Leggere e discutere per non morire di insignificanza
Leggere l’“Elogio letterario di Anders Breivik” scritto da Richard Millet, colto letterato parigino, è un esercizio utile e non banale. Non significa sposare le tesi dell’autore né tantomeno contaminarsi con i crimini dello stragista di Utoya – come sembrano temere i redattori di Gallimard, che chiedono una “reazione collettiva”, gli intellettuali che appartengono al suo stesso milieu editoriale come Tahar Ben Jelloun, e che non sanno bene come prenderne inorriditi le distanze, e buona parte dell’opinione pubblica europea.
Leggere l’“Elogio letterario di Anders Breivik” scritto da Richard Millet, colto letterato parigino, è un esercizio utile e non banale. Non significa sposare le tesi dell’autore né tantomeno contaminarsi con i crimini dello stragista di Utoya – come sembrano temere i redattori di Gallimard, che chiedono una “reazione collettiva”, gli intellettuali che appartengono al suo stesso milieu editoriale come Tahar Ben Jelloun, e che non sanno bene come prenderne inorriditi le distanze, e buona parte dell’opinione pubblica europea: quella che ha preferito leggere la strage di Utoya come una tragica conferma della propria visione multiculturalista e politicamente corretta. Farebbero bene, ora, a sforzarsi di leggere altro. Certo, Millet un po’ di scandalo lo fa, come lo hanno fatto sovente gli intellettuali francesi, e non solo i grandi antimoderni di destra, ma capaci di rompere lo schema del loro ambiente ideologico e culturale. Millet, poi non è un occidentalista fallaciano, facile da espellere. Oriana Fallaci prese posizione fortissima per l’America, per il suo sistema di valori. Millet è un intellettuale parigino, e manifesta anche una non ingenua antipatia antiamericana.
La sua interpretazione è “letteraria”, dunque metaforica, ma è la lettura di un disagio della cultura e della società europee, di uno smarrimento palpabile – soprattutto nelle nazioni scandinave, le più destabilizzate nei decenni dall’immigrazione, dalla perdita di rapporto con se stessi, da un multiculturalismo che ha smesso di funzionare da tempo. Attraverso Breivik – e senza giustificarne il crimine, ma assumendone il punto di vista (del resto, esattamente come tanti scrittori occidentali hanno provato in questi anni a calarsi nei panni letterari dei qaidisti per “capire” da dove venise il loro odio: ma nessuno si è mai scandalizzato) – Millet interroga questo smarrimento, ne trae le conseguenze estreme. Millet pone qualche idea diversa sulle ragioni profonde del massacro di Utoya da quelle subito accampate, in una sorta di rito liberatorio. Rileva nella “perfezione formale” – del resto una caratteristica tipica del Male assoluto a cui l’Europa novecentesca ci ha abituato – del crimine le spie di una “disperazione europea” che ha a che fare non con il presunto suprematismo razziale, ma con l’esatto contrario concettuale di queste retoriche: il “nichilismo multiculturalista” che tiene insieme molti miti perdenti di una pluridecennale cultura europea: l’islam moderato e integrato, la denatalità come estrema deresponsabilizzazione, l’indifferentismo: “Noi europei siamo usciti dalla Storia per vivere non in un periodo post storico, ma al di fuori di questo contesto, in un’epoca dove la ‘non storia’ si è rivestita della maschera del divertissement nichilista”.
Non sappiamo se le azioni di Breivik siano “la manifestazione ridicola dell’istinto di sopravvivenza di una civiltà”, come scrive Millet. Ma girare la faccia per non leggere sembra, questa sì, “la manifestazione ridicola dell’istinto di sopravvivenza di una civiltà”: quella del perbenismo europeo. Di un’Europa che “muore d’insignificanza e di consenso”.
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