologiche capaci di fotografare e interpretare la “piena” attualità. So bene che per valutare i livelli di morte e di malattia in popolazioni diverse e diversamente sottoposte a rischi e fattori di morte e di malattia occorrono lunghi periodi di osservazione così da raccogliere volumi di dati capaci di portare a giudizi statisticamente affidabili. Ma tecniche più immediate di valutazione epidemiologica sono possibili e andrebbero usate maggiormente e con una continuità tale da portare alla prefigurazione di vere e proprie tendenze.
Manca poi il senso dell’allarme. In una situazione epidemiologico-sanitaria dell’Italia in cui proprio gli esperti non fanno che gridare “aiuto, il lupo!” un giorno sì e l’altro pure si finisce per non distinguere più nulla, la realtà dalla pura invenzione. Con informazioni che non valgono la carta su cui sono scritte s’è cosparsa l’Italia da cima a fondo di paure risibili. Così, dei veri problemi ci accorgiamo sempre a babbo morto, quando sprofondano in qualche inatteso (e non così pienamente consapevole, come ritiene invece di essere) ingorgo giudiziario.
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