Le spire di Vendola sul collo del Pd

Alessandro Giuli

Continui pure così, Pier Luigi Bersani, e finirà presto strangolato dal Nichi Vendola che si porta in seno. Prima che se ne accorga, le sue spire gli avranno tolto ossigeno politico e consenso popolare. Perché Vendola non è soltanto un animale a sangue freddo concepito nella terra del rimorso, è sopra tutto un eccellente dissimulatore animato da pulsioni nient’affatto elegiache. Nel contegno del governatore pugliese, nei suoi occhi fondi e recriminatori come nella sua facondia cantilenata, traspare un che d’intimidatorio e sempre ben calcolato.

    Continui pure così, Pier Luigi Bersani, e finirà presto strangolato dal Nichi Vendola che si porta in seno. Prima che se ne accorga, le sue spire gli avranno tolto ossigeno politico e consenso popolare. Perché Vendola non è soltanto un animale a sangue freddo concepito nella terra del rimorso, è sopra tutto un eccellente dissimulatore animato da pulsioni nient’affatto elegiache. La sua recente candidatura di Romano Prodi al Quirinale, la campagnuccia escludente nei confronti dell’alleanza tra il Partito democratico e i centristi di Pier Ferdinando Casini, e poi quel suo fendente culturale diretto a cielo aperto contro Rosy Bindi (“voglio sposare il mio compagno, non voglio stare in un acronimo”): di per sé non sarebbero che legittime richieste o condizioni politiche dettate in pubblico per mercanteggiare in privato col partito più forte, prima dell’imminente campagna elettorale. Ma nel contegno del governatore pugliese, nei suoi occhi fondi e recriminatori come nella sua facondia cantilenata, traspare un che d’intimidatorio e sempre ben calcolato. La forza narrativa di Vendola la conosciamo, risiede nella sua pervicace lamentazione d’uno stato di minorità personale che, dilatato all’estremo, diventa un paradigma sociale talmente intollerabile da dover essere riscattato nell’altrui senso di colpa e risarcito con un credito di acquiescenza raddoppiato. Lì dove finisce il pittoresco eloquio, si sente incedere il clangore di un profeta in armi.

    Uomo del sud, Vendola non si limita alla rivendicazione orgogliosa di una radice culturale, non attinge alla consapevolezza di un Vincenzo Cuoco, gli preferisce l’intemerata sanfedista contro la “razza padrona” del nord: “Siamo stati un posto da colonizzare o una location per una villeggiatura”, ha dichiarato non più d’una settimana fa alla Gazzetta del Mezzogiorno. E’ lo stesso schema costrittivo utilizzato nell’estroflessione della sua omosessualità: figlia d’un pasolinismo dolente e perpetuamente crocifisso, mai esibita con gioia, più spesso imbracciata come la punta avanzata di un odio antipatriarcale dai tratti quasi religiosi. Sono i sintomi di una metafisica dell’indifferenziato della quale Nichi s’è fatto primo sacerdote.
    E’ anche valente poeta, Vendola, nelle sue logomachie, ma nemico delle Muse: l’hilaritas non gli è congeniale, la sua metrica della debolezza è anzi declamata con versi cupi che richiamano Savonarola. Se Antonio Cassano inciampa nei tranelli della lotta di genere e straparla di gay, diventa subito un bersaglio “straricco”, “straignorante” e “impunito”; ovvero il prodotto di una “politica così lungamente afflitta da un immoralismo generalizzato” che “si presenta travestita con abiti talari perché deve esibire un moralismo posticcio con i custodi del pensiero neoconfessionale. E’ una vergogna”. Una vergogna raccontata da Vendola con la stessa cupa aggressività da lui denunciata. Ma con il grosso vantaggio di sentirsi, et pour cause, dalla parte giusta della corrente storica. Da questo punto di vista Vendola è senz’altro un vincente. Nemmeno i suoi guai giudiziari (e quelli della sua giunta) ne hanno scalfito il vittimismo trionfale.

    Bersani, a guardarlo bene e a considerare la sua pensosa bonomia, sembra messo lì apposta per soccombere di fronte a tanta foga. Vendola sarà il suo ministro delle Impari opportunità, il suo cilicio culturale e la sua incognita politica più condizionante. In poche parole: l’anti Bertinotti. Qui la fede nel comunismo c’entra relativamente. L’ex presidente della Camera avrà pure concluso la propria parabola sotto il segno della fatuità, tra il monte Athos e una festa stracafonal, ma la sua Rifondazione comunista ha militato nell’Unione prodiana con uno spirito completamente diverso da quello vendoliano.
    Anche Bertinotti fabbricava i suoi discorsi al tornio, però veniva dal sindacato, conosceva la differenza tra avanguardia e massa critica, tra settarismo e ragion di stato; finché possibile ha trattenuto i suoi parlamentari inchiodati in un’alleanza franata per cause giudiziarie (De Magistris vs Mastella). Eppure oggi il cieco è lui, giacché si richiama all’identità e vorrebbe proiettare Sel fuori dal cartello bersaniano. Vendola non teorizza lo sfondamento da sinistra; pratica l’ibridazione e lo fa nella piena coscienza d’essere, fra i suoi compagni d’avventura, il virus più scaltro e resistente all’invecchiamento biopolitico. La sua crociata dei pezzenti travolgerà per primo il Pd, poi chissà.