L'altra Fukushima

Giulia Pompili

L’effetto farfalla è la suggestiva metafora della “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. Il caos, in questo caso, ha inizio alle 14.46 dell’11 marzo del 2011 al largo delle coste di Miyagi, in Giappone. Il Grande terremoto dell’est, un sisma di magnitudo 9.0 gradi della scala Richter. Le farfalle, invece, non sono quelle che hanno ispirato il matematico statunitense Edward Lorenz per la teoria del battito d’ali in Brasile che provoca un tornado in Texas.

    L’effetto farfalla è la suggestiva metafora della “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. Il caos, in questo caso, ha inizio alle 14.46 dell’11 marzo del 2011 al largo delle coste di Miyagi, in Giappone. Il Grande terremoto dell’est, un sisma di magnitudo 9.0 gradi della scala Richter. Le farfalle, invece, non sono quelle che hanno ispirato il matematico statunitense Edward Lorenz per la teoria del battito d’ali in Brasile che provoca un tornado in Texas. Le farfalle sono quelle della città di Fukushima, dove la centrale nucleare colpita dall’onda del maremoto ha causato l’11 marzo del 2011 il secondo disastro nucleare nella storia dell’uso civile dell’atomo dopo quello di Chernobyl.

    Farfalle mutanti, farfalle modificate geneticamente, farfalle deformi, farfalle radioattive. La stampa (specie quella italiana) ce l’ha messa tutta per rendere la notizia dello studio pubblicato qualche giorno fa sulla rivista scientifica Nature il più possibile vicina a un film di Frank Herbert.
    Alcuni scienziati giapponesi, guidati da Atsuki Hiyama e Chiyo Nohara dell’Università di Ryukyu di Okinawa, hanno pubblicato un articolo sugli “effetti biologici dell’incidente nucleare di Fukushima sulle farfalle blu Pale Grass”, la Pseudozizeeria maha, una specie di insetto estremamente comune in Asia. I ricercatori hanno rilevato che il materiale radioattivo rilasciato dalla centrale nucleare di Fukushima Daiichi ha causato “difetti fisiologici e genetici” non tanto sulle farfalle studiate nel maggio del 2011, quindi due mesi dopo la contaminazione, ma su quelle di seconda generazione, raccolte nel settembre del 2011, e su quelle di terza generazione. In pratica le farfalle che all’epoca del Grande terremoto erano ancora larve hanno subìto delle modifiche più rilevanti rispetto a quelle studiate a maggio, che hanno subìto modifiche genetiche “lievi”. Secondo i ricercatori le farfalle della generazione successiva hanno ereditato i difetti e hanno mostrato mutazioni alle ali, alle zampe e alle antenne, di gran lunga più lunghe di quelle della stessa specie non contaminata.
    Al terrorismo in stile horror di alcuni titoli va affiancato un ragionamento che in effetti i ricercatori, nel lungo articolo su Nature, cercano di spiegare tra le righe. Le farfalle, infatti, sono insetti con un adattamento genetico particolarmente veloce e quindi hanno una capacità recettiva maggiore di altri esseri viventi. Alle scuole elementari, per studiare questo tipo di adattamento, si prende di solito l’esempio delle farfalle di Manchester durante la Rivoluzione industriale. Fino al 1845 tutti gli esemplari di farfalla punteggiata delle betulle (Biston betularia) osservati dai ricercatori erano di colore chiaro. Quando la fuliggine delle industrie cominciò a coprire le betulle, l’adattamento della specie fece sì che pure il colore delle ali delle farfalle si adattasse all’ambiente. Nel 1850 il celebre genetista inglese Bernard Kettlewell rilevò come – in soli cinque anni – la popolazione di Biston betularia inglese si fosse modificata definitivamente.

    Il report scientifico di Nature, già nell’introduzione, parla di “dibattito ancora aperto” sugli effetti dell’esposizione a basse dosi di radiazioni sugli animali, inclusi gli umani, “nonostante la rigorosa documentazione di danni fisiologici sugli animali data dall’esposizione ad alte dosi di radiazioni”. In un breve articolo pubblicato nel Journal of the American Medical Association (Jama) Masaharu Tsubokura, dell’istituto di Medicina dell’Università di Toyko, ha riportato i dati di uno studio condotto sui residenti della città di Minamisoma, a una ventina di chilometri da Fukushima Daiichi. Tra il settembre 2011 – quando almeno la metà degli evacuati della zona erano tornati nelle loro case – e il marzo del 2012 alcuni volontari hanno dosato i livelli di esposizione alle radiazioni sui residenti dai sei anni in su, per un totale di 9.498 rilevazioni. In tutti i residenti è stato rilevato un livello di cesio intorno a 1 millisievert (una tac corrisponde a 15 millisievert). “I livelli di esposizione erano molto più bassi di quelli riportati negli studi anche diversi anni dopo l’incidente di Chernobyl”, ha detto Tsubokura. L’evacuazione della zona e la messa al bando dei cibi potenzialmente contaminati hanno fatto la differenza rispetto al disastro della cittadina ucraina del 26 aprile 1986, dove latte e verdura hanno continuato a essere somministrati alla popolazione per molto tempo.
    Ciò che preoccupa adesso i giapponesi è una malattia meno visibile ma altrettanto letale. E’ il dramma psicologico, la sofferenza, la depressione dei residenti che hanno perso tutto per colpa dell’emergenza nucleare – gli sfollati sono ancora oltre centomila. Secondo le linee guida del governo di Tokyo, che saranno approvate a settembre dalla Dieta, i residenti nella zona rossa, quella più vicina a Fukushima Daiichi, riceveranno al massimo il cinquanta per cento del valore della propria casa come risarcimento.

    Ma c’è anche un altro aspetto in questa tragica storia, l’altra faccia della sofferenza spesso dimenticata: sono i dipendenti della Tokyo Electric Power (Tepco), la società che gestisce l’impianto nucleare di Fukushima. Sempre in un articolo su Jama il professore Jun Shigemura, del Centro medico della Difesa della città di Saitama, ha esaminato lo stato psicologico degli operai che hanno lavorato a Fukushima nei mesi successivi al disastro. Su tutti sono stati rilevati danni psicologici e disturbi post traumatici da stress. Perché non solo almeno trecento di loro continuano a essere sottoposti a dei turni massacranti per decontaminare l’area dell’impianto nucleare (ci vorranno almeno altri quarant’anni), e sono stati esposti a livelli di radiazioni fino a 250 millisievert (oltre quella cifra per motivi di sicurezza i dipendenti vengono allontanati dalla centrale). Non c’è solo la sofferenza fisiologica. Adesso i dipendenti della Tepco “sono diventati il bersaglio della rabbia della popolazione”, ha detto Shigemura in un’intervista al Times. Molti residenti delle zone intorno a Fukushima, pochi mesi dopo il disastro nucleare hanno iniziato a identificare lavoratori della centrale nucleare come diretti responsabili della tragedia. “Sono stati oggetto di vessazioni – ha detto Shigemura – i loro figli sono stati insultati a scuola. Hanno lavorato per il bene del loro paese, ma hanno ottenuto una reazione violenta dalla popolazione. Esattamente come i reduci del Vietnam”.

    I dipendenti Tepco, che attualmente vivono tutti insieme in una caserma d’emergenza allestita in un campo da calcio a qualche chilometro a sud della centrale nucleare, alla richiesta di un commento da parte del Foglio hanno preferito non rispondere. L’unico che ha rotto il silenzio, qualche giorno fa, è stato l’uomo simbolo dei dipendenti Tepco, Masao Yoshida, il direttore della centrale nucleare di Fukushima Daiichi durante il disastro dell’11 marzo. Quando la società ha diffuso i video delle teleconferenze con il quartier generale di Tokyo durante i turbolenti giorni del terremoto, lo abbiamo visto impaurito cercare giustificazioni con l’allora premier Naoto Kan, mentre dalla capitale gli dicevano di abbandonare l’impianto e il governo gli chiedeva di restare in sede. A novembre Yoshida è sparito, “per gravi motivi di salute” scriveva la Tepco in un breve bollettino in cui comunicava il nome del nuovo direttore della centrale. Yoshida si era ammalato. Durante una conferenza stampa a Tokyo tre giorni fa l’ex direttore di Fukushima ha inviato un video, una lunga intervista rilasciata a Hideki Yabuhara – uno dei pochi volontari psicologi che sono stati a Fukushima per sostenere i dipendenti della Tepco –  e racconta la sua versione sull’accaduto di diciassette mesi fa. Yoshida è ricoverato in ospedale per un cancro all’esofago, ha perso i capelli, è dimagrito, e difende i suoi dipendenti: “Senza di loro la situazione sarebbe stata ben peggiore”. Parla della paura di quei giorni. Ha detto di aver temuto per la sua vita soprattutto in tre occasioni nei giorni successivi al Grande terremoto, quando le esplosioni molto forti avevano creato un’apertura sulle coperture dei reattori e la centrale aveva iniziato a immettere nell’aria del fumo. “In quel momento non sapevamo che erano esplosioni di idrogeno – spiega Yoshida – quando abbiamo sentito la prima esplosione ho pensato che saremmo potuti morire tutti”. E le sue paure sono cresciute giorno dopo giorno, ora dopo ora.

    E’ buddista, Yoshida, e cita il Sutra del Loto per descrivere come tutti si avvicinavano ai reattori per controllarne lo stato: “Era come se Budda stesse vegliando su di noi. E guardando quelle persone che lavoravano ai reattori ho pensato ai bodhisattva che emergono dalla terra”. Ha raccontato di quando fumava insieme ai suoi dipendenti nella sala bunker di Fukushima, e di quando ha chiesto a ognuno di loro di scrivere il proprio nome sulla lavagna: “Volevo ricordare il nome di ognuno di loro, nel caso in cui non ce l’avessimo fatta. La nostra unica preoccupazione, in quel momento, era di stabilizzare l’impianto”.
    Fino a un anno fa cercare un colloquio diretto con la Tepco era impossibile. Un rigido silenzio stampa coinvolgeva tutti i gradi dei funzionari della (ormai ex) più grande società elettrica del Giappone. Oggi invece la politica delle comunicazioni ha subìto un cambiamento radicale. Yoshida Mayumi, responsabile del dipartimento Comunicazione della Tepco, risponde al Foglio poco dopo la richiesta d’intervista. E’ un funzionario di Tokyo, non lavorava a Fukushima Daiichi durante la catastrofe. Ci ringrazia per la richiesta e ci dà un’altra versione delle polemiche sui video delle teleconferenze del Grande terremoto – diffusi poco tempo fa dalla Tepco su richiesta del governo ma per la maggior parte oscurati – “Abbiamo lasciato riconoscibili solo il direttore dell’impianto e i membri del governo. Le facce dei nostri dipendenti le abbiamo dovute oscurare per non mettere a rischio la loro sicurezza”, dice al Foglio Mayumi. Ma è vero che la Tepco ha manomesso i dosimetri dei propri dipendenti subito dopo la fusione del reattore 2 e 3 di Fukushima? “Abbiamo aperto un’inchiesta su questa indiscrezione. Stiamo facendo il possibile per assicurare la sicurezza dei lavoratori, ci stiamo occupando della loro assistenza medica e soprattutto del supporto psicologico”. La Tepco è stata accusata soprattutto di essere stata poco trasparente nella gestione dell’emergenza: “Adesso stiamo facendo il possibile per divulgare informazioni al pubblico. D’altronde riconosciamo che è nostro dovere e nostra responsabilità continuare ad ascoltare la gente e dare notizie. Continueremo a parlare e rilasciare informazioni in modo appropriato, in modo che tutti possano accedere a notizie adeguate”. Signor Mayumi, lei sa come sta Masao Yoshida adesso? “L’ex capo impianto è attualmente sotto trattamento medico”.

    La Tepco è stata riconosciuta colpevole del disastro ed è stata quasi completamente commissariata dal governo di Tokyo. A fine luglio ha ricevuto 12,8 miliardi di dollari come prima tranche di un piano di salvataggio pubblico della società, che a breve dovrà affrontare i costi del raffreddamento definitivo dei reattori di Fukushima Daiichi, lo smaltimento dei rifiuti nucleari e i risarcimenti alle famiglie degli sfollati. Per smantellare l’impianto ci vorranno quarant’anni. E la Tepco è responsabile. Non solo secondo le relazioni delle indagini governative ma anche secondo le commissioni indipendenti – l’ultima è quella degli ispettori nucleari dell’Onu. Per tutti la Tepco ha evidentemente sottovalutato i rischi di un terremoto e di un maremoto, ha costruito muri anti tsunami troppo bassi e ha ritardato troppo il raffreddamento dei reattori tramite procedure d’emergenza – quella con acqua di mare, che rende inutilizzabile il reattore in futuro (come anticipato dal Foglio il 12 ottobre 2011). La visita dei 19 ingegneri nucleari dell’Onu alle centrali giapponesi si è conclusa il 9 agosto scorso. Per la prima volta dopo il terremoto e il maremoto dell’11 marzo sono entrati nella centrale nucleare di Onagawa, nel nord del Giappone, situata a circa settanta chilometri dall’epicentro (Fukushima Daiichi si trova a 180 chilometri). Sujit Samaddar, capo delegazione dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’Energia Atomica) che ha accompagnato la commissione Onu ha detto: “Con un terremoto di questa magnitudo, ci saremmo aspettati che l’impianto di Onagawa fosse stato molto danneggiato, ma non è stato così. Questo significa che esistono dei margini di sicurezza significativi nella progettazione”, ha detto Samaddar. E la differenza sta proprio nelle dighe anti maremoto: quella di Onagawa, con i suoi 14 metri, era alta un metro in più dell’onda dello tsunami che ha colpito la centrale l’11 marzo del 2011. A Fukushima la cresta dell’onda superò di quasi nove metri le protezioni, mettendo fuori uso irreparabilmente il sistema di raffreddamento dei reattori mentre piccole quantità di radiazioni già fuoriuscivano dalle scocche di sicurezza danneggiate dal terremoto.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.