Come sussiste Il Fatto

Marianna Rizzini

Qui si prende atto dell’anatema (senza nomi) scagliato il giorno 24 agosto scorso da Ezio Mauro, direttore di Repubblica, contro il quotidiano il Fatto, ex compagno di lotta dura “noB.”, e proprio nel bel mezzo della discussione su trattative, procure e Quirinale che tanto ha squassato la stessa Repubblica, con Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari l’un contro l’altro armati. “Nuova destra”, ha scritto Mauro all’indirizzo del giornale di Antonio Padellaro e Marco Travaglio – i quali, evocati come cattivi, hanno così risposto: “Siete come Peppone”.

    Qui si prende atto dell’anatema (senza nomi) scagliato il giorno 24 agosto scorso da Ezio Mauro, direttore di Repubblica, contro il quotidiano il Fatto, ex compagno di lotta dura “noB.”, e proprio nel bel mezzo della discussione su trattative, procure e Quirinale che tanto ha squassato la stessa Repubblica, con Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari l’un contro l’altro armati. “Nuova destra”, ha scritto Mauro all’indirizzo del giornale di Antonio Padellaro e Marco Travaglio – i quali, evocati come cattivi (più cattivi dei “cattivi dell’estate” intervistati in serie dal Fatto, letture peraltro godibili), hanno così risposto: “Siete come Peppone”, ha scritto Padellaro, siete apparatcik “da cineforum”, vi credete “padreterni”, parlate come “proprietari terrieri”. “Volete salvare capra e cavoli”, ha scritto Travaglio, in testa a un elenco di risposte dettagliate punto per punto, più lungo della lista di parole proibite (da non usare di sera quando si è in ritardo sul pdf) da Travaglio stesso compilata e affissa in bacheca al Fatto, nella grande sede di Via Valadier, inaugurata con festa nel febbraio del 2011, dopo che il 2010 si era confermato anno d’oro dei dividendi (circa tre milioni di euro), delle assunzioni (si passò a oltre trenta redattori) e delle copie (lievitate a quasi ottantamila e successivamente scese, in epoca Monti, a circa sessantamila – ma sempre “senza finanziamento pubblico”, fa notare il Fatto dalla testata). E insomma anche i nemici lo dicono: “Il Fatto, ao’, vende”. Lo dice l’edicolante di Trastevere e quello di piazza Farnese, da quando la domenica mattina le raffinate signore intellò, un tempo decrittatrici da cappuccino degli editoriali firmati Eugenio Scalfari, hanno cominciato a presentarsi al bar con due giornali: Repubblica e il Fatto (in bella vista). Si capisce come potesse esserci Lilli Gruber, in quella festa per la nuova sede del Fatto, nel 2011, sorridente tra teglie e pizzette, le stesse pizzette delle numerose e generose autocelebrazioni che al Fatto hanno luogo (diventi praticante? Pizzette. Compleanno? Pizzette. Assunzione? Pizzette. Sabato pomeriggio un po’ morto? Birra e mortadella – ma Travaglio, astemio, se c’è beve acqua, forse Coca-Cola).

    “Nuova destra”, ha scritto Mauro a proposito del Fatto, nuova destra che “canzonava il Cavaliere in un linguaggio da bagaglino… non Montanelli, per favore, ma il Borghese degli anni più torvi”. (E pensare che su Montanelli il Fatto ha organizzato persino un’ecumenica ricognizione tra i lettori: scriveteci cosa ha rappresentato per il giornalismo italiano, secondo voi, grazie). Una destra “diversa dal berlusconismo”, ha scritto Mauro, “ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero… delega alle procure non per la giustizia ma per la redenzione dalla politica, considerata tutta da buttare come una cosa sporca”. E pazienza se la “redenzione “dalla politica” pareva e a volte pare il pane quotidiano per Rep. (Giampaolo Pansa, su Libero, ha parlato di “confronto senza precedenti” tra le due testate – per non dire “duello”, ha scritto, ché c’è una grande disparità di forze” tra “il giornale della ditta Padellaro e Travaglio e quello guidato con mano ferrea da Ezio Mauro”). Non bastasse, per gioco del destino o per gioco di ruolo, il Fatto, con Travaglio non sempre amante del Saviano da tv (quello che poi è testimonial delle petizioni su Rep.), si trova ora a guidare una petizione pro giudici che neanche Saviano su Rep.

    Epperò non tutto torna, nella scomunica anti-Fatto lanciata da Ezio Mauro, un tempo gran pubblicatore di intercettazioni (quanto e più di Padellaro e Travaglio) e orchestratore di campagne comuni a Rep. e al Fatto (anche internazionali, con post-it e slogan antibavaglio), e ora dispensatore di accuse pesanti per un giornale che si presentò al pubblico, il 23 settembre del 2009, come la nuova macchia rossa, rossa come la sinistra liquida del “big bang” sognato l’anno successivo da Paolo Flores d’Arcais e gentilmente richiesto, sempre dalle colonne del Fatto, al leader dell’Idv Antonio Di Pietro (sciogliti nei movimenti, caro Tonino, su). Un’enorme macchia rossa con segni di penna blu, come sui quaderni di scuola dei nonni, con riquadri e megafoni montanelliani e nerissimi titoli a sottolineare la gravità della tenzone nell’autunno post Noemi Letizia: così appariva il Fatto delle origini, con una grafica anni Cinquanta, qualche tocco di Gian Burrasca e sprazzi di boutade da Vernacoliere, e i primi curiosi, tra gli addetti ai lavori, cominciarono per gioco a contare sugli autobus e sui treni e in trattoria quante copie del Fatto parevano aver soppiantato non solo il manifesto e l’Unità, ma forse anche qualche altro giornale (leggenda vuole che nel 2009, al Gruppo Espresso, si commissionassero studi capaci di vederci lungo: il Fatto andrà oltre le cinquantamila copie, dicevano. Al Fatto, d’altro canto, interrogando altri oracoli, più tardi si capì che un 25 per cento di lettori comprava il Fatto e Repubblica in tandem). Ma oggi non è tanto questione di copia contro copia (Repubblica resta pur sempre la corazzata) quanto di traslazione di un universo intellettuale prima solidamente scalfariano e ora sempre meno scalfariano – Barbara Spinelli al Fatto era inizialmente giunta, dalla Stampa, sotto forma di intervistata di rango e di opinionista mascherata, per essere poi repentinamente riacciuffata dal quotidiano di Largo Fochetti, e oggi Spinelli su Repubblica scrive ma al Fatto sempre guarda, come pure lo Zagrebelsky della discordia, e quasi quasi anche il Franco Cordero che Silvia Truzzi, una delle redattrici storiche del Fatto, sogna di avere come “padre segreto” – madre segreta Audrey Hepburn, scrive Truzzi nella minibiografia del suo blog, dove si legge anche che ama pazzamente Paperino ed è nata a Mantova (“non dico quando, ma Virgilio era già morto”). D’altronde andando a rileggere le proprie minibiografie sui siti redazionali si finisce per trovare roba ben più astrusa dell’ircocervo Cordero-Hepburn immaginato da Truzzi, prima coordinatrice del desk Cultura, ora intervistatrice di pensatori zagrebelskiani e curatrice di pagine estive sull’io nevrotico indagato da Tolstoj. Va detto che anche le altre valenti giovani croniste del Fatto hanno blog con biografie sorprendenti: Silvia D’Onghia, si scopre, insegnava danza, Caterina Perniconi vagheggiava il Corriere dello Sport, Paola Zanca faceva stage a Coimbra e Wanda Marra scriveva tesi di dottorato sullo “Zibaldone”, tutte informazioni che sarebbero magari state utili, agli albori del Fatto, ai colleghi di altre testate che cercavano di farsi notare. “Non sai quante belle ragazze ci sono al Fatto!”, diceva un corsivista viveur di altro foglio dopo aver finto di passare per caso a salutare Padellaro, con l’intenzione segreta di conoscere le croniste giunte dall’Unità di Concita e l’inarrivabile Beatrice Borromeo, determinata a scrollarsi di dosso l’etichetta di gauche caviar santoriana a suon di ore passate sulla rubrica delle lettere o sulla cronaca economica – poi è volata in America, per un master alla Columbia, ma pare che preferisca scrivere di lavoro & precari, ché al Fatto la “&” commerciale fa parte della Weltanschauung: media & regime, il regno del giovane, agguerrito e ipertravaglista Carlo Tecce; economia & lobby, regno della firma Giorgio Meletti e del capo dell’economia, l’enfant prodige Stefano Feltri, anche detto “Monty boy” per via della formazione bocconiana e dei toni non proprio antigovernativi di alcuni suoi pezzi (ogni tanto, su sua chiamata, arrivano al Fatto scritti del liberista Carlo Stagnaro e di Michele Boldrin, economista di NoisefromAmerika).

    Mammamia, viene da dire quando si legge il Fatto nelle prime pagine, con titoli quasi satirici tipo “La scelta del Pd” (e non di Sophie), per il “sì a Sallusti” e il “no alla Fiom”, con tutta l’area Travaglio-Micromega sull’attenti, con Roberta De Monticelli al culmine dell’indignazione che fa capolino, e con Peter Gomez e Marco Lillo, dall’Espresso con furore, a far da sentinelle tra inchieste e Web. Mammamia, viene da dire a veder tradotta la ricetta di battaglia del Fatto nella sezione rosa “donne di fatto”, coordinata da Elena Rosselli, dove la moda va incredibilmente sotto il titolo “avere o essere”: bisogna scegliere tra i due, par di capire, ed è panico nella lettrice che pensava di poter salvare capra e cavoli, per dirla con Travaglio, e invece si ritrova, schiacciata dai sensi di colpa, a leggere il pur interessante pezzo sul parrucchiere sociale a Parigi o sulla sarta migrante a Castel Volturno. E però poi il Fatto, al suo interno, tra un box giallo e uno scandalo allegramente spiattellato, fa incursione in un altrove fantasioso: i pezzi non ortodossi o anche deliranti di Massimo Fini, collaboratore fin dal principio (sempre irraggiungibile dalla redazione causa odio luddista per il cellulare); la penna di Malcom Pagani nelle interviste e nelle storie di varia umanità tra arte, genio, dolore, kitsch e sregolatezza (storica, per i cultori del genere, resta la cronaca dall’“horror show” di Fausto Bertinotti, attore in una serata Raffaele Curi-Carla Fendi); le digressioni di Andrea Scanzi, anche autore teatrale (con spettacolo su Gaber alla festa del Fatto in Versilia); le analisi calcistiche di Oliviero Beha, sempre pentito, pare, di non aver partecipato come azionista alla prima fase del Fatto (e poi era troppo tardi).
    Si capisce come il Fatto in festa potesse già catalizzare, in quell’inverno 2011 di crisi berlusconiana in nuce, l’attenzione del re delle foto da salotto e da generone, Umberto Pizzi da Zagarolo. Non era già più solo un quotidiano da battaglia, il Fatto, che a volte si maschera da giornale alla “Combat” (ma mancano, ohimé, Albert Camus e la Resistenza francese) e a volte punta su un più abbordabile modello “Reporter”, ma in chiave grand guignol. Era già un prodotto, il Fatto, un prodotto di moda che, anche suo malgrado, a volte scopre l’anima un po’ più di mondo del direttore Antonio Padellaro, studi al liceo Massimo (come Luca Cordero di Montezemolo), passato lamalfiano, carriera al Corriere, cordiali rapporti sociali con Carlo De Benedetti, toni possibilisti all’avvento dei tecnici: “Abbiamo scritto che avremmo preferito le elezioni anticipate al rischio di governi pasticcio”, ha scritto Padellaro l’11 novembre del 2011, ma se Monti “deciderà di intraprendere una pericolosa traversata per salvare l’Italia dalla bancarotta finanziaria politica e morale non potremo che applaudirlo”. Ed erano giorni in cui persino i più travaglisti, al Fatto, lodavano Paolo Mieli, “cacciato” da Berlusconi, giorni in cui, improvvisamente, tornavano alla mente i rapporti non cattivi di Travaglio con Rcs, editrice di alcuni suoi libri, e l’antico comune sentire tra il Corriere e Travaglio nel 2005, anno di congiunte bastonate ai furbetti del quartierino, poi messo in sordina da anni di “dàgli” al cosiddetto (da Travaglio) “Pompiere della Sera”.
    Fu vedendo Lilli Gruber salutare il cambio di sede al Fatto che i cercatori di connection mediatiche cominciarono a dire “La7 sta diventando padellariana”. Enrico Mentana ci scherza tuttora: “Mi dicevano grillino, ora mi diranno padellariano”, ha detto quest’estate, a “In onda”, dopo aver difeso il Fatto davanti a Roberto Formigoni: hanno pubblicato un documento, sì, ma non partorito dalle menti dei giornalisti, ha detto Mentana, specificando peraltro di non voler fare pubblicità al Fatto.

    E tanto il Fatto si era già autopubblicizzato, la scorsa stagione, con il sostegno anche economico (ricapitalizzazione di 350 mila euro) dato al Michele Santoro mattatore in streaming (per un solo anno). Sulla scorta del grande boom sono arrivate anche le prime liti (sui dividendi; sulla sostituzione di Roberto Corradi al Misfatto, in favore di Stefano Disegni), e le prime fuoriuscite (l’ex ad Giorgio Poidomani dal cda, Luca Telese che fa la scissione con rifondazione di un nuovo quotidiano, Pubblico, prossimo all’uscita – il giorno dopo la scissione è apparso in bacheca, al Fatto, probabilmente per mano travagliesca, un vecchio pezzo in cui Telese non doveva sembrare, con Grillo, duro quanto era sembrato contro il Fatto grillino, nell’intervista appena rilasciata al Corriere della Sera).

    Ma né le baruffe emerse o sommerse né lo scatto d’ira di Padellaro (nel bel mezzo di una riunione: viso improvvisamente paonazzo, porta sbattuta) quando sfuggì agli occhi redazionali la vignetta non proprio innocua su Corrado Passera e consorte, hanno cancellato il ricordo di quando la sera “si andava in tavola calda”, titolo collettivo dato alle memorie della settimana concitata del settembre 2009 in cui la macchia rossa del Fatto cominciò a dilagare a suon di titoli grossier, studiati per far strabuzzare gli occhi (“Indagato Letta”), e con ventimila abbonamenti già in saccoccia. C’era allora Poidomani, sulla più alta poltrona del cda, un signore già esperto di bilanci d’azienda, poi ad della società editrice dell’Unità, pilastro di Padellaro nella fase di gestazione del Fatto. Quanto venderemo?, come risparmieremo?, ci si chiedeva allora mentre dal Web il sito l’Antefatto raccoglieva adesioni (e soldi) dai futuri lettori. Le cifre degli abbonamenti incoraggiavano, i soci Aliberti e Chiarelettere irrobustivano. Il Fatto piombava già quasi sicuro del pareggio di bilancio nell’autunno della grande campagna antiCav.: c’era stato il traino del blog di Travaglio, e il tam tam del libro “Io gioco pulito” di Padellaro. C’era stata un’affollata festa all’Alpheus di Roma (gente fuori, in coda), prodromo delle feste del Fatto che a volte disturbano il calendario di Repubblica: nel giugno scorso Ezio Mauro officiava la “festa delle idee” a Bologna mentre il Fatto faceva la fronda con la festa a Taneto di Gattatico, e ora si prepara alla tre giorni annuale alla Versiliana (dal 7 al 9 settembre), con dibattiti e magistrati (da Antonio Ingroia ad Antonino Di Matteo), canzoni, presentazioni e doppia conduzione (due redattori alla volta, e non importa se poi sul palco ci sono tre ospiti e due conduttori), in base al principio maoista che domina l’organizzazione del lavoro al Fatto: visibilità per un giorno anche a chi non ne ha, ma nella quotidianità, con poche eccezioni, chi scrive fa inesorabilmente pure il desk, con frequente concomitanza tra la chiusura del proprio pezzo e l’inghippo improvviso su pezzo altrui. Pochi i capiservizio di fatto, esteri più sedotti dal baratto riemerso in oriente che dalla Libia, nessun servizio rigido, coordinamento affidato al giovane Edoardo Novella, “colonna” della macchina. I capiredattori, Nuccio Ciconte e Vitantonio Lopez, il primo ex migliorista dell’Unità con esperienza estera, ora non più molto migliorista, il secondo ex cronista Ansa, sono la longa manus di Padellaro, più che gli uomini di bruta fatica titolistica.

    Al posto di Poidomani, in cda, oggi c’è Cinzia Monteverdi, esperta di marketing e già organizzatrice di eventi travaglieschi, circostanza che può far pensare che il cda del Fatto tenda, di fatto, sempre più dalla parte del vicedirettore (vista anche la presenza di Peter Gomez e del produttore Carlo Degli Esposti, molto travaglista sebbene anche sofriano). Ma no, non si può, si dice al Fatto, lo statuto impedisce concentrazioni eccessive fin da quando ci si accalcava nel vecchio quartier generale di via Orazio 10: tre stanzette, un solo terrazzino per fumatori, un’unica stanza detta “vasca” per avventori di passaggio, riunioni e collaboratori in gara per le poche sedie. Ed è sempre omaggiata negli amarcord di chi c’era e c’è ancora, quella sede fumosa come neanche l’ufficio di Marco Pannella a Torre Argentina, e di chi c’era e ora è altrove (Telese scrisse un racconto elegiaco, nel libro “Gioventù, amore e rabbia”, sul “coraggio” aleggiante nel bugigattolo di via Orazio nei giorni in cui il Fatto vide la luce, quando il refuso era in agguato e chiunque, volendo, poteva conquistarsi un posto al sole, come il vignettista Mario Natangelo, giovane napoletano in trasferta segreta per un mese: se ne andava alle sei, nessuno capiva perché, poi si svelò l’arcano – prendeva il treno ogni sera, e venne assunto).

    Certo al Fatto non tutti si sentono ancora in “quella sporca dozzina”, copyright Carlo Freccero, ed era un complimento per la foga messa dalla squadra nei numeri zero, anche se non c’era nessun sbarco in Normandia, come nel film di Robert Aldrich con un formidabile John Cassavetes, e nessun manipolo di ex galeotti da lanciare in imprese eroiche (ma anzi un’attenzione spasmodica ai possibili galeotti del futuro). Tuttavia l’epopea delle origini rende più dolce, oggi, il tran tran redazionale simboleggiato dal vademecum travagliesco in bacheca: vietato scrivere “è bufera” o “è polemica”, vietato usare nei titoli la parola “spunta”, vietato cominciare il titolo con “se”. E capita che il vicedirettore si materializzi quatto quatto da un ovunque extraredazionale, fantasma o ologramma, ed entri nelle pagine in silenzio per cambiare un titolo (come d’altronde fa qualsiasi direttore, anche se più spesso urlando).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.