
Scontro di identità
La campagna wasp di Romney nell'America delle minoranze
Nel Partito repubblicano i rappresentanti delle minoranze etniche non mancano, come si è visto a Tampa ieri, quando sul palco della convention sono apparsi Condoleezza Rice, il governatore di Porto Rico, Luis Fortuño, e Susana Martinez, governatore del New Mexico. Il giorno prima erano stati invitati a parlare al popolo repubblicano, fra gli altri, il transfuga democratico e afroamericano Artur Davis e il sindaco di Saratoga Springs, Mia Love, che è donna, giovane, nera e mormona, un trionfo della minoranza.
Roma. Nel Partito repubblicano i rappresentanti delle minoranze etniche non mancano, come si è visto a Tampa ieri, quando sul palco della convention sono apparsi Condoleezza Rice, il governatore di Porto Rico, Luis Fortuño, e Susana Martinez, governatore del New Mexico. Il giorno prima erano stati invitati a parlare al popolo repubblicano, fra gli altri, il transfuga democratico e afroamericano Artur Davis e il sindaco di Saratoga Springs, Mia Love, che è donna, giovane, nera e mormona, un trionfo della minoranza. A introdurre questa sera il discorso di Mitt Romney sarà il senatore di origini cubane Marco Rubio, scelto per il ruolo di apripista anche perché è eletto in Florida, lo stato della convention e crocevia delle ossessioni degli strateghi elettorali (Rubio ha ostentato fiducia: “Mi aspetto che Romney vinca in Florida”). Non sfugge nemmeno ai più distratti, però, che il racconto del Partito repubblicano si svolge su un ordito bianco, costellato di simboli wasp e immagini tratte dal repertorio del New England, con ampio ricorso a strumenti narrativi che da quell’immaginario discendono, dalle banche d’affari (Bain, la banca cofondata da Mitt Romney, non è stata mai citata a Tampa, ma la sua presenza incombe) al modus operandi razionale fino all’eccesso del candidato-manager. Anche le critiche che piovono addosso a Romney, ironicamente raccolte da David Brooks in una column che qualcuno ha preso sul serio, sono imperniate sull’idea della superiorità dell’uomo bianco: le ville a San Diego, il private equity, il liberismo, gli yacht che battono bandiera delle isole Cayman, la libido per il denaro, un certo atteggiamento “out of touch”, i tratti grossolani del carattere dai quali discendono le gaffe pubbliche.
Gli attori principali della convention ripropongono, con sfumature leggermente differenti, la stessa tonalità bianca: Chris Christie, autore di un keynote speech potente, è l’espressione di un milieu attiguo a quello romneyano; il candidato vicepresidente, Paul Ryan, cattolico del Wisconsin assai versato per i numeri, ne è il perfetto inveramento. Persino Ann, la moglie di Romney, quella che aveva il compito di umanizzare il marito, nella metà meno zuccherosa del suo discorso ha abbandonato ogni velleità di presentare Mitt come il candidato della porta accanto. La sintesi l’ha fatta Ross Douthat sul New York Times: “Ha ritratto il candidato repubblicano come un uomo per il popolo, non come un uomo del popolo”. La realtà demografica, dunque culturale ed elettorale, degli Stati Uniti racconta però un incremento della presenza delle minoranze. I dati dell’ultimo censimento, ripresi ieri dal Monde, spiegano che nel 2011 il numero dei bianchi nati in America è più basso rispetto a neri, asiatici e ispanici. Queste constituency sono al centro delle attenzioni dei repubblicani, ma la strategia di Romney è quella di conquistare il 61 per cento degli elettori bianchi d’America. Complessivamente i bianchi rappresentano il 74 per cento dell’elettorato, e i calcoli dicono che il 61 per cento di questa grossa fetta è la soglia fondamentale: la strada di Romney verso la vittoria passa da quel numero. Un anonimo stratega dello sfidante ha spiegato al National Journal che “questa è l’ultima volta che qualcuno cerca di fare un’operazione del genere”. Detto altrimenti: la tendenza demografica dell’America non permetterà più al Gop di fondare la sua campagna sull’elettorato bianco, perché la portata delle minoranze sta crescendo, con gli ispanici in testa alla classifica.
La maggioranza democratica
Un fortunato libro del 2002 scritto da Ruy Teixeira e John Judis e intitolato “The Emerging Democratic Majority” muove da considerazioni demografiche per concludere che i democratici godono di un vantaggio tendenziale: le minoranze sono in ascesa, e tendono a votare democratico, dunque chi può capitalizzare il dato, al momento, è Barack Obama, a sua volta espressione di un’identità meticcia che fotografa fedelmente la tendenza generale. Mitt Romney non è bianco soltanto in senso somatico, è l’espressione di una visione del mondo che si nutre dell’eredità anglosassone, del protestante senso per gli affari, di una morale inflessibile e della puritana divisione fra spazio pubblico e privato. E’ lui che ha promesso di riportare nello Studio ovale il busto di Churchill che Obama ha messo in qualche sgabuzzino. I riferimenti della campagna elettorale repubblicana debordano a fatica dal sentire bianco, e nell’America del futuro nemmeno il 61 per cento dell’elettorato bianco, risultato già arduo da ottenere, basterà per conquistare la vittoria.


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