L'elefante alla convention

Anche il cane di Obama è a dieta. Il cão d'agua presidenziale si aggira per la Casa Bianca con l'occhio liquido di chi è affetto da una dipendenza e cerca sotto i tavoli croste di formaggio, budelli di salsiccia, briciole rafferme, macchioline di mostarda rappresa, carboidrati sotto qualsiasi forma e altre cose che non troverà mai, perché Michelle, che comanda il vapore, ha fatto sterilizzare ogni cosa con detergenti potentissimi, e Barack, comandante in seconda, approves her message.

    Anche il cane di Obama è a dieta. Il cão d’agua presidenziale si aggira per la Casa Bianca con l’occhio liquido di chi è affetto da una dipendenza e cerca sotto i tavoli croste di formaggio, budelli di salsiccia, briciole rafferme, macchioline di mostarda rappresa, carboidrati sotto qualsiasi forma e altre cose che non troverà mai, perché Michelle, che comanda il vapore, ha fatto sterilizzare ogni cosa con detergenti potentissimi, e Barack, comandante in seconda, approves her message. Obama si è lasciato sfuggire il dettaglio sulla dieta del cane Bo durante un pranzo con alcuni ragazzini, invitati a mangiare, probabilmente gallette di soia, con il presidente sulla base delle ricette salutari che questi avevano scritto di loro pugno. Il livello di salutismo esibito dalla ricetta era direttamente proporzionale alla vicinanza al presidente durante il leggerissimo pasto, ma quel che più importa è che Obama, commander in chief della prima potenza mondiale e mozzo del focolare domestico, ha raccomandato ai giovani convenuti di non sbriciolare o, ancora peggio, far precipitare maliziosamente libagioni sul pavimento, perché Bo era costretto in quello stadio del digiuno in cui i radicali si spingono volontariamente per dare visibilità a certe battaglie civili. Alcuni frequentatori della Casa Bianca, evidentemente solidali con la causa dominante, giurano che negli ultimi tempi Bo si sia lasciato andare e la silhouette ne abbia risentito, ma forse il regime alimentare controllato per il cane nasconde indizi di qualcosa di compulsivo.

    Insomma: Michelle ha costruito l’identità firstladyana attorno alla battaglia contro l’obesità, guarda l’adipe in eccesso con gli stessi occhi con cui Merkel guarda il debito dei paesi latini, ha scritto un libro di ricette insapori, mette l’obesità infantile appena al di sotto della Corea del nord nella classifica delle minacce globali e le sue ossessioni, questa la vera forza della sua battaglia, sono perfettamente in armonia con il contesto sociale e politico. L’obesità è cool soltanto nei quadri di Botero, e questo è universalmente noto. Ma il grasso in America è un soggetto da rieducare, da portare sulla retta via, da tassare con aliquote maggiorate per ammortizzare quella differenza di 1,723 dollari l’anno che la copertura sanitaria nazionale spende per la cura di un singolo obeso rispetto a un “normopeso”, come lo chiamerebbero Michelle Obama e alcuni personaggi inventati da George Orwell. Michael Bloomberg, il sindaco di New York, da anni guida una crociata, dunque una faccenda a sfondo religioso, contro l’obesità, male dilagante e dispendioso, e se dipendesse soltanto da lui, i pasticceri siciliani di Brooklyn farebbero la cassata senza zucchero e le coriste gospel delle chiese di Harlem sarebbero costrette con la forza a seguire la fase di “crociera”, il segmento più spietato della dieta Dukan. Alla dieta canina per decreto non c’è arrivato nemmeno Bloomberg, nonostante la sua città sia piena di dog-sitter, dog-trainer e altri garanti della qualità della vita animale.

    Questo tanto per dare l’idea della convenzione che domina la Casa Bianca in materia di pinguedine. E i repubblicani che fanno? Mandano sul palco della convention di Tampa, che inizia lunedì, un elefante. Mitt Romney, che in Florida sarà incoronato ufficialmente candidato con i voti dei delegati, ha scelto Chris Christie per il keynote speech del raduno repubblicano, un ruolo fondamentale perché fra i Tim Pawlenty e gli Scott Walker, i John McCain e i Mitch McConnell, le Condoleezza Rice e le Kelly Ayotte, i Ted Cruz e i Luis Fortuño che si alterneranno sul palco a velocità assai sostenuta, Christie, il mastodontico governatore del New Jersey, è chiamato a rimanere – nel bene o nel male – nella memoria collettiva della convention, dunque pietra miliare nella corsa elettorale verso il 6 novembre. Parlerà mercoledì sera, solenne anticipazione al discorso di Romney, previsto per il giorno successivo. Nel regno animale del Partito repubblicano ci sono due specie di riferimento, l’elefante e il rinoceronte. Uno è l’animale guida, simbolo ufficiale e rappresentazione zoologica delle virtù conservatrici; l’altro è animale altrettanto degno, tradito soltanto dall’americana ossessione per sigle e acronomi (full disclosure: questo giornale tributa il massimo rispetto al rinoceronte, ma simpatizza decisamente per l’elefante). In inglese è Rhino, ma “Rino” sta per “Republican in name only”, un repubblicano a parole, quindi incompleto, spurio, di circostanza o addirittura fedifrago, il peggiore insulto che si può rivolgere a un conservatore. Alle adunate di partito o di area s’incontrano sempre quelli con il rinoceronte incazzato stampato sulla maglietta e scritte del tipo: “Rinoceronte a chi?”, tanto per dire della mortalità dell’offesa. L’elefante è tutta un’altra cosa. Il Partito repubblicano lo ha scelto come simbolo dopo il 1874, quando girava voce che il presidente Ulysses Grant stesse ordendo una forzatura istituzionale per candidarsi alla presidenza una terza volta. Contemporaneamente il New York Herald scriveva – erroneamente – che parecchie bestie erano fuggite dallo zoo di New York e al leggendario vignettista Thomas Nast questa sovrapposizione di notizie ispirò una rappresentazione animale dei partiti, con quello repubblicano incarnato dall’elefante, mansueto e irremovibile in tempo di pace, incontenibile nella sua furiosa testardaggine quando è il momento di caricare. L’elefante di Nast correva verso un futuro caotico, ma l’importante è che la sua rappresentazione sia sopravvissuta alle circostanze, diventando simbolo irremovibile dell’essenza repubblicana. Troppo facile ironizzare sull’animale avversario, l’asino dei democratici.

    David Letterman ha costruito una letteratura su Christie: quando ha detto pubblicamente di non essere interessato alla vicepresidenza, il comico ha ripreso la notizia: “Christie dunque non correrà. Aveva molta gente che lo seguiva, anche se la maggior parte di loro erano bracconieri alla ricerca di avorio”. Oppure: “Chris Christie è un’ottima scelta per il keynote speech, nessuno meglio di lui può veicolare l’idea che dobbiamo stringere la cinghia”. Ancora: “Christie sarebbe stato il primo presidente americano visibile dallo spazio. La banda dei marine avrebbe suonato ‘Hail to the Chef’”. Infine: “I repubblicani stanno incontrando qualche difficoltà a convincere Christie a correre per la Casa Bianca. Dovrebbero provare con una torta”.
    L’archivio delle battute su quanto è grasso Christie può contenere un numero infinito di elementi, la corporatura extralarge del resto ispira dall’inizio del genere umano le gag più ovvie, ma quello che conta qui è la potenza del simbolo. E lo si vede già muovere i suoi passi imponenti sul palco della convention, arredato con legno in abbondanza come nel più americano dei salotti – Obama nel 2008 aveva riprodotto templi greci con colonne ioniche, quando si dice la differenza di stile – lui avvolto da impressionanti metrature di cotone, il colletto della camicia a cingere faticosamente il collo taurino, il pantalone vagamente ascellare, lo sguardo sfrontato da gran figlio del New Jersey quale è: nelle vene di Christie scorre sangue irlandese, scozzese e siciliano, mistura che dà qualche indizio sull’origine di uno stile che con un eufemismo gli americani definiscono “outspoken”. Negli schermi da nove milioni di pixel sul fondo palco si staglierà la figura inconfondibile che negli eventi elettorali fa da contrappeso al filiforme Romney, il quale per motivi religiosi evita cibi e bevande concessi perfino al cane Bo. La corporatura del governatore è una dichiarazione in cui si legge: cos’avete tutti quanti da guardare? Nella campagna del 2009 per il posto da governatore, il suo avversario, il barbuto Jon Corzine, aveva diffuso uno spot con qualche riferimento al peso dell’elefante Christie, lui si era innervosito da morire, ovviamente non per il riferimento in sé ma per il fatto che quel finanziere azzimato e perbene non aveva nemmeno il coraggio di dargli del ciccione: “Sii uomo e dì che sono un ciccione”.

    E’ l’unico del Partito repubblicano che può permettersi di dire a Obama “che cosa ti paghiamo a fare?”, nei magri incravattati di scuderia con gemelli ai polsi e puzza sotto il naso una frase del genere suona come lo sfogo isterico di un professionista della politica, roba che puzza di naftalina, in bocca a Christie è il compimento della sua natura Jersey-Style. Sono memorabili le foto assieme al presidente sulla pista d’atterraggio dell’Air Force One: uno sembra pronto per la gara dei tiri da tre, l’altro deborda da tutte le parti, sgraziato soltanto se il benchmark della perfezione è una costruzione politica troppo levigata per essere simpatica. Il popolo conservatore, e non solo, è sensibile allo spread fra la perfezione un po’ posticcia, un tempo messianica, di Obama, oppure l’aura manageriale e non meno laccata di un Romney e la pingue veracità di Christie. Il 17 luglio un avvocato di Solon, in Ohio, di nome Robert Rosenfeld ha depositato presso l’autorità che controlla i finanziamenti della politica (Fec) un Super Pac intitolato al “Fat Old Man”. Nessuno conosce con certezza i gusti politici del signor Rosenfeld, e fino a questo momento il suo Super Pac non ha raccolto nemmeno un dollaro, ma dal nome si deducono molte cose, e Christie non si sarà certo offeso, anzi. Se si offendesse dimostrerebbe di prendersi molto, troppo sul serio, quindi quale sarebbe la differenza con tutti gli altri cavalli della scuderia politica? Perché affidare un keynote speech, il discorso che deve dare la nota giusta alla variegata (a volte scordata) orchestra conservatrice, se poi è paludato e noioso come tutti gli altri?

    Uno degli affronti peggiori che gli è toccato subire in questi anni è di essere associato a “Jersey Shore”, trionfo della tv spazzatura che nemmeno coltivando il senso del paradosso per una vita intera potrebbe risultare digeribile. Tutti a chiedergli dei tamarri che si dedicano alle attività più idiote della terra, tutti a fargli le pulci sui guido e sulle guidette con la canottiera, e su questo sì che perdeva le staffe: “Sono di New York. Snooki è di Poughkeepsie, The Situation è di Staten Island. Hanno paracadutato questi sfigati in New Jersey e vogliono farvi credere che vengono da qui”.

    Con l’ascesa di Romney, il governatore cinquantenne è entrato nel ramo serio della sua parabola politica. Da personaggio sopra le righe, tutt’al più un governatore-intrattenitore, si è improvvisamente trasformato nel volto nuovo del Partito repubblicano, forse l’unico nel panorama conservatore in grado di infondere qualche elemento di novità nella narrazione. Romney ha tentato con insistenza di convincerlo ad accettare la candidatura come vicepresidente, e lui ha a lungo soppesato (tutti hanno ironizzato su questo verbo, tranquilli) la proposta, risolvendosi infine per un garbatissimo rifiuto. Non era il suo momento, ha detto, perché, ma questo l’ha soltanto pensato, il suo momento deve ancora venire, magari non soltanto nel ruolo di gregario in una tornata elettorale oggettivamente complicata per i repubblicani. L’elefante si guarda intorno, e cosa vede nella savana del conservatorismo? Tanto logorato grigiore da establishment con qualche luce intermittente. Vede un popolo diviso da una linea generazionale e di mentalità, con i preparatissimi funzionari d’apparato da una parte e le “young guns” senza cartucce dall’altra. E poi gli altri sono tutti magri.
    L’America ha avuto cinque presidenti classificati come “grandi obesi” e fra questi ci sono quattro repubblicani e un democratico, Grover Cleveland. Al comparto grandi obesi appartiene anche Christie, del quale però non si conosce il peso esatto. Timothy Noah di New Republic qualche tempo fa ha indetto un concorso fra i lettori per indovinare il peso di Christie, prendendo in prestito la teoria esposta da James Surowiecki in “The Wisdom of Crowds”. Funziona così: se un singolo individuo spara una stima sul peso di Christie potrebbe andare molto lontano dalla verità; ma se il campione si estende alle masse e ognuno tira il proprio numero, statisticamente la media delle opinioni si avvicina alla risposta esatta. I partecipanti alla ricerca empirica di Noah dicono che Christie pesa fra i 140 e i 160 chili, cosa che lui evita di confermare, limitandosi a rispondere a un ampio ventaglio di domande idiote sulla lotta per dimagrire: “Se fosse facile l’avrei già fatto”. La cosa importante, in definitiva, è che la convention abbia il suo elefante, quello che può sfottere e provocare senza timore di essere sfottuto e provocato, ché tanto ha in circolo gli anticorpi. Christie dice che il suo discorso sarà molto più a favore di Romney che contro Obama, scelta oculata per un partito troppo spesso accusato di avere basato la ricerca di un’identità esclusivamente sul contrasto con l’identità altrui.

    E’ arrivato alla quarta bozza del discorso, lo sta levigando con la cura maniacale che la circostanza impone, ma l’importante è l’ensemble, l’agnizione, la forma che s’abbraccia al contenuto, il sinolo che questo elefante nato e cresciuto in New Jersey esprime di fronte a un mondo che segretamente ambisce una sessione di pilates con Michelle Obama. Alla convention di Tampa il governatore del New Jersey sarà in compagnia di un altro corpulento, rubicondo e ciarliero personaggio, Timothy Dolan, cardinale di New York e capo della Conferenza episcopale americana, che andrà in Florida “per pregare” assieme ai delegati della convention, ma a nessuno sfugge l’implicito endorsement dei vescovi alla candidatura di Romney; la chiesa americana ha mosso una guerra totale a Obama su libertà religiosa, matrimonio gay e altre faccende non negoziabili, e ora manda il suo pastore più outspoken a benedire un ticket che è stato completato con il cattolico Paul Ryan, non estraneo a controversie. Sarà una suggestione data dal sangue irlandese e dalla stazza compatibile, ma Dolan è la versione cardinalizia di Christie, Christie ne è, per converso, il suo precipitato laico. Quando mercoledì il governatore si siederà a tavola, al termine della performance, per rifocillarsi dopo la grande giornata nessuno gli dirà di non sbriciolare per non indurre in tentazioni i cani a dieta che scorrazzano lì intorno.