De bello Taranto

Antonio Gurrado

L’Ilva sta chiudendo, il Taranto è fallito e neanche la birra Raffo si sente molto bene”. Parafrasa Woody Allen lo scrittore Giuliano Pavone, tarantino trapiantato a Milano che ha raccontato con ironia le varie anime della sua città d’origine nel romanzo “L’eroe dei due mari” (Marsilio). I ministri che domani si presenteranno a Taranto troveranno infatti una città in crisi d’identità. Il famigerato caso Ilva viene percepito come culmine di un progressivo smottamento delle certezze dei tarantini.

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    L’Ilva sta chiudendo, il Taranto è fallito e neanche la birra Raffo si sente molto bene”. Parafrasa Woody Allen lo scrittore Giuliano Pavone, tarantino trapiantato a Milano che ha raccontato con ironia le varie anime della sua città d’origine nel romanzo “L’eroe dei due mari” (Marsilio). I ministri che domani si presenteranno a Taranto troveranno infatti una città in crisi d’identità. Il famigerato caso Ilva viene percepito come culmine di un progressivo smottamento delle certezze dei tarantini: la produzione di cozze è fortemente limitata dall’inquinamento marittimo; la squadra di calcio è fallita; la birra locale resiste sugli scaffali da quasi cent’anni ma, nonostante il recente inserimento nel logo dell’eroe eponimo Taras, l’acquisizione del marchio da parte della Peroni e la chiusura dello stabilimento cittadino sembrano ancora una ferita aperta. Dai giornali traspare l’immagine di una città tramortita e spaccata, in cui c’è chi protesta contro il sequestro dell’Ilva e chi protesta a favore. “Questa però è in buona parte una forzatura mediatica”, precisa Pavone. “Al contrario, credo che un aspetto positivo di questa vicenda sia proprio il necessario abbandono di certi opposti estremismi e il riavvicinamento dei due schieramenti: gli ambientalisti sono solidali con gli operai e questi ultimi non dimenticano mai di spendere una parola per l’ambiente. Questa ragionevolezza è per certi versi sorprendente, considerando l’estrema delicatezza della situazione, e credo che vada sottolineata in positivo”, dichiara al Foglio. “D’altra parte è inevitabile: credo che in ogni famiglia ci sia un lavoratore dell’Ilva e contemporaneamente ogni famiglia sconta in qualche modo i danni che la grande industria porta con sé”.

    Meno ottimista, o più ottimista a seconda della prospettiva, è l’autore Maurizio Cotrona, ministeriale tarantino a Roma e collaboratore del webmagazine Bombacarta fondato da padre Antonio Spadaro. Nel suo romanzo “Malafede” (Lantana) Taranto è un lontano ricordo del protagonista, una specie di male necessario da frequentare il meno possibile. “L’Ilva è stata un alibi extralarge per i tarantini”, dice Cotrona al Foglio. “Negli ultimi trent’anni questo gigante siderurgico ha ridotto all’osso la possibilità di usare un margine di crescita con concretezza, fantasia ed entusiasmo”. Quindi, se l’Ilva sparisse con un colpo di bacchetta magico-giudiziaria, sarebbe meglio? “Personalmente respiro meglio solo all’idea. Superata la monocoltura dell’acciaio, Taranto potrà finalmente resistere alla tentazione dello scetticismo e cercare di darsi una dimensione sostenibile con un mix economico fatto di turismo, mitilicoltura, terziario avanzato e di molte altre cose che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare”.

    Non è del tutto d’accordo Cosimo Argentina. Tarantino anche lui, professore in Brianza da vent’anni, nei suoi romanzi ha descritto una Taranto infernale e celiniana, un buco nero che divora anche chi è riuscito a trasferirsi altrove. In tempi non sospetti, Argentina ha dedicato all’Ilva il suo ultimo romanzo “Vicolo dell’acciaio” (Fandango). “Io stesso sono un prodotto del siderurgico perché mio padre lavorava all’Italsider”, rivela al Foglio. “Se l’Ilva non ci fosse più verrebbe fuori una nuova generazione non solo impoverita ma anche costretta a reinventarsi, con vantaggi e svantaggi: basta pensare alla parte di tessuto sociale estraneo alla fabbrica ma che da decenni si appoggia sulle commesse industriali. Il fatto è che, quando ci lavorava mio padre, decine di migliaia di famiglie campavano con l’Italsider mentre oggi sono molte meno; e soprattutto, indipendentemente dalla magistratura, prima o poi si arriverà a una chiusura dettata dalla concorrenza globale. L’acciaio dell’Ilva presto sarà improduttivo a fronte dei competitori extraeuropei, e il benessere creato dall’industrializzazione verrebbe meno comunque”.

    La questione centrale sembra essere proprio l’identità cittadina. Oggi Taranto ha 200.000 abitanti, spiega Cotrona, “ma dopo un decennio di smottamenti riscoprirà la voglia di essere una bella piccola città, da 70-80.000 abitanti, com’era prima dell’arrivo del Leviatano”. Argentina concorda: “Senza Ilva i tarantini dovrebbero riambientarsi in una città diversa, più piccola, riscoprendone la vocazione iniziale ossia la pesca, la Marina Militare”. Il discorso però, secondo Argentina, deve necessariamente trascendere l’Ilva: “Oltre al siderurgico e alla marina, a Taranto ci sono l’Eni e la Cementir, ma c’è anche un alto tasso di disoccupazione. Evidentemente qualcosa non quadra nel sistema: la grande industria non ha consentito lo sviluppo del microtessuto sociale, come invece è stato possibile nel Salento che qualche decennio fa era molto più arretrato di noi. Oggi invece il Salento brulica di turisti italiani e stranieri mentre gli stabilimenti della costa tarantina sono semivuoti. L’eventuale turista si domanda: perché dovrei andare in vacanza nella Manchester d’Italia?”. Rincara Pavone: “Anche se l’Ilva non chiudesse, Taranto dovrebbe comunque pensare a un’alternativa: è da decenni che il siderurgico non riesce a sopperire alla crisi occupazionale, e dai cittadini l’Ilva viene percepita più come ‘posto’ che come effettivo elemento di identificazione”.
    Fatte le debite proporzioni, non è peregrino azzardare un parallelo fra il caso Ilva e la vicenda pirandelliana della squadra del Taranto, attorno alla quale – negli anni gloriosi e tragici di Erasmo Iacovone, il cannoniere morto in un incidente stradale nel 1978 – si era orgogliosamente cementata l’identità cittadina. Quest’estate il Taranto è passato dalla mancata vittoria del campionato di Prima Divisione (l’ex C1) ai festeggiamenti per un ripescaggio in serie B rivelatosi poi uno scherzo di dubbio gusto, e infine al fallimento della società che a settembre ripartirà dai Dilettanti: un’altalena fra illusione e delusione che ricorda l’atteggiamento ambivalente dei tarantini nei confronti del siderurgico, foriero di lavoro e degrado, benessere e malattia al tempo stesso. “Però mi piacerebbe pensare che il parallelismo vada fatto con le modalità che hanno portato alla rinascita del club piuttosto che al fallimento”, argomenta Pavone. “Pochi mesi fa i tifosi hanno dato vita a un’associazione di promozione sociale, la Fondazione Taras 706 a.C., che ha creato la nuova società sportiva lavorando con istituzioni e imprenditoria perché si arrivasse entro il tempo limite all’iscrizione in serie D, evitando la scomparsa del club. Il nuovo Taranto è la prima squadra di calcio in Italia fondata dai suoi tifosi. Nella realtà tarantina, storicamente caratterizzata da inerzia e individualismo, quest’esperienza di democrazia partecipata fa ben sperare”.

    Sarà possibile esportare sull’Ilva il modello calcistico, con una sinergia fra popolazione, istituzioni e impresa? Argentina è scettico: “Non so, ho fatto un recente giro delle associazioni culturali e civiche, giornali locali eccetera, e ognuna sembrava convinta di essere l’unica ad agire bene in città. E poi la nuova squadra del Taranto è improvvisata, ha prospettive abbastanza nere: non si vincono le partite solo col blasone e col nome di una squadra che è stata dodici anni di fila in B. Questo è indubbiamente un tratto comune fra calcio e industria”, dice al Foglio. “E poi l’Ilva, la squadra e la città hanno un nesso originario, una specie di maledizione: è come se il tarantino dovesse sempre pagare un conto più salato degli altri per quello che ottiene. Il presidente del Taranto che ha investito di più è lo stesso che l’ha portato al fallimento. Per cinquant’anni l’industrializzazione ha arrecato una specie di benessere però inscindibile dall’inquinamento. Entusiasmo e declino simultanei sembrano scritti nel destino della città e sono legati a un immobilismo, questo sì molto tarantino, che trascina con sé l’assenza di coesione”.

    La storia recente ha dunque fatto di Taranto una città contraddittoria, dai facili entusiasmi e dagli altrettanto facili scoramenti. Nel suo romanzo Pavone narra la parabola di Luis Cristaldi, il campione più forte della Serie A che fa voto di giocare una stagione in riva allo Ionio. La città intera gli si affida ciecamente, tanto che qualcuno scrive su un muro: “Cristaldi fa’ tu”; ma quando le cose volgono al peggio, una mano anonima trasforma la scritta in “Cristaldi fangù”. Chissà se può valere anche come metafora per l’Ilva. Pavone, se non altro, intravede in questi giorni convulsi una nota di speranza, ritenendo che l’affaire giudiziario possa paradossalmente ricompattare la città: “La spaccatura maggiore in realtà è fra chi tifa per la chiusura e chi invece crede che lavoro e ambiente possano essere conciliabili. Ormai però quasi tutti i tarantini sono consapevoli che stavolta o si vince o si perde tutti insieme”. Vedremo.

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