Perdere, ma con Zeman
Di un allenatore che dal suo sito web si offre sdraiato e quasi alato come un angelo sopra Berlino, e dichiara: ‘A mio parere, la grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco’, si può avere solo grande stima.
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Di un allenatore che dal suo sito web si offre sdraiato e quasi alato come un angelo sopra Berlino, e dichiara: ‘A mio parere, la grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco’, si può avere solo grande stima. E simpatia. Gran personaggio, il boemo, come tutti i praghesi filosofi e un po’ esoterici”. Iniziava così, tre anni fa, un commentino postato sul mio blog mourinhista. E un po’ per far prima, un po’ perché il giudizio resta identico, come uguale è ancora l’home page di Zdenek Zeman, tanto vale ripartire da lì.
Tre anni fa Zeman non era ancora tornato dal suo esilio ai confini del calcio, ma era sempre lì, inamovibile come una pietra d’inciampo in tutti i discorsi che girano attorno al pallone. Quella volta presentavano un documentario sulla sua carriera, e con il vocione tabagista disse la sua su José Mourinho. Lo disse nel modo consueto, con la pacatezza senza disprezzo di chi non ha mai avuto bisogno dei trofei in bacheca per sapere qual è il posto che occupa nella storia del calcio: “E’ un grandissimo comunicatore che nasconde bene la propria mediocrità come allenatore”. Mou gli rispose con una battuta velenosa delle sue, da dominatore del sistema calcio consapevole che senza i risultati c’è solo il nulla: “Zeman? Chi è? Lo cercherò su Google”. Il giorno e la notte, due emisferi cerebrali destinati a non incontrarsi mai.
Sono passati più di due anni da che la meteora di talento e intelligenza di José Mourinho è uscita dall’orbita del calcio italiano. E’ ricominciato un campionato che – tolti gli aspetti meramente statistici e agonistici, il calcio come tre punti e l’importante è muovere la classifica – si annuncia tra i più noiosi degli ultimi anni. Niente personalità di rilievo, niente appeal mediatico, nessun allenatore dotato di una visione del mondo che superi il centrocampo. La cappa del conformismo giornalistico, gli strilletti di Andrea Agnelli, i pianti sui buchi di bilancio e sui talenti in fuga. L’unica novità che fa ben sperare, non si sa per i destini della Roma, ma certo per il tasso di brillantezza generale, è il ritorno di Zdenek Zeman. Comunque andrà la sua avventura, più di dieci anni dopo l’ultima panchina di serie A, questo sarà l’anno di Zeman. Per mancanza di rivali, ma non solo per questo.
A Fabio Fazio che osò dargli di filosofo rispose: “Io ho studiato filosofia, ma non ho mai capito cosa volevano dire”. Zeman non si atteggia a intellettuale, non è un comunicatore camaleontico dell’èra del global football come Mourinho, anzi possiede una certa rigidezza, una ruvidezza di vecchio legno boemo che sembrano ricacciare indietro, a un’epoca che non c’è più, quando le parole erano pietre e le idee chiare, definite, irremovibili. “Dovrei parlare di arte? Di politica? Di economia? Io sono uno che sta nel calcio, fuori dal calcio io sono uno qualunque e il mio parere conta come quello di un contadino. Eppure dal contadino non va nessuno”. Oppure: “Non c’è nulla di disonorevole nell’essere ultimi. Meglio ultimi che senza dignità”. Lampi di intelligenza in una nazione più versata nella furbizia. Questo è sempre stato Zeman. Anche a questo si deve il suo piccolo ma ben radicato culto. E pazienza se in questo culto ci si trova un po’ di tutto, persino una canzone romanista di Antonello Venditti intitolata “La coscienza di Zeman”: “Il tempo sta scadendo ormai / tieni palla dai… / il pareggio mai… / tu non lo firmerai… / Perché non cambi mai”. Parole scagliate nel vuoto come rilanci alla viva il parroco, la negazione del calcio come scienza del movimento, pensiero e geometria, il suo eterno 4-3-3: “Per coprire il campo non esiste un modulo migliore”.
Poi ci sono i giustizialisti pallonari, per i quali Zeman è un’icona perché “ha sfidato il sistema”. Sì, lo ha fatto, lo ha fatto davvero. E dire che non gliel’abbiano fatta pagare, anni e anni fuori dal giro e mai più una squadra che conta, sarebbe una falsità. Ma non gli è mai interessato fare da mosca cocchiera a Raffaele Guariniello o mettersi alla guida del Calcio dei Valori. Piuttosto, l’ha fatto per restare fedele a quel che vedeva: “Se un portiere a 28 anni doveva cambiare il numero dei guanti perché gli sono cresciute le mani, non è normale”. Per una sua coerenza copernicana tra le parole e le cose, lui che viene da un mondo dove le parole potevano non essere le cose: “Se uno usa un farmaco per migliorare la prestazione, per me è doping”.
Ci sono altri motivi, calcistici e umani, che hanno fatto di Zeman una presenza stabile, riconoscibile e ingombrante come uno scoglio davanti alla placida costa del calcio italiano. Sono motivi che hanno misteriosamente a che fare con il suo essere boemo: “He’s both bohemian and Bohemian”, ha scritto qualche mese fa il Wall Street Journal, in un bel ritratto pieno di sorpresa intitolato “The return of soccer’s Jedi”. E’ qualcosa che ha a che fare con quel che da Praga, ormai quarantacinque anni fa, quest’uomo di sport pacato e intransigente si è portato dietro. E che in fondo è rimasto sempre di più, qualitativamente di più, di ciò che in tutti questi anni d’Italia, di calcio italiano, di mare e di sud, di Sicilia e di Puglia, di Roma e di squadre minori Zeman ha assorbito, come la nicotina nei polmoni.
Praga, 1968. La biografia di Zdenek Zeman è segnata da questo snodo mitico come da una seconda nascita. Quella che lo trasforma da figlio borghese di una borghesia abolita proprio mentre nasceva, nel 1947, cresciuto in un bel quartiere in riva alla Moldava, figlio di un medico primario e lui stesso destinato alla medicina, ma appassionato di sport e con uno zio calciatore, in un professionista del calcio e in un esule a vita. Il caso ha la sua parte, come in ogni romanzo. Nell’estate del 1968 ha ventun anni, viene in Sicilia con sua sorella per trascorrere le vacanze con lo zio. Lo zio si chiama Cestmír Vycpálek, è stato il primo calciatore straniero del Dopoguerra a giocare nella Juventus, poi era passato al Palermo e lì aveva messo radici, diventando allenatore, fino a vincere poi due scudetti, tornato a Torino, con la Juve. Dopo i carri armati, Zeman rientrerà per poco tempo a Praga, ma non era più l’aria, a Palermo lo aspettavano lo zio, l’Isef, e un destino fatto di calcio. Anni dopo, quando a causa delle sue denunce sul doping era già diventato il nemico pubblico numero uno della Juventus, con il senso della battuta che lo contraddistingueva e che amava spalmare sul suo più spiccato senso del potere, Gianni Agnelli commentò: “Per me Zeman veramente è nipote di Vycpálek, Vycpálek noi l’abbiamo salvato dalla Cecoslovacchia comunista e l’abbiamo portato in Italia, quindi anche il nipote ci deve della gratitudine”. Non è dato sapere se l’esule si sia mai sdebitato.
Della Praga della sua infanzia non parla spesso, né forse volentieri. Ma praghese è rimasto. Nell’anima e nel calcio. Gli è rimasta la faccia, che sembra presa in prestito da un vecchio film di Milos Forman, quando Forman era ancora un regista cecoslovacco, e quel gusto per la battuta secca, il sarcasmo breve, che non ha mai la leggerezza cinica dei francesi, o degli inglesi, ma il fondo amaro di chi la sa lunga, e sa quando è meglio non dire, e che quel che si dice è detto per sempre, e si paga. Anche se si parla di calcio, il mondo della chiacchiera. La Praga da cui era fuggito, libertà vigilata e pallone come valvola di sfogo, somiglia alla Praga di un vecchio filmino, un corto, un gioiellino delle memorie di cineforum. Si intitola “Un pomeriggio noioso”, prima regia di Ivan Passer, prima che anche lui volasse a trovar fortuna cinematografica nella terra della libertà. Dura un quarto d’ora, il tempo di tre ripartenze e due tiri in porta. Sono chiacchiere smorte di calcio dentro a un’osteria, mentre scorre loffia una partita della Nazionale, e un giovanotto invece fuma e legge un libro, da solo al tavolo, guardato male da tutti come un antisociale: che diamine, è pur sempre il calcio nazionale, ragazzo!
Ecco, forse è anche da quel mondo e da quello sport come emblema di noia esistenziale che Zeman era fuggito. E’ a quel brutto calcio che si è ribellato tutta la vita, insegnando e praticando un gioco in cui prima di vincere importa giocar bene, perché chi gioca e chi viene a vedere deve soprattutto divertirsi, e “non è vero che non mi piace vincere, mi piace vincere giocando bene”. Ma venendo in Italia, senza mai diventare del tutto italiano, si è portanto dentro quella malinconia ironica e laica che è dei grandi praghesi. La stessa di un Bohumil Hrabal, non a caso il filmino di cui sopra era tratto da un suo racconto. La stessa cocciuta idea di libertà disincantata che in quegli anni Vaclav Havel coltivava nei teatrini off-off, quel praghese irriducibile e ironico che, un po’ come lui, non ha mai cambiato zazzera, né marca di sigarette né birra passando dalla galera al Castello. Esattamente come lui: “Io, dalla mia panchina, continuo a veder correre persone. Non soldi”.
Ma dal calcio della sua Cecoslovacchia, passando per l’Isef di Palermo e per le squadrette del sud fino al “Foggia dei miracoli” e ai fuochi d’artificio di Zemanlandia, l’allenatore boemo s’è portato dietro, tenendoselo ben stretto, anche il sogno totalitario di un calcio-macchina, di un calcio totale, di un calcio vivo e atletico e aggressivo. Un’utopia da realizzare in undici uomini, ma per il bene di tutti gli altri. In quella stessa estate in cui il destino lo portava lontano, e in cui un giovane scettico e un vecchio tifoso misuravano le proprie visioni del mondo in un pomeriggio noioso, c’era un’altra epopea che Zeman non può non aver conosciuto, e amato. Perché fa parte del dna del suo stesso calcio: “Da piccolo, a Praga, mi dissero: ‘Prendi quella posizione’ e non ‘prendi quell’uomo’; da quel giorno, non ho più cambiato idea”. L’epopea la rievoca, cavandola da un buco della nostra memoria collettiva zittita dalla Cortina di ferro, Sandro Modeo in due paginette del suo bel libro sul “Barça”, un piccolo trattato totalitario sulla superiorità sportiva, scientifica, etica e culturale del “calcio totale”. E’ la storia dello Spartak Trnava, che ora è in Slovacchia, e di un’utopia calcistica che somiglia molto a quella di Zeman, anche perché indossa la maglia con i colori del Foggia. L’utopia di un piccolo club di provincia nel gelo del mondo comunista e di un allenatore poeta tutto d’un pezzo, che si chiamava Anton Malatinsky e che nell’anno in cui comincia il Disgelo di Kruscev raccatta dalla serie B cecoslovacca un gruppo di giovani. Ma poi Malatinsky viene arrestato per aver aiutato alcuni dissidenti a passare il confine. Dalla galera comunista scrive lettere coraggiose, degne di un Gramsci del pallone: “Tenete i giocatori, tra qualche anno diventeremo campioni”. E così sarà, fino al titolo nazionale conquistato proprio nel 1968, poco prima che il mister debba lasciare un’altra volta, travolto dalla Primavera di Praga. Malatinsky e il suo calcio totale e super offensivo, fatto di frenetici dai-e-vai, forza fisica, allenamenti duri fino al sadismo, di corse su e giù fino allo sfinimento dei suoi “angeli bianchi” nei sentieri innevati, che ricordano molto le leggendarie corse nei boschi cui Zeman costringeva i suoi ragazzi del sud.
La squadra di Malatinsky arrivò a un punto dalla gloria, come si addice agli eroi, perdendo l’anno successivo la semifinale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Michels e di Cruijff, ma disputando una partita che, a detta dello stesso allenatore olandese, fu la più difficile che la sua squadra avesse mai dovuto giocare, contro un avversario senza blasone ma che giocava un calcio che sembrava piovuto da un altro pianeta. Nasce da qui il mito e l’ammirazione per l’opera omnia calcistica di Zeman, per quel suo calcio totale, aggressivo e spettacolare, senza calcoli e infingimenti, testardo anche di fronte alle sconfitte prese sempre con un filo di ironia: l’unica cosa che i pur ammirati tifosi italiani non gli hanno mai perdonato. Non è un caso che, pur non avendo mai colto quei successi necessari a trasformarlo in una star internazionale, i maggiori attestati di stima incondizionata arrivino a Zeman dagli appassionati del mondo anglosassone, che pure non hanno mai visto le sue squadre giocare. Un giovane blogger britannico tempo fa si stupiva sinceramente di se stesso: “Non avevo mai sentito parlare di lui, perché non lo conoscevo?!”. Eppure, alla notizia che Zeman stava per tornare alla guida della Roma, si era accorto che “sembra esistere una sorta di culto di Zeman, e subito sono apparsi su Twitter commenti ammirati di molti scrittori e giornalisti”. TheBoar.org, il giornale on line degli studenti dell’Università di Warwick, ha dedicato un articolo a Zeman come “Eroe di culto”, affermando che “a parte Arsene Wenger, nessun altro allenatore ha una influenza maggiore sulla filosofie e l’identità di una squadra come Zdenek Zeman”. Analisi, confronti, rivisitazioni di vecchie partite del Foggia e di recenti del Pescara hanno convinto i giornali inglesi che “nel calcio italiano c’è qualcosa di molto meglio, di molto più divertente del ‘catenaccio’ a cui da sempre è legata la sua immagine”.
Zeman è la cosa più esorbitante, più lontana dagli stereotipi legati all’Italia e al suo sport nazionale che si sia mai materializzata in Italia. E questa è forse la cosa più facile, lapalissiana, da riconoscere. Più difficile, dopo trent’anni di Zemanlandia e di zeman-manie a corrente alternata, riconoscere la sua diversità, la sua ostinata irriducibiltà anche nei confronti di tutta la nostra cultura comunicativa (più Buster Keaton, meno Alberto Sordi), la nostra cultura da bar dello sport (“Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente”), il nostro giornalismo sportivo: “Non ho rapporti con la stampa o la televisione. Voglio essere giudicato per quello che faccio con la mia squadra, non mi interessano altre esibizioni”.
Un anarchico, un rigido moralista. Un uomo che contraddice la vocazione italiana al côtè sentimentale, che sa essere duro. Che in trent’anni non ha mai detto “prostituzione intellettuale”, ma più volte l’ha evocata con scene di gelo situazionista, come la volta che lasciò parlare due minuti un cronista di Foggia e poi, immobile, lo fulminò: “Con lei non parlo”. Altre volte, Zeman sa sfoderare un senso dei tempi scenici degno di Ionesco, come nella performance da vero e consumato attore, seduto indifferente a fumare, mentre Antonio Albanese nei panni di Frengo, il folle dj tifosissimo di Zeman, gli danza intorno, un gioiellino di buona televisione. O come quando, più di recente, aveva smontato il cazzeggio cortigiano di Fabio Fazio: “Siamo in un talk-show, uno fa le domande e l’altro dà le risposte”. “A saperle”. Alla terza fulminante risposta così, Fazio stava per avere una crisi di nervi. Per tutto questo, nell’anno calcistico depressivo e della recessione che si va a cominciare, senza campioni e senza illusioni, il ritorno di Zeman lo Jedi del calcio è già una vittoria.
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