A tavola con Dostoevskij

Stefano Di Michele

Un’ombra di Dostoevskij sfiora, a un certo punto, persino le polpettine di melanzane – rientrando le stesse, pare, nella consolante certezza del principe Myskin: “La bellezza salverà il mondo” – e dunque, nell’impegnativa prospettiva, anche un fritto ben riuscito fa la sua parte. Uno sberleffo di Ennio Flaiano alita sul collo mentre ti illumini davanti alla bottiglietta di gazzosa, con due zeta – le ultime tracce del mirabile manufatto si perdevano in qualche film con Aldo Fabrizi e Ave Ninchi – e ti dai l’aria da esperto del chinotto artigianale: “Ogni mattina a Roma s’alza un fregno”.

    “Ma che bontà, ma che bontà, / ma che cos’è questa robina qua, / ma che bontà, ma che bontà, / ma che gustino questa roba qua…” (Mina, “Ma che bontà”).

    “Eataly di Roma è una Disneyworld della bellezza italiana” (Oscar Farinetti)


    Un’ombra di Dostoevskij sfiora, a un certo punto, persino le polpettine di melanzane – rientrando le stesse, pare, nella consolante certezza del principe Myskin: “La bellezza salverà il mondo” – e dunque, nell’impegnativa prospettiva, anche un fritto ben riuscito fa la sua parte. Uno sberleffo di Ennio Flaiano alita sul collo mentre ti illumini davanti alla bottiglietta di gazzosa, con due zeta – le ultime tracce del mirabile manufatto si perdevano in qualche film con Aldo Fabrizi e Ave Ninchi – e ti dai l’aria da esperto del chinotto artigianale: “Ogni mattina a Roma s’alza un fregno”. Un ammonimento scivola letteralmente tra le mani, mentre tiri fuori posate e tovagliolo dalla confezione che porta stampato: “La vita è troppo breve per mangiare e bere male”. Alle undici di un’afosa serata di agosto, mentre la cicoria ti scruta invitante da una cesta, tra meloni gialli e cocomeri micro “anguria baby. Dolce, croccante e a polpa rossa, ricca di licopene (carotenoide)…”, intorno una ressa: chi acquista zenzero chi uno scorfano chi del formaggio al tartufo. Sarà che è un periodo in cui tutti cucinano (in televisione, replicando e peggiorando successivamente l’effetto a casa), tutti parlano di cucina e di cibo, non c’è scampo e non c’è tinello da cui, prima o poi, crudelmente e improvvisamente, non saltino fuori minacciosi tagliolini al limone – e un posto migliore di questo, per tentare l’azzardo senza rischiare l’affondo, pare difficile da trovare. Certo, improbabile che possa arrivare fin qui, con animo sereno, un discepolo di Elias Canetti (“Ognuno dovrebbe vedersi mentre mangia”), ma pure, tra il primo e il secondo, la birra e il vino, persino opere originali di Modigliani su all’ultimo piano e panettieri al lavoro a piano terra, qualche suggestione si incrocia – per dire, “lezioni di cucina tematica per bambini con la mamma e/o il papà”. Il quale papà, per inciso, nel tardo pomeriggio, pare aggirarsi, almeno decuplicato, per i 17mila metri quadrati a raccattare saporose mozzarelle di bufala e ispirato Culatello di Zibello e pomodoro tondo insalataro, mentre diverse scuole di pensiero, tra le bramose single quarantenni/cinquantenni presenti si confrontano: “L’ha mandato la moglie a fare spesa, così serve a qualcosa, lo stronzo”. “Macché, si capisce benissimo che la moglie è in vacanza, è venuto a far spesa per la cenetta con l’amica, lo stronzo” – il Comunque Stronzo.

    L’immensa e bellissima struttura progettata da Julio Lafuente per i Mondiali del ’90 a Roma, come terminal per Fiumicino – e subito dopo abbandonata a un destino di degrado e di rovina – ha qualcosa della cattedrale: per l’imponenza, certo, e perché immediatamente, messo piede dentro, si avverte una certa, diciamo così, sospensione dei normali ritmi – aho, che caldo! ma vaffan….! ’nvedi chi se vede! – che uno si lascia alle spalle, insieme ai 35 gradi in marcia verso i 40, prima di un improvvisato faccia a faccia con le pesche tabacchiera e la cioccolata piemontese: come una calorica sacralità, una ritrovata dolcezza, una lentezza che opportunamente (e lestamente) occorre assumere. C’è Claudio Baglioni nell’aria, a un certo punto sugli schermi sospesi un po’ dappertutto pare d’intravedere Toto Cutugno dopo Battisti – possibile?, tutto è possibile, quelli di sicuro sono i Pooh: ché celebrandosi qui dell’italica bellezza i sapori, hanno da fare opportuna colonna sonora opportuni concerti anni Settanta. Quattro piani, con oltre venti ristoranti e quasi quindicimila prodotti in vendita – certo la qualità gioca un ruolo, ma forse un ruolo gioca anche la memoria: appunto, la gazzosa che non vedevi più, quel tale sapone, la grappa che pareva sparita – un po’ scoperta, il ventenne col chinotto; un po’ (ri)scoperta, l’arzilla pensionata col detersivo di gioventù. Posti come questo Eataly sono oggettivamente a rischio contaminazione radical chic, un po’ di fighettaggine e un po’ di politicamente corretto… Ma a tarda sera, il pericolo sembra evitato. “Pare la festa dell’Unità” – insomma, gente che passeggia, che mangia, che guarda – bimbi in carrozzina, bimbi in braccio, bimbi che affrontano temerariamente certi gamberetti fritti, coppie saggiamente borgatare con aggravio di rimorchio di cognata, “’nvedi, li mortacci loro, che t’hanno combinato qua dentro…”. A un certo punto – saranno i Pooh, sarà lo stomaco pieno, ma “Piccola Katy” e la mostarda di Cremona sembrano intendersi – tutto si fa consolante, rassicurante: come se ci si trovasse presso il cinematografico e indimenticabile e poco pretenzioso “re della mezza porzione”. Sarà che a Roma, appunto, a ogni levata di sole “s’alza un fregno”, ma qualunque cosa tende inevitabilmente a prendere l’aria di una sorta di Festa de’ noantri, persino e meglio ancora di felliniana trattoria (“Come magni, cachi!” “Sì, ma come cachi male!”). A Torino, sotto la Mole, dicono e assicurano, dove con i gianduiotti c’hanno già pratica, il figo chic di Eataly dura di più… Poi, il gran (eccessivo?) evocare la bellezza – dal cotechino agli struggenti ritratti di Modigliani – e forse il linguaggio andrebbe un po’ diversificato, tra l’insaccato e il collo della modella. O forse no: si capisce (si subisce?) che per gli appassionati il bello è il risaputo quel che piace (la bellezza del calcio, la bellezza di una tagliata di pere e cetrioli, la bellezza persino di Berlusconi: tutto va civilmente compreso e tutto saggiamente accolto), dall’universo agroalimentare a “Femme aux macarons” (Modigliani, 1917, olio su tela) – sotto il cui sguardo non si negano, anzi a ragione si pavoneggiano, i romani col cacio e pepe.

    “Io volevo fare in Italia il più bel negozio del mondo”. A Roma, precisamente – che poi, in realtà, è un sogno fatto nel bazar di Istanbul, dove puoi stare tre giorni, e per tre giorni sorprenderti in continuazione, prima di trasportarlo all’Ostiense. Oscar Farinetti è certo un singolare personaggio, che parla facendosi evocativo di Maurizio Ferrini (il mitico venditore di pedalò di arboriana memoria) pur essendo di Alba come il tartufo e il vincotto, e intanto butta nella discussione Dostoevskij e Cervantes (il suo amico Carlo Petrini gli ha detto, e lui ne ha tratto dovuto godimento, che è per metà Don Chisciotte e per metà Sancho Panza), Pirandello che discetta sull’italico sconto e infine Caio Sergio Orata – e chi è mai costui, così itticamente evocativo? “Un cavaliere romano, un godereccio pazzesco, ne parla Cicerone…”, assicura Farinetti, e la povera orata, che da qualche parte dentro un forno cuoce, da ’sto Caio Sergio Orata prese nome e vocazione al tegame. E’ un mercante, Farinetti, “categoria bistrattata” – mercante peraltro di gran successo, e soprendentemente d’animo poetico, “ognuno di noi mette un po’ di poesia in quello che fa, è la leva della felicità, persino quando ti sorride un casellante al casello, solo che a trovarli, adesso, i casellanti al casello”, ma sempre e comunque “un pelino di poesia” necessita e produce: pure, assicura, buoni profitti. Fu Tonino Guerra, rievoca, a instradarlo poeticamente, “un genio assoluto, che mi ha cambiato la vita” – già in una divertentissima intervista a Massimo Gramellini sulla Stampa pragmaticamente evocato. Straordinario aneddoto, che necessita di una premessa. Dunque, prima di Eataly Farinetti fu per un decennio l’uomo di Unieuro – ramificata catena di elettrodomestici & affini. Un giorno si azzardò a chiedere al suo amico Guerra (“l’aria l’è cla roba lizira / che sta dalonda la tu testa…”) di mettere la sua bella faccia da non inurbato nella pubblicità per lavapiatti e frullatori – ne venne, fuori, ricordate?, il tormentone “Gianni, l’ottimismo è il sale della vita!”, il quale Gianni peraltro esisteva davvero, ma era sordo, anche se nello spot il poeta gli parlava al telefono, e così il mercante chiese come fosse possibile, e il poeta così inappuntabile replicò: “E’ poesia, tu non puoi capire”. Ma prima di convincersi Tonino Guerra a lungo e testardamente, e non poco a ragione, si negò: “Ho detto di no a Fellini e Antonioni, pensa se dico di sì a te”. All’ennesimo tentativo Farinetti tira fuori il libretto degli assegni e ci scrive sopra: “100.000.000/centomilioni”, di lire, vabbè, ma sempre una bella sventagliata di ottimismo nella vita. Guerra vide, si accertò, si fece titubante – invece dell’aria, 100.000.000/centomilioni dalonda la su testa. “Gli do l’assegno e lui comincia a dondolare. Poi lo piega e lo infila nel taschino: aveva una camicia da montanaro, a quadri rossi e neri. ‘Mi concedo a te come prostituta al suo cliente… Tuttavia mi piace la voglia che hai di infondere un po’ di poesia a questi prodotti di m…. che vendi. Mettiamoci al lavoro’…”. Dice molto del genio di Guerra, la faccenda, e dice molto della vocazione al complicato di Farinetti. Che dunque è mercante – ma con substrato poetico, come sta il pan di Spagna allo zuccotto. Gli si artiglia il baffo alla Guerra, quale gatto in piena furia, quando sente declamare Elias Canetti sull’esplicita nostra bruttezza mentre mangiamo, evocata dal premio Nobel – “Macché, mentre mangiamo siamo bellissimi, bellissimi!”, e s’insinua ancora la conclamata bellezza tra gli insaccati, “pensa a quelli che fanno il Culatello di Zibello, a come manipolano quella vescica, una bellezza incredibile, credimi!”. E la bellezza si sposa all’incanto, alla memoria, al suo personale amarcord, a ciò che prima di Unieuro venne, insieme a ciò che dopo Unieuro è venuto. “La categoria degli elettrodomesticari nasce dalla categoria dei bombolari. I bombolari erano quelli che nel Dopoguerra andavano nei paesi, davanti alle chiese, a presentare alla gente i nuovi fornelli con due o tre fuochi. Sai perché andavano davanti alle chiese? Perché si trattava di miracoli… Pensa a una lavatrice, metti roba sporca, esce pulita: miracolo!”.

    A Farinetti piace raccontare/raccontarsi/stupire. Con la lavatrice o il Culatello o la sua storia – la sua storia di figlio di un partigiano, “papà Paolo, comandante della Matteotti”, e dice che ha “avuto un culo pazzesco, il mio papà, nel vivere quei giorni fantastici, qui diciotto mesi tra il ’43 e il ’45”, e uno resta come minimo interdetto: culo pazzesco con i brutti ceffi nazisti e le brigate nere sul collo?, e lui replica che sì, “perché ha potuto dedicare il pezzo più importante della sua vita a un fine straordinario”, e certo la libertà e la democrazia, ma anche, e lo spiega così, “il vivere il miracolo di passare dalla guerra ai consumi”. Dietro il primo banco alimentare della famiglia, capì Farinetti “la supremazia della matematica, senza numeri non andiamo da nessuna parte. E mio papà mi insegnò anche la teoria dei contrasti apparenti, cioè cercare di mettere insieme valori positivi con altri che appaiono contrastanti tra di loro: come informalità e autorevolezza, onestà e furbizia, orgoglio e autoironia”. Nel farsi imprenditore di successo, personaggio mediatico – che in una puntata di “Piazza pulita” fece infuriare Di Pietro: a mettere sale, sia pur sale di eccelsa qualità, sulla coda del finanziamento pubblico che pure Tonino aveva caro, “lui ha dieci milioni di euro in cassa: perché?” – sostenitore di un’apparentemente paradossale teoria che affratella soldi e lentezza, soldi e bellezza, soldi e dolce vivere (che non ha niente a che vedere coi soldi – quando ai soldi si pensa solo a come farli), Farinetti nulla ha mutato né rinnegato né dimenticato (“un fascista è sempre un fascista”, gli spiegava il babbo partigiano, pure se bene, racconta, si è trovato a lavorare con Alemanno e la Polverini; meno con qualche loro burocrate, “gli ho spiegato che non tutte le scimmie diventano uomini”), e quando sente in televisione cantare Arisa la vedrebbe benissimo intonare la sempre cara e suggestiva “Bella ciao”. “Sbagliando moltissimo, e guadagnando anche”, riassume di sé. Con bontà, ma senza coglionaggine – ché brechtianamente di bontà non c’è molto mercato, se di bontà non c’è molta richiesta. E così: “La mia generazione è figlia dei film di Sergio Leone, quelli con Clint Eastwood e Lee Van Cleef. E tutti volevamo assomigliare a Eastwood che era il buono, ma un buono che quando aveva davanti undici bastardi tirava fuori la pistola e faceva fuoco…”. E di metafora in metafora, s’avventura Farinetti pure sul terreno periglioso della politica. E la vede così, mentre intorno soffiano i venti dell’antipolitica: “Non ha senso il rifiuto di tutto. Ci sono cose bellissime a sinistra, e cose belle anche a destra. Sulla classe politica la penso come Giolitti: il 30 per cento è peggio della gente comune, il 30 per cento è meglio della gente comune, il 30 per cento è come la gente comune. Ci sono moltissimi politici mediocri, ma ce ne sono anche di bravi. E in questa situazione soprattutto loro devono avere l’intelligenza politica di sacrificarsi, di autoimmolarsi…”. Ha un eccellente programma minimo di buona politica, Farinetti, per niente disprezzabile – tra riformismo e suggestione, in giorni di magra e spavento: “Bisogna tenere in piedi lo stato sociale, abolire le lobby, gli egoismi organizzati. Senza altruismo si muore”.

    Ma il suo sogno è mettere la gente comune a far la rivoluzione tra fornelli e tinelli, più che spingerla ad assaltare i già instabili palazzi d’inverno nostrani: “Proletari di tutto il mondo, a tavola!”. Certe cose gli tolgono il sonno, dice, “spendiamo più per telefonare alla moglie e dirle ‘cara, butta giù la pasta’, che per la pasta” – ché dieci centesimi dieci, assicura, fanno la differenza tra un ordinario rigatone e un rigatone da lasciarci cuore e gusto”, altro che la “pornografia enogastronomica di certi programmi televisivi” – dove spadellano e spadellano a ritmi industriali, e di quello che in padella c’è quasi mai niente si sa. E contro il senso comune (il buonsenso politicamente corretto a sinistra, il buonsenso finanziariamente corretto a destra), Farinetti gode un mondo nel lasciarsi andare. Così s’infervora contro la teoria del chilometro zero, “è giusto che un americano possa avere il parmigiano reggiano”, che mica si può campare di solo cacio dell’Iowa”, e ancor di più contro la lagna perennemente (montianamente, anche) intonata del gran valore della meritocrazia: “Io sono contro. Se uno nasce ad Alba invece che a Calcutta, che merito ha? Ciascuno di noi ha solo colpi di culo pazzeschi all’inizio della vita. Come è successo anche a me con il mio papà”. Ha spiegato: “I più bravi e meritevoli li hanno assunti a Wall Street e guardi cos’hanno combinato… Tutti a riempirsi la bocca di meritocrazia, ma il 95 per cento degli imprenditori lo è per puro culo. Perché lo era il loro padre…”.

    Ottanta milioni ha investito, in questa Eataly romana, Farinetti. Ottanta. “Chi entra lì dentro deve andare fuori di melone. Punto all’orgasmo”, spiegava all’inizio dell’avventura capitolina. L’orgasmo enogastronomico, pur con tanta letteratura e tante buone intenzioni (chi non ha pensato almeno una volta a una cena che trasporti direttamente dal desco al letto?), è impegnativo, l’arrapamente con l’aceto balsamico chi te lo garantisce?, ma certo i giornali non hanno lesinato il dovuto stupore, tra l’annuncio del “Beaubourg della Gastronomia” e “il nuovo hub del cibo” e “la Ferrari dei supermercati” – e di nuovo qui siamo, nella calca di una sera di agosto, tra stomaco pieno e pieno anche il carrello. A ogni suo Eataly, Farinetti ha intitolato un concetto metafisico, ha proceduto a una sorta di laica consacrazione: la Bellezza a Roma, il Dubbio a New York (“il cliente NON ha sempre ragione”), a Torino l’Armonia, a Genova il Coraggio, a Tokyo ce ne sono addirittura nove di Eataly – banzai!, la solita esagerazione nipponica: in tutto, e per ora, quota diciannove. “Io sono un asino che copia”, ha spiegato a Gramellini. E quindi se qualcuno lo tarocca a sua volta – qualche para-Eataly di minor pregio, di minor seduzione, lui alza le spalle e alza il calice al brindisi. “Copiare è intelligente, imitare è stupido. Un asino con le orecchie di un cavallo resta un asino e la cavalla non gliela dà. Ma si può copiare l’eleganza del cavallo…” – ergo: “Io sono un asino che copia” . E’ stato anche prodotto un apposito “Manifesto dell’Armonia di Eataly”, benintenzionato seppure non precisamente a caratura dostoevskijana – bongustai di tutto il mondo, ecc. ecc., con richiami al Perdono, “un iper dono che si fa a se stessi, ancora prima che agli altri”, ovviamente all’Armonia, “l’armonia con le cose si ottiene ben sapendo che le cose sono di gran lunga meno importanti delle persone”, al santo Dubbio, “convinciamoci che avere certezze è uno stato di infelicità, mentre il dubbio è fonte di felicità e serenità”, quasi alla nobiltà della sconfitta (come in quel famoso saggio di Ivan Morris sui grandi sconfitti), “perdere è bellissimo perché ci fa crescere”, infine il Denaro tentatore, che “deve essere meritato” – saggiamente, a fronte di tanta spudorata ostentazione d’immeritato censo.

    Ogni dieci anni, dice Farinetti, bisogna inventarsi qualcosa – e dunque reinventare prima di tutto se stessi. “Bisogna sempre provare a ripartire da zero, rifare le analisi. Se stai tutta la vita imparato, non ascolti più, non senti più niente… Avresti mai immaginato che Lucio Battisti potesse fare anche delle canzoni brutte? Ma l’ha fatto anche lui… Cambiare, inventare, ricominciare… Fare impresa è importante, persino bello, ma la creatività richiede freschezza… Anche qui, è una questione di bellezza del dubbio… Adoro vendere ciò che ho fatto e ricominciare”. Ed Eataly? Farinetti dice che no, questa creatura non la venderà, “ci sono i miei tre figli, che sono anche più in gamba di me, decideranno loro…”. Un po’ poeta, un po’ imprenditore, un po’ filosofo. Così che qualche mese fa Farinetti fantasticava di voler aprire una catena di negozi chiamati “Perché?” – la civiltà del punto interrogativo! – che “vendono domande”, e disse che l’idea gli era venuta ascoltando Gino Paoli, e forse dove vendono domande è dove ci sono le cose perse (come il chinotto e la gazzosa con due zeta), “un ufficio senza targa e senza età / ed è un ufficio del vento / cose perdute quelle / che son sparite in fondo / a qualche momento chiuso”. Venderà domande, allora, Farinetti? “Non lo so ancora…”. E tra la solida certezza dello squacquerone (ossimoro dovuto) e quella del brunello, un (poetico?) punto interrogativo – “è poesia, non puoi capire”, gli avrebbe detto Tonino Guerra – si stampa sulla fronte spaziosa di Oscar Farinetti. Ormai allegramente danaroso, filosoficamente dubbioso, beatamente armonioso. E sicuramente (benissimo, e piacevolmente) satollo.