Vuoi lavorare al 118? No, grazie

Roberto Volpi

La guardia medica è sempre stata l’ultima, dequalificata e tristanzuola ruota dell’immaginifico, roboante e costoso carro del Servizio sanitario nazionale. Un’innovazione che non è mai decollata davvero. Per riuscire a coprire i posti dei bandi regionali occorre ormai fare i salti mortali. E si rischia di non riuscirci comunque. Le paghe sono pur sempre largamente superiori ai duemila euro netti mensili per 38 ore settimanali, ma il lavoro è ritenuto non all’altezza.

    La guardia medica è sempre stata l’ultima, dequalificata e tristanzuola ruota dell’immaginifico, roboante e costoso carro del Servizio sanitario nazionale. Un’innovazione che non è mai decollata davvero. Per riuscire a coprire i posti dei bandi regionali occorre ormai fare i salti mortali. E si rischia di non riuscirci comunque. Le paghe sono pur sempre largamente superiori ai duemila euro netti mensili per 38 ore settimanali, ma il lavoro è ritenuto non all’altezza, lo status di medico non valorizzato (anzi, semmai compresso e screditato), le possibilità operative di norma limitate da ricorrenti carenze tecnico-organizzative, le aree da coprire spesso disagevoli e lontane dai centri decisionali. Insomma, una sorta di confino sanitario mal accettato proprio dai medici costretti a ricorrervi per mancanza di alternative e poco efficace per i cittadini che, a loro volta, se ne fidano in misura proporzionale all’efficacia.
    Non è soltanto la Lombardia – regione ai cui bandi di guardia medica risponde un terzo dei potenziali assunti, a grande maggioranza immigrati, che non sentono la fatica – a non sapere come risolvere il problema. E’ nell’Italia tutta che per la ribattezzata area della “continuità assistenziale” (cosa non ti inventerebbero per infiocchettare la realtà) si fatica maledettamente, spesso senza riuscirci, ad arruolare il personale medico.

    Certo, fa specie che in tempi, a sentir tutti, di epocali batoste che si abbattono sull’occupazione giovanile come temporali di fine estate non si riesca a trovare non dico gli idraulici ma neppure i medici per ricoprire posti di lavoro che offrono paghe più che dignitose contro fatiche non propriamente da minatori e che oltretutto non sono incompatibili con l’esercizio di ulteriori attività medico-professionali. Fatto si è che si preferisce aspettare all’interno dei circuiti universitari e delle aziende pubbliche, anche senza emolumenti di sorta o ridotti all’osso, l’arrivo di occasioni di lavoro che per la verità in quest’ambito si presentano non malaccio per coloro che possono vantare una specializzazione. E questo per due motivi. Perché il numero chiuso per l’accesso a facoltà e specializzazioni ha finito per restringere perfino troppo il potenziale umano. E, ancor più, perché è in atto l’uscita in massa dai ranghi del Servizio sanitario dei medici che tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta furono incoraggiati dal binomio “tempo pieno – aumento cospicuo degli stipendi” a correre ad arruolarsi nell’esercito degli ospedalieri. E tuttavia sbaglierebbe chi vedesse in questi fattori le ragioni della vera e propria idiosincrasia che i medici provano per il servizio di guardia medica, che non a caso in molte aree del paese, segnatamente del sud – dove il rapporto medici di guardia medica/popolazione è almeno tre volte quello del nord: oltre 30 medici ogni 100 mila abitanti al sud contro 10 al nord – ha ben presto mostrato i caratteri di una sorta di sostegno salariale a stormi di professionisti prima in esubero.

    Destinati in prospettiva a essere aggregati ai medici di medicina generale nelle “unità di cure primarie” che resteranno aperte 24 ore su 24 e dovranno a livello territoriale frenare l’accesso indiscriminato ai pronto soccorso ospedalieri, forse i medici di guardia medica troveranno un ruolo, emolumenti e riconoscimenti la cui mancanza li ha spinti in sempre maggiori proporzioni al gran rifiuto proprio della “ghettizzante” guardia medica, crisi o non crisi. Un rifiuto che comunque dimostra che non sono poi così perduti, dal punto di vista del lavoro, questi trenta-quarantenni d’oggigiorno. O che, se lo sono, nel perdersi ci stanno mettendo del loro.