L'urlo di Chen terrorizza anche gli isolani giapponesi
E’ bastato che all’alba di domenica scorsa una decina di parlamentari ultranazionalisti giapponesi armati di bandiera del Sol levante sbarcasse sull’isola di Uotsori, minuscolo scoglio dell’arcipelago delle Senkaku (per i cinesi Diaoyu) nel mar Cinese orientale, per far scoppiare in tutta la Cina manifestazioni di stampo nazionalista come non si vedevano da anni, probabilmente dall’era della Rivoluzione culturale di Mao. Da tempo Pechino aveva messo gli occhi sulle Senkaku, ma le priorità erano sempre altre: Tibet, la repressione degli uiguri, Taiwan.
Roma. E’ bastato che all’alba di domenica scorsa una decina di parlamentari ultranazionalisti giapponesi armati di bandiera del Sol levante sbarcasse sull’isola di Uotsori, minuscolo scoglio dell’arcipelago delle Senkaku (per i cinesi Diaoyu) nel mar Cinese orientale, per far scoppiare in tutta la Cina manifestazioni di stampo nazionalista come non si vedevano da anni, probabilmente dall’era della Rivoluzione culturale di Mao. Da tempo Pechino aveva messo gli occhi sulle Senkaku, ma le priorità erano sempre altre: Tibet, la repressione degli uiguri, Taiwan. E poi c’era l’indiscutibile fedeltà al principio del “profilo basso” teorizzato da Deng Xiaoping. Negli ultimi tempi, però, la Cina ha iniziato a estendere le proprie mire sui mari circostanti, scontrandosi con vicini un tempo alleati e con potenze come il Giappone. “E’ stato violato il nostro territorio e la nostra sovranità su quelle isole”, ha commentato un portavoce del ministero degli Esteri di Pechino all’Associated Press, mentre il generale Luo Yuan – considerato un falco dello stato maggiore cinese – chiedeva al governo di “inviare immediatamente cento navi a protezione dell’arcipelago”. Un concetto reso ancora più forte in un commento che l’alto ufficiale ha rilasciato al quotidiano nazionalista Global Times (emanazione diretta del Partito comunista): “Se necessario, dovremo essere pronti a far diventare le Diaoyu un obiettivo della nostra aviazione e a minare le acque che le circondano”. In poche ore, con la tv di stato che diffondeva le immagini delle bandiere nipponiche piantate tra le pietre di Uotsori, in più di venti città della Cina centinaia di persone, scese in strada con striscioni e bandiere nazionali, davano l’assalto a tutto ciò che poteva avere qualcosa a che fare con il Giappone. Decine di sushi-bar venivano attaccati dalla folla inferocita, negozi di elettronica esponevano cartelli con la promessa che da quel momento in poi non avrebbero più venduto televisori, lettori Dvd e altre tecnologie fabbricate a Tokyo. Inni patriottici e slogan contro “l’imperialismo nipponico” si potevano ascoltare nelle piazze di tutto il paese. A Shanghai, davanti al consolato giapponese, una cinquantina di manifestanti cantava l’inno nazionale cinese mentre dava alle fiamme una bandiera nipponica. La polizia non interveniva – se non per cercare di evitare che la folla crescesse troppo – e assisteva impassibile alla devastazione delle proprie auto la cui unica colpa era quella di avere un marchio giapponese (anche se fabbricate in territorio cinese). “Non dateci troppi problemi, per favore”, chiedeva un responsabile delle forze dell’ordine ai capi della rivolta a Guangzhou, segnale incontrovertibile che l’ordine del governo era di non reprimere le manifestazioni. D’altronde, con il cambio dei vertici in programma il prossimo autunno, le autorità non hanno alcun interesse a zittire il fenomeno nazionalista. Anzi, schierarsi contro potrebbe favorire le anime più populiste della politica cinese, destabilizzando il quadro degli avvicendamenti già programmati.
Photoshop per cancellare Taiwan
Le isole Senkaku, formalmente controllate dal Giappone fin dal 1895 (ma Pechino sostiene di averle scoperte nel XV secolo e di averle controllate per secoli), non sono appetite solo dalla Cina: anche Taiwan le rivendica, considerata la vicinanza a Taipei. E così mercoledì scorso, quando quattordici attivisti cinesi e taiwanesi salpati da Hong Kong, Macao e da altri porti costieri a bordo di alcuni pescherecci, hanno raggiunto le isole contese, per la prima volta nella storia si è vista la bandiera cinese sventolare assieme a quella di Taiwan prima di essere piantate entrambe sugli scogli. Uno sviluppo non previsto dalle autorità di Pechino, al punto che la stampa ufficiale e i media di stato hanno dato ampio spazio e risalto all’eroica impresa cancellando però dalle immagini il vessillo degli odiati taiwanesi. Addirittura, come riporta il Ming Pao Daily, quotidiano di Hong Kong, “alcune tv cinesi hanno perfino tentato di colorare la bandiera di Taiwan di rosso, facendola sembrare quella di Pechino”. Lo Xiamen Economic Daily, giornale della provincia di Fujian, si è scusato con i lettori per aver “usato Photoshop”.
I quattordici dimostranti – che hanno negato l’accusa di aver violato la sovranità giapponese sulle Senkaku dal momento che “sono terra cinese”– sono stati subito arrestati, interrogati e rimandati ai loro paesi d’origine dagli amici “delle scimmie nazionaliste giapponesi”, come ha definito i dimostranti nipponici il direttore del Global Times, Hu Xijin. Una misura che ha portato Pechino a protestare con l’ambasciatore di Tokyo, auspicando che “fatti del genere non avvengano mai più”, mentre il premier nipponico Yoshihiko Noda condannava con fermezza “l’ingresso nelle nostre acque territoriali e lo sbarco illegale di questi quattordici individui”.
La guerra fredda tra Tokyo e Seul
Oltre agli incidenti con Pechino, il Giappone è in crisi anche con la Corea del sud. A far litigare i due paesi dell’oriente asiatico è un atollo disabitato (ma ricchissimo di gas e pesce) che a Tokyo chiamano Takeshima e a Seul Dokdo. Formalmente, le isole appartengono ai coreani, ma il Giappone da anni chiede vanamente di risolvere la controversia davanti alla Corte internazionale di giustizia (è necessario che la controparte sia d’accordo ad andare all’Aia per far aprire un caso). Il 10 agosto, approfittando delle difficoltà del premier giapponese Noda – che era impegnato a salvare il proprio governo da una mozione di sfiducia presentata dall’opposizione –, il presidente sudcoreano Lee Myung-Bak atterrava alle isole, allo scopo di premere affinché “i giapponesi chiariscano una volta per tutte le questioni pendenti sul loro passato coloniale”. Lee, durante il suo tour, ha anche accusato Tokyo di non aver mai risarcito le donne ridotte in schiavitù dai nipponici durante la Seconda guerra mondiale. Frasi che hanno convinto il governo di Noda a ritirare l’ambasciatore a Seul (che a breve sarà sostituito, così come i rappresentanti diplomatici in Cina e negli Stati Uniti) e a definire “deprecabile” il viaggio del presidente sudcoreano alle Takeshima, che invece in patria è stato più che apprezzato e ha spinto quaranta cittadini a organizzare una staffetta a nuoto (lunga più di duecento chilometri) per raggiungere l’atollo. “Le Dokdo sono nostre, ci andiamo per la Repubblica di Corea”, aveva annunciato il cantante Kim Jang-hoon (capo della spedizione) prima che i partecipanti si tuffassero in acqua accompagnati dalle note dell’inno nazionale e da migliaia di bandiere che li salutavano dalla spiaggia.
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