Sul palco di Charlotte

Obama voleva fare l'anti clintoniano e ora l'unico suo asset è Bill

Paola Peduzzi

Barack Obama gira l’America, fa comizi, beve birre e soprattutto le produce, ascolta gli elettori, cerca di trarre buoni consigli, si lamenta che i giorni sono troppo corti, sorride tanto, poi rientra a casa, si riunisce con i soliti fedelissimi e torna a essere quel che è: un presidente “insulare”, come dicono i commentatori, introverso, solitario e algido, il contrario di quell’uomo che nel 2008 conquistò la presidenza degli Stati Uniti con una formula basata sulla sua storia personale e sull’empatia.

    Barack Obama gira l’America, fa comizi, beve birre e soprattutto le produce, ascolta gli elettori, cerca di trarre buoni consigli, si lamenta che i giorni sono troppo corti, sorride tanto, poi rientra a casa, si riunisce con i soliti fedelissimi e torna a essere quel che è: un presidente “insulare”, come dicono i commentatori, introverso, solitario e algido, il contrario di quell’uomo che nel 2008 conquistò la presidenza degli Stati Uniti con una formula basata sulla sua storia personale e sull’empatia. Il presidente non convenzionale si ritrova, quattro anni dopo, nella convenzionalissima lotta per la riconferma alla Casa Bianca, cerca soldi e cerca consenso, prepara prestazioni da rockstar per contrastare lamentele e disincanto. Obama arriva alla convention democratica che si apre oggi a Charlotte, nella Carolina del nord, tutta all’insegna della “fairness”, affaticato e preoccupato: i sondaggi non vanno male, gli attacchi al ticket repubblicano funzionano, ma nulla può togliere dalla testa del presidente la consapevolezza che non era così che doveva andare.

    Alcuni elementi che misurano la frustrazione obamiana. I giornalisti americani mettono in fila le aspettative che risalgono all’inizio del primo mandato, raccontano quel che è successo, perdono per strada “hope and change” e si ritrovano a ragionare su quale sia l’aggettivo migliore da appiccicare al concetto di “Obamismo”. Pragmatico e convenzionale vanno per la maggiore, a dimostrazione che nulla ha fatto più male al presidente Obama del tifo cieco dei suoi sostenitori, soprattutto dei sostenitori che vivono nei media e fuori dall’America (in Europa si tende ancora a credere al tocco magico, siamo un continente cui piace illudersi, e pure se fosse un po’ appannato, quel tocco continua a essere meglio dell’alternativa rappresentata dal “robottino” Mitt Romney e dal “talebano” Paul Ryan). Obama cercherà a Charlotte di ritrovare l’entusiasmo perduto, recitando la parte del sognatore: in buona parte ci riuscirà, in quanto a retorica è da sempre inarrivabile. Ma tutti sanno che nulla è più pericoloso, nella vita come nella politica, di una promessa non mantenuta, che lo spirito di Denver, dove si tenne la straordinaria convention del 2008, non è riesumabile, che l’Obamismo ha poco cuore e forse non abbastanza testa, che il cambiamento non c’è stato non perché i tempi sono duri, ma perché Obama non l’ha più voluto.

    Per gestire la disillusione, Obama ha chiamato Bill Clinton, e non poteva prendere decisione più simbolica. Clinton parlerà domani sera alla convention di Charlotte occupando lo slot solitamente riservato ai vicepresidenti (il vicepresidente Joe Biden comparirà giovedì sera, appena prima di Obama) ed è suo il compito di galvanizzare l’elettorato disilluso. Anche a Denver nel 2008 Clinton parlò, ma pochi giorni prima del suo discorso ancora non si sapeva che cosa avrebbe detto, intervistato dalla Cnn si era rifiutato di dire se Obama sarebbe stato un solido commander in chief, e il suo intervento alla convention era stato elaborato senza interpellare il team obamiano. Oggi Bill Clinton non sottopone il suo discorso al vaglio presidenziale, ma è un asset per la rielezione: come racconta il sempre imprescindibile Ryan Lizza sul New Yorker, è stato Jim Messina, capo della campagna 2012, a voler portare a bordo l’ex presidente, “Messina si preoccupa solo di ottenere 270 voti elettorali, punto”, dice un collaboratore. Obama ha dovuto far pace con Clinton (che nel 2008 diceva di lui: “Questo ragazzo qualche anno fa poteva giusto portarci le borse”) e il clintonismo è l’unica formula ancora spendibile per il Partito democratico.

    Obama voleva essere un antidoto al clintonismo. Gli attacchi a Hillary Clinton durante le primarie del 2008 erano l’espressione dell’ala non clintoniana del Partito democratico. Molti dei collaboratori di Obama ci credono ancora, come ha raccontato Jo Becker domenica sul New York Times ritraendo una delle donne-chiave dell’Amministrazione Obama, rimedio naturale al clintonismo: Valerie Jarrett. Amica di lunga data degli Obama, la Jarrett è una delle voci più ascoltate dal presidente, fa parte di quel gruppo ristretto di persone che, se danno consigli, hanno qualche possibilità di essere prese in considerazione. Obama si fida di lei, ed è lei che ha gestito i dossier dei diritti civili, dalla posizione sul matrimonio gay (il Defense of Marriage Act clintoniano non è più difeso nei tribunali dagli avvocati di stato) alla copertura della contraccezione prevista dalla riforma sanitaria, nonostante le lamentele dei cattolici.

    Jarrett continua a essere una delle donne più potenti dell’entourage di Obama, ma secondo la ricostruzione fornita ieri dal Los Angeles Times l’unico elemento “d’armonia” nel litigarello Partito democratico è il clintonismo. Da lì si partiva e lì si è ritornati, vent’anni dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Bill Clinton. La copertina di Newsweek oggi in edicola è dedicata allo stesso tema: “Can’t live with him, can’t live without him” è il titolo dell’articolo di Peter J. Boyer sull’inevitabilità del clintonismo per dare un futuro all’obamismo. Non è soltanto una questione di opportunismo politico – anche se alcuni sostengono che in questa fase delle campagne elettorali non si debba credere più a nulla – ma di definizione strategica del prossimo mandato. Se è vero che molti clintoniani non andranno a Charlotte, è anche vero che i democratici si affidano a Clinton per restare alla Casa Bianca. Obama ha dovuto sotterrare il suo disprezzo per Clinton (galeotte furono Hillary e diciotto buche all’Andrews Air Force Base il 24 settembre del 2011) lasciando a Clinton l’iniziativa: lavorando con Messina, l’ex presidente ha contribuito a definire Romney come un conservatore pericoloso, pur mantenendo un sostanziale rispetto, ricambiato dallo stesso candidato repubblicano. Clinton difende l’estensione del taglio delle tasse per l’anno prossimo, cosa che fa inorridire i liberal ma piace molto agli indipendenti, e ha un vantaggio enorme rispetto a Obama: può dire che gli anni repubblicani di Bush hanno distrutto tutto il benessere creato nei favolosi anni Novanta, e che l’attuale presidente non ha potuto far altro che contenere i danni, e l’ha fatto bene. Soprattutto c’è uno slogan clintoniano che risale al gennaio del 1996 che può dare fastidio agli avversari, uno slogan che ha a che fare con le idee e non soltanto con il pragmatismo convenzionale di Obama: “The era of big government is over”, disse Clinton, che è un gran bel posizionamento per una sinistra americana che scivola senza troppi intoppi verso i modelli della sinistra europea.

    Con tutta probabilità, non è l’idealismo a farla da padrone nella visione di Bill Clinton: se sono vere tutte le cattiverie riportate da Edward Klein in “The amateur: Barack Obama in the White House” e anticipate domenica dal murdochiano Sunday Times, il rapporto tra Clinton e Obama non è sanabile se non per brevi periodi elettoralmente utili. Clinton pensa a sua moglie, alla candidatura di Hillary nel 2016, con quattro anni di tempo per smontare la versione della segretaria di stato che dice di aver un unico desiderio: fare la nonna, se Chelsea si sbriga. Intanto, per non sbagliare, Clinton non soltanto vuol brillare a Charlotte ma ha fatto un’Opa sull’attuale Amministrazione: gli obamiani sono tutti a Chicago; a Washington, nel governo e nello staff presidenziale, sono rimasti soltanto i clintoniani.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi