Le chance di Assad
Bashar el Assad è convinto che vincerà la guerra civile contro l’opposizione armata. Ai giornali arabi nel fine settimana sono arrivate le confidenze dei collaboratori più vicini al presidente siriano: “E’ certo che vincerà, che supererà questa crisi nazionale e che resterà al potere”.
Quante chance ha? Dal 18 luglio, quindi dal giorno in cui un attentato mai chiarito ha spazzato via i generali e i ministri al vertice del suo apparato di sicurezza, Assad ha intrapreso una spietata campagna di rimonta.
Roma. Bashar el Assad è convinto che vincerà la guerra civile contro l’opposizione armata. Ai giornali arabi nel fine settimana sono arrivate le confidenze dei collaboratori più vicini al presidente siriano: “E’ certo che vincerà, che supererà questa crisi nazionale e che resterà al potere”.
Quante chance ha? Dal 18 luglio, quindi dal giorno in cui un attentato mai chiarito ha spazzato via i generali e i ministri al vertice del suo apparato di sicurezza, Assad ha intrapreso una spietata campagna di rimonta. Ha bloccato l’offensiva dei ribelli nel nord attorno e dentro la città di Aleppo dando il via libera alle operazioni di bombardamento con i jet, mai osate prima per paura della reazione internazionale (la campagna Nato in Libia cominciò con la proposta di una “no fly zone”, di una zona interdetta ai caccia del governo di Tripoli). Ha ignorato le defezioni del suo entourage politico, cosa resa più che mai facile dal fatto che i defezionisti, come il primo ministro Riyad Hijab e tre ministri, avevano cariche politiche di facciata, senza un potere reale. Chi doveva staccarsi si è staccato. Ha recuperato il vicepresidente Farouk al Sharaa: dato in fuga verso la Giordania, scomparso per dieci giorni e riapparso domenica – c’è chi sostiene sia stato intercettato e ora sia costretto a fare buon viso a cattivo gioco, perché di solito le defezioni sono smentite a stretto giro di posta nel giro di due-tre ore. Assad sta seguendo e rispettando l’accordo di resistenza a oltranza stretto con Teheran e datato martedì 7 agosto, giorno della visita a Damasco di Said Jalili, capo del Consiglio di sicurezza iraniano (e anche negoziatore sul nucleare con le potenze occidentali). Jalili era stato il giorno prima anche a Beirut, in Libano, a parlare con i leader del movimento sciita Hezbollah, con lo steso obiettivo: compattare il fronte assadista e rassicurare i siriani sulla tenuta dell’impegno iraniano.
Ora l’esercito governativo sta sloggiando i ribelli dalla striscia urbana a sud di Damasco, quegli immensi sobborghi in prevalenza sunniti da dove salgono gli attacchi che hanno cancellato la vita dorata nella capitale.
Il primo a cadere è stato Daraya, a soli cinque chilometri da Mezze, il quartiere elegante delle ambasciate nella capitale. Daraya era una sfida silenziosa al governo. Fuori dal controllo del regime, si amministrava da solo, con spazzini e vigili urbani volontari, un giornale indipendente e la distribuzione nelle strade di volantini che invitavano a un futuro di riconciliazione fra le diverse confessioni religiose siriane. La stazione di polizia è stata saccheggiata e il municipio è chiuso. Inoltre Daraya confina con l’aeroporto militare, dove sono chiusi migliaia di prigionieri politici, parcheggiati gli elicotteri da combattimento e nel cui compound fortificato vivono numerosi ufficiali lealisti. L’assalto contro i civili ha seguito lo stesso pattern di altre spedizioni punitive: il cordone di militari che sigilla l’area, il bombardamento indiscriminato sulle case, il rastrellamento e l’esecuzione, in questo caso di circa 300 persone. La tv di stato addossa la responsabilità ai ribelli, definiti “terroristi”, ma che interesse avrebbero avuto a compiere una strage in un’area sotto il loro controllo? I giornalisti internazionali o qualsiasi altra fonte di verifica indipendente sono stati tenuti lontani dalla zona.
La strage di Daraya prova al paese che Assad dispone ancora di una macchina di repressione funzionante e senza pietà. “Il popolo siriano non permetterà mai al complotto contro il paese di raggiungere i propri obiettivi – ha dichiarato domenica il presidente – Quello che ci sta succedendo oggi non è diretto soltanto contro di noi ma contro l’intera regione. La Siria è la pietra angolare, le potenze straniere prendono di mira noi per avere successo nell’intera regione”. Poi ha specificato: “A ogni costo”.
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