Il Guatemala di Ingroia
Ma com’è il Guatemala che Antonio Ingroia va a trovare? E come c’è finito il procuratore aggiunto di Palermo? Secondo lui, è che “lì in Guatemala li apprezzano i giudici antimafia italiani”. Una sensazione che ha avuto non solo per il modo in cui il suo testo tradotto, “Herramientas para combatir la delincuencia organizada”, è diventato un bestseller tra i libri di testo adottati nelle facoltà giuridiche: non solo del Guatemala, ma di tutta l’America latina.
Ma com’è il Guatemala che Antonio Ingroia va a trovare? E come c’è finito il procuratore aggiunto di Palermo? Secondo lui, è che “lì in Guatemala li apprezzano i giudici antimafia italiani”. Una sensazione che ha avuto non solo per il modo in cui il suo testo tradotto, “Herramientas para combatir la delincuencia organizada”, è diventato un bestseller tra i libri di testo adottati nelle facoltà giuridiche: non solo del Guatemala, ma di tutta l’America latina; ma anche per la frequenza con cui i giornali locali lo intervistano, e sembrano apprezzare la sua proposta di adottare anche lì il modello Falcone-Borsellino. Cioè, una superprocura autonoma dal potere politico, appoggiata sia su un nucleo di magistrati e investigatori specializzati che su una nuova normativa a hoc.
Sarà questo l’assetto che darà all’unità di indagine della commissione internazionale contro l’Impunità in Guatemala (Cicig) al cui vertice l’Onu l’ha designato? Non c’è dubbio che lo strumento è flessibile, se si pensa al modo in cui è stato creato per un obiettivo, ma ne sta ora sostanzialmente perseguendo un altro. Nata il 12 dicembre del 2006 con un accordo firmato tra le Nazioni Unite e il governo del Guatemala, approvata con parere consultivo favorevole dalla Corte di costituzionalità del Guatemala nel maggio del 2007, è formalmente ratificata dal Congresso del Guatemala il primo agosto del 2007. E sono tre gli obiettivi che in base a questo accordo istitutivo deve perseguire. Primo: “Indagare sull’esistenza di corpi illegali di sicurezza e apparati clandestini di sicurezza che commettano delitti ai danni dei diritti umani fondamentali dei cittadini del Guatemala, e identificare le strutture di questi gruppi illegali (includendo i loro vincoli con funzionari dello stato), attività, modalità di operazione e fonti di finanziamento”. Secondo: “Collaborare con lo stato nella disarticolazione degli apparati clandestini di sicurezza e corpi illegali di sicurezza e promuovere l’indagine, persecuzione penale e sanzione dei delitti commessi dai loro integranti”. Terzo: “La Cicig farà raccomandazioni allo stato del Guatemala per l’adozione di politiche pubbliche destinate a sradicare gli apparati clandestini e corpi illegali di sicurezza e prevenire la loro riapparizione, includendo le riforme giuridiche e istituzionali necessarie a questo fine”.
Era stato con l’Acuerdo Global de Derechos Humanos del 1994 che nell’ambito del processo di pace che ha posto fine alla lunga guerra civile durata dal 1960 al 1996 il governo del Guatemala si era impegnato a “combattere qualunque manifestazione” delle “forze illegali di sicurezza” e “apparati clandestini di sicurezza”. La Cicig ha trasformato questo impegno in un commissariamento che non ha praticamente riscontri nel resto del mondo, che ha indotto vari critici a parlare di “perdita di sovranità”, ma che tutti i presidenti hanno convenuto non solo di accettare, ma addirittura di sollecitare: dopo il “destro” Berger, è stato il “sinistro” Colom a chiedere due proroghe biennali, e adesso sarà il “destro” Pérez Molina a chiedere un’ulteriore mandato per il 2013-15. Solo che, dopo aver effettivamente epurato 1.700 poliziotti che non rispettavano le regole, senza formalmente cambiare le regole di ingaggio, di fatto il commissariamento anti impunità è stato trasformato in organismo di lotta anti narcos a spese dell’Onu. Spese non indifferenti: forte di quasi 200 funzionari provenienti da 200 paesi che lavorano in coordinamento con la procura generale del Guatemala, la Cicig costa all’Onu 20 milioni di dollari all’anno, cui contribuiscono a turno i vari paesi membri. Anche l’Italia vi ha destinato 1,850 milioni di euro, erogati dalla direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) della Farnesina a un trust fund del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). Immaginandola in Italia: sarebbe come se dopo le violenze alla Diaz l’Italia avesse chiesto all’Onu di creare e finanziare un organismo per aiutarla a investigare su quello e altri abusi delle polizie italiane; l’Onu avesse accettato, destinandovi 20 milioni di dollari all’anno; e l’Italia avesse invece poi destinato quell’organismo e quei soldi a indagare non sui poliziotti maneschi e torturatori, ma sulle mafie.
A parte il profilo di Ingroia: che la Cicig sia stata creata per fare una cosa e ne stia in questo momento facendo un’altra lo si capisce anche dal tono dei commenti con cui la stampa guatemalteca ha accolto la sua nomina. Praticamente nessuno accenna alla pulizia delle “forze illegali di sicurezza”, e tutti salutano invece l’arrivo del paladino anti mafia. “Benvenuto in Guatemala signor Ingroia”, scrive ad esempio Brenda Sanchinelli Izeppi su Prensa Libre. “Voglia Dio che la sua presenza in questo infelice paese riesca a ridurre le nostre mafie, che non hanno nulla da apprendere da quella siciliana”. “Il procuratore Ingroia ha accettato la proposta di dirigere l’unità di investigazioni e controversie della Cicig e solo resta da aspettare di chiedere la licenza in Italia, cioè un passaggio burocratico’, ha detto alla Afp Diego Álvarez, portavoce dell’ente. Nella Cicig, diretta da Francisco Dall’Anese, Ingroia avrebbe anche a suo carico, secondo Álvarez, le analisi e gli studi sull’impunità del paese, che toccano il 98 per cento dei casi che arrivano in tribunale, secondo dati di questo organismo”. Ed ecco la lettera di un lettore di Siglo XXI, datata 23 luglio: “Ho visto la nota principale pubblicata sul Siglo XXI sulla possibile venuta nel paese del procuratore aggiunto di Palermo alla commissione internazionale contro l’Impunità in Guatemala. Secondo la nota, l’arrivo del signor procuratore italiano (Antonio Ingroia) rafforzerà il ruolo della Cicig, giacché gli antecedenti di questo funzionario dimostrano che ha una ferma decisione di lottare contro le mafie. Voglia Dio che questa notizia si confermi ed effettivamente si uniscano persone di questo spessore alle organizzazioni che lottano contro le reti del delitto e del narcotraffico nel paese, perché dimostrino sul terreno che anche con tutto il denaro, il potere e i tentacoli del crimine organizzato, è possibile preservare la giustizia e i principi morali e sociali della convivenza in pace”.
Ma come è stata possibile un’evoluzione del genere? La cosa può confondere, ma a dir la verità anche se si dedica un po’ di tempo a rileggere il Nobel per la Letteratura locale ci si può ritrovare frastornati, sia pure nel più poetico dei modi. “Nell’oscurità cominciarono a sorgere immagini fantastiche e assurde: occhi, mani, stomaci, mascelle”. “Molte generazioni di uomini si strapparono la pelle per foderare la foresta. Inaspettatamente mi trovai in un bosco di alberi umani: vedevano le pietre, parlavano le foglie, ridevano le acque e si muovevano di propria sponte il Sole, la Luna, le Stelle, il Cielo e la Terra”. “La vegetazione aveva ricoperto le rovine e risuonava nei burroni sotto, le foglie, come se tutto fosse tronco marcio, burrone e stagno, burroni popolati da alcuni esseri della vivacità dei germogli, che parlavano sottovoce e che con le liane millenarie avvolsero gli dei per ridurre le loro capacità magiche, come la vegetazione aveva avvolto la terra, come gli abiti avevano avvolto la donna. E fu così che le popolazioni persero il loro contatto intimo con gli dei, con la terra e con la donna, per quanto si sa”… Realismo magico, è chiamato in letteratura. A definirlo per primo fu nel 1949 il cubano Alejo Carpentier, a farne bestseller fu nel 1967 il colombiano Gabriel García Márquez, con “Cent’anni di solitudine”, ma a inventarlo era stato appunto nel 1930 Miguel Angel Asturias, con il linguaggio barocco delle sue “Leggende del Guatemala”. Che significa “realismo magico”? “Per la verginità del paesaggio, per l’ontologia, per la presenza faustiana dell’indio e del negro, per la rivelazione che costituì la sua recente scoperta, per i fecondi meticciati che propiziò, l’America è ben lungi dall’aver terminato la sua scorta di mitologie”, spiegava Carpentier. Ma sarebbe più semplice ancora dirla in un altro modo: quel che sembra inventato, è vero; quel sembra vero, è inventato; niente è come sembra.
In Guatemala, non avviene solo con la letteratura. Il nome stesso del paese, ad esempio. Quauhtlemallan: in náhuatl “luogo dei molti alberi”, per le sue foreste. Solo che il náhuatl era la lingua degli aztechi, che in Guatemala non arrivarono mai, se non come ausiliari dei Conquistadores; mentre quello era invece il cuore della civiltà maya, la cui lingua è ancora parlata da metà dei guatemaltechi. Per questo, le sue “Leggende del Guatemala” Asturias le fece passare per maya. Ma in realtà si tratta di storie dei ladinos, i meticci di lingua spagnola. E avete presente il tormentone che sta affliggendo l’anno 2012, con la storia che i maya avrebbero previsto la fine del mondo per il 21 dicembre? In realtà, è vero che nel loro calendario quella data corrispondeva a un anno zero che viene ogni 1.872.000 giorni. Ma mentre per la matematica occidentale lo zero è il nulla e la numerazione inizia da uno, in omaggio all’idea di Platone che i numeri nascono dal tempo, per i maya lo zero era invece un’entità concreta: uno zero germinativo di nuova realtà.
Possiamo dunque pensare che la Cicig sia stata contagiata da questa sindrome real-magica? In realtà, più che pensare a un’influenza diretta tra letteratura e prassi giudiziaria, è forse più semplice ritenere che l’una e l’altra siano solo il frutto di una storia tormentata. Solo un anno fa, il 2 agosto del 2011, venne la prima ancorché severa sentenza per le gravissime violazioni dei diritti umani che erano avvenute durante la lunghissima guerra civile che insanguinò il paese tra il 1960 e il 1996, provocando 200.000 morti e 40.000 desaparecidos: 6.060 anni di carcere inflitti a quattro ex militari riconosciuti colpevoli dell’assassinio di 201 indigeni nel dicembre del 1982. Carlos Carias, Manuel Pop, Reyes Collin Gualip e Daniel Martínez Hernández erano ispettori alla Escuela de Kaibiles, unità di élite controguerriglia dell’esercito guatemalteco, quando 40 kaibiles eseguirono il loro ordine di uccidere tutti gli abitanti del villaggio di Dos Erres. Uomini, donne, bambini, perfino neonati. I sei millenni di condanna sono appunto arrivati calcolando 30 anni per ognuna delle vittime, più altri 30 anni per delitti contro i “doveri dell’umanità”. Motivo della strage: due mesi prima i militari avevano perso in quel luogo 40 fucili. Negli accordi di pace che avevano posto fine al conflitto, assieme alla trasformazione della guerriglia in partito politico, a riforme costituzionali e a un’ampia amnistia era stata prevista anche una Comisión para el Esclarecimiento Histórico (Ceh) per indagare sulle violazioni dei diritti umani che erano state compiute in quei 26 anni.
Non erano stati d’altronde solo i militari. Fu il Guatemala, tecnicamente, a inventare quel modello degli “squadroni della morte” poi copiato dal resto dell’America latina: i gruppi di uomini incappucciati e armati che di notte andavano a sterminare e spesso nel modo più atroce chiunque fosse sospettato di connivenza con la “sovversione”. A volte si trattava di militari travestiti, a volte di ausiliari che erano stati armati dai militari senza essere però inquadrati in modo regolare, a volte di eserciti privati impegnati in proprie guerre parallele, spesso si trattava di gruppi incaricati di agire con metodi che lo stato ufficialmente non avrebbe potuto approvare. “Mano bianca”, “Occhio per occhio”, “Esercito segreto anticomunista”, “Giaguaro giustiziere” erano alcuni dei nomi. Poi nel 1982 il dittatore Efraín Ríos Montt, un dittatore evangelico che in tv predicava con la Bibbia in mano, iniziò a formalizzare le pattuglie di difesa civile, che arrivarono a oltre 250.000 uomini attraverso le politiche di arruolamento dette del “fagioli e fucili” e “tetto, lavoro e tortillas”: misure tra il sociale e il clientelare ai contadini che accettavano di costruire squadre armate per tenere lontani i guerriglieri dai villaggi. Va detto che non tutte le Pdc erano composte da assassini, e non tutti gli squadroni della morte entrarono nelle Pdc. Ma il risultato fu di aumentare un pasticcio da cui alla fine il Guatemala non è mai veramente del tutto uscito.
Il generale Otto Pérez Molina, l’attuale presidente, è un generale in pensione con un netto profilo di destra, specialista in intelligence e controguerriglia. Come capo dell’intelligence nel 1993 salvò la democrazia, facendo fallire il golpe bianco alla Fujimori del presidente Jorge Serrano. Dopo essere stato capo di stato maggiore, nel 1996 fu il rappresentante dei militari agli accordi di pace con la guerriglia, e quindi è stato anche un protagonista della transizione. Però è stato anche accusato di pesanti violazioni dei diritti umani durante la guerra civile, e nel 2007, quando pure si era candidato alla presidenza, perse le elezioni per l’effetto di un libro: “L’arte dell’omicidio politico”, di Francisco Goldman. Un reporter del New Yorker che aveva appunto indagato sul misterioso omicidio di Juan Gerardi Conedera: il vescovo ausiliare di Città del Guatemala e titolare della diocesi di Quiché, trovato cadavere la mattina del 27 aprile 1998, due giorni dopo la pubblicazione di un rapporto sulla violenza perpetrata nel paese negli ultimi sessant’anni redatto dall’Ufficio dei diritti umani dell’arcivescovado come contributo all’attuazione dell’accordo di pace, in cui l’esercito era indicato come responsabile della tortura, della morte o della sparizione di almeno 200.000 persone. Per quel delitto sono stati in seguito condannati tre ufficiali e un sacerdote complice, ma senza individuarne i mandanti. E la tesi di Goldman era stata appunto, primo che i mandanti erano gli alti gradi dell’esercito; secondo, che Pérez Molina aveva per lo meno incrociato il delitto Gerardi in modo inquietante.
Presidente fu dunque eletto Alvaro Colom Caballeros, un personaggio quanto meno trasversale: imprenditore, ma di sinistra; ladino, ma riconosciuto come sciamano dalla popolazione maya. Ma anche lui è poi incappato in un delitto eccellente: il caso Rodrigo Rosenberg Marzano. Un avvocato ucciso a colpi di arma da fuoco il 10 maggio 2009 mentre andava in bicicletta, e di cui dopo la morte saltò fuori un messaggio video in cui diceva: “Se lei sta vedendo questo messaggio è perché sono stato assassinato dal presidente Alvaro Colom, con l’aiuto di Gustavo Alejos”. Il suo segretario privato. Motivo: il presidente, sua moglie Sandra Torres e vari loro accoliti avrebbero fatto affari poco puliti con una banca, facendone poi uccidere due dirigenti che si opponevano e che erano clienti di Rosenberg Marzano. Alla fine fu proprio la Cicig ad attestare che Colom era innocente, e che Rosenberg Marzano si era fatto uccidere perché depresso e intenzionato a danneggiare il presidente a ogni costo: una conclusione che ovviamente non ha convinto tutti. Meno fortuna ha avuto Colom quando ha cercato di aggirare il divieto costituzionale alla rielezione non solo dei presidenti ma anche dei loro congiunti, facendo presentare la moglie dopo averci divorziato. Tutti gli organismi giurisdizionali del paese hanno cassato la candidatura, spianando la via a Pérez Molina: che peraltro da presidente ha virato se non proprio a sinistra certamente in chiave liberal, iniziando una battaglia per convincere gli Stati Uniti a sostituire la guerra alla droga condotta con metodi militari con un approccio antiproibizionista. E sì che il suo slogan elettorale era stato “mano dura, cabeza y corazón”.
Il fatto è però che proprio con la guerra alla droga scatenata in Messico dal presidente Calderón i narcos hanno iniziato a sconfinare sempre più in America centrale, e il Guatemala si è trovato in prima linea. Con 48 omicidi all’anno ogni 100.000 abitanti, 6.000 morti nel 2010, è infatti il settimo paese più violento del mondo, e anche Città del Guatemala è settima nella classifica delle città più pericolose, con 106 omicidi ogni 100.000 abitanti. E il narcotraffico è responsabile di almeno il 42 per cento di questi delitti. Una gran quantità di ex guerriglieri e ex controguerriglieri lasciati disoccupati dalla pace si sono reinventati una nuova e proficua carriera di sicari di un crimine organizzato che intanto penetrava anche ai massimi livelli della politica, della burocrazia e delle professioni. Pérez Molina aveva promesso di mandare contro i narcos i kabiles, ma il cartello messicano più aggressivo oggi è quello degli Zetas: ex membri delle forze speciali messicane che hanno trovato più proficuo mettersi dall’altra parte. E nell’invadere il Guatemala proprio negli ex kabiles gli Zetas hanno trovato un facile bacino di reclutamento: lo stipendio di un kabil equivale ai 210 euro al mese, contro i 1.400 che offrono gli Zetas.
Insomma, l’emergenza fa di necessità virtù, e l’Onu ha accettato l’evoluzione. Quelli che invece con i viluppi del realismo magico-giuridico guatemalteco continuano a soffrire sono proprio i responsabili della Cicig. Già il 7 giugno del 2010 lo spagnolo Carlos Castresana, il suo primo capo, si dimise sbattendo la porta, e accusando i politici del Guatemala di non collaborare. Mentre il suo successore Dall’Anese, proveniente dalla Costa Rica, ha duramente attaccato le associazioni dei magistrati e la Corte suprema, accusandole di essere corresponsabili per assoluzioni scandalose sfacciatamente mercanteggiate alla luce del sole. Insomma, altro che trattativa stato-mafia…
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