Fratellanza al governo
Black out al Cairo, così Obama e Israele tentano di ristabilire i contatti
Il Pentagono sta tentando di ristabilire i contatti con le Forze armate egiziane, dopo la decapitazione dei vertici ordinata dal presidente Mohammed Morsi, che è anche un leader del movimento islamico dei Fratelli musulmani. Al Cairo l’intelligence della Difesa americana ha rimpiazzato Joseph Lengyel – che era lì dal 2009 ed era considerato troppo vicino agli uomini del vecchio regime di Mubarak – con il generale Richard Clark, un ufficiale più alto in grado che arriva da una lunga esperienza in Iraq.
Roma. Il Pentagono sta tentando di ristabilire i contatti con le Forze armate egiziane, dopo la decapitazione dei vertici ordinata dal presidente Mohammed Morsi, che è anche un leader del movimento islamico dei Fratelli musulmani. Al Cairo l’intelligence della Difesa americana ha rimpiazzato Joseph Lengyel – che era lì dal 2009 ed era considerato troppo vicino agli uomini del vecchio regime di Mubarak – con il generale Richard Clark, un ufficiale più alto in grado che arriva da una lunga esperienza in Iraq. Clark dovrà stabilire un contatto con il generale egiziano Abdel Fattah el Sissi, ex capo dei servizi segreti militari ora diventato ministro alla Difesa del governo nominato dai Fratelli musulmani, e con il capo di stato maggiore Sedky Sobhy. Quest’ultimo sarà un osso duro: nel 2005, mentre studiava in un college militare americano, scrisse una tesi sulla necessità per gli Stati Uniti di diminuire la propria presenza in una regione, il medio oriente, che non capiscono. Mercoledì Morsi ha annunciato un viaggio a Washington per il mese prossimo, confermato dalla Casa Bianca, che però non ha ancora specificato se il presidente egiziano incontrerà di persona Barack Obama.
Se gli ufficiali americani, che contribuiscono ogni anno al budget dell’esercito egiziano, hanno difficoltà a ristabilire la relazione con il Cairo, figurarsi gli ufficiali israeliani, con i quali gli egiziani sentono l’obbligo di esternare diffidenza e freddezza. Mercoledì, scrive il New York Times, sia il ministero della Difesa sia le Forze armate israeliane hanno mandato messaggi preoccupati al governo del Cairo sulla situazione nel Sinai, ma non hanno ricevuto risposta. E’ un “breakdown in communication a sole due settimane da un attacco terrorista che ha colpito entrambi i paesi”. Yasser Ali, portavoce di Morsi, dice di non avere ricevuto nessuna nota di protesta ufficiale da Israele, facendo sorgere il dubbio che Gerusalemme, continua il quotidiano americano, “abbia dei problemi di comunicazione con il nuovo governo” egiziano. In questo contesto indecifrabile, gli occhi sono puntati sulle mosse che il presidente Morsi effettivamente compie in politica estera.
Il presidente egiziano procede con una linea politica di ambiguità e doppiezza: non vuole perdere gli alleati tradizionali, l’America e l’Arabia Saudita, ma intende metterli in condizioni di sofferenza, così da poter definire l’amicizia in nuovi termini assai più vantaggiosi. Per fare questo sta alzando la posta. Prima ha schierato i carri armati e ha mandato gli elicotteri da guerra nella penisola del Sinai – in piena zona demilitarizzata – sottoponendo il trattato di pace del ’79 con Israele a una torsione decisamente violenta. Tra una settimana, ci sarà il secondo affondo: la partecipazione a Teheran al vertice dei paesi non allineati (che, come succedeva durante la Guerra fredda, in realtà sono allineatissimi: contro gli Stati Uniti). La riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Iran – interrotte nel ’79 – è un segnale importante, anche se non è ancora chiaro se ci saranno incontri bilaterlai tra Morsi e il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Su questo tipo di ambiguità si gioca la partita diplomatica nei prossimi trenta giorni: se Morsi s’incontra faccia a faccia con l’iraniano, fuori dall’ambito del vertice, poi avrà anche accesso alla Sala ovale della Casa Bianca (sotto elezioni)?
Questa pressione, che assomiglia a una sfida lanciata agli alleati nel Sinai e a Teheran, è legata alle richieste arrivate dal Cairo agli americani: un prestito da mezzo miliardo di dollari e la copertura di Washington a favore degli egiziani nelle trattative con il Fondo monetario internazionale per un megaprestito da 4,6 miliardi di dollari che l’Egitto nel mezzo di una crisi economica disastrosa deve negoziare a proprio favore. Alla ricerca di sponsor nuovi o alternativi, il viaggio di Morsi comincia dalla Cina, il più grande investitore straniero in Africa.
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