Cronoprogramma manettaro

Giuseppe Sottile

Teniamoci forte perché il bello deve ancora venire. Teniamoci forte perché tra settembre e ottobre saranno scritti i capitoli più intriganti di quel romanzaccio nero costruito dalla procura di Palermo sulla presunta trattativa tra stato e mafia e sul mistero di una intercettazione telefonica nella quale è rimasta intrappolata la voce del presidente della Repubblica. Sarà un autunno caldo, anzi rovente. Si muoveranno le somme istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. Torneranno a scontrarsi cordate e fazioni, luminari del diritto e giureconsulti.

    Teniamoci forte perché il bello deve ancora venire. Teniamoci forte perché tra settembre e ottobre saranno scritti i capitoli più intriganti di quel romanzaccio nero costruito dalla procura di Palermo sulla presunta trattativa tra stato e mafia e sul mistero di una intercettazione telefonica nella quale è rimasta intrappolata la voce del presidente della Repubblica. Sarà un autunno caldo, anzi rovente. Si muoveranno le somme istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. Torneranno a scontrarsi cordate e fazioni, luminari del diritto e giureconsulti. Scenderanno in campo giornali e partiti politici, magistrati e opinionisti, tutti a scrivere e a dibattere per affermare le proprie tesi e le proprie verità. Teniamoci forte perché non mancheranno i colpi di scena: la procura di Palermo ci ha abituati al gioco d’azzardo. Solo che stavolta la posta è troppo alta e le partite da giocare sono tante e tutte intrecciate tra loro. Come orientarsi? Ecco, intanto, un crono-programma per seguire da vicino incontri, scontri e decisioni arbitrali.

    6 settembre. Di trattativa si parlerà oggi al Senato. Ma non della trattativa di vent’anni fa per la quale il pm di Palermo, Antonio Ingroia, ha avanzato la richiesta di dodici rinvii a giudizio. Il Consiglio di presidenza di Palazzo Madama, su richiesta del capogruppo del Pdl, Maurizio Gasparri, fisserà la data in cui il ministro della Giustizia, Paola Severino, dovrà comunicare in aula i retroscena di una nuova trattativa: quella avviata da Giuseppe Lumia, senatore del Pd, e da Sonia Alfano, eurodeputato dell’Idv, con i boss mafiosi detenuti, in regime di 41 bis, nel carcere di massima sicurezza di Parma. I due parlamentari hanno incontrato a più riprese Bernardo Provenzano, Filippo Graviano e Antonino Cinà, protagonisti, negli anni Novanta, delle più torbide e sanguinarie imprese di mafia, sostenendo che l’obiettivo delle loro visite era soltanto quello di spingere i mafiosi a pentirsi. Ma il rapporto degli agenti penitenziari, inviato ai vertici del Dap e inoltrato con straordinario ritardo al ministro, rivela che in quei colloqui si discuteva di temi e personaggi legati a processi in corso. Il sospetto di Gasparri e dei senatori del Pdl è che Lumia e Alfano cercassero elementi da mettere a disposizione di Ingroia per rafforzare la traballante inchiesta sulla trattativa di vent’anni fa, con particolare riferimento al filone in cui i magistrati disegnano un coinvolgimento diretto di Marcello Dell’Utri e indirettamente di Silvio Berlusconi. L’iniziativa dei senatori del Pdl – è stata anche presentata una interrogazione alla Camera a firma del capogruppo Fabrizio Cicchitto – è nata in seguito a un articolo, pubblicato a metà agosto dal settimanale Panorama, dove venivano denunciati ritardi, anomalie e negligenze non solo da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ma anche delle procure alle quali erano state inviate, per conoscenza, le segnalazioni provenienti dal supercarcere di Parma.

    9 settembre. Domenica prossima, a Marina di Pietrasanta, sul palco della Versiliana, i giornalisti del Fatto consegneranno ai magistrati palermitani, e segnatamente a Ingroia e Nino Di Matteo, titolari dell’inchiesta sulla trattativa, le 135 mila firme raccolte a loro sostegno dopo che il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale davanti alla Corte costituzionale li avrebbe “lasciati soli”. Soli e accerchiati, perché dopo il capo dello stato è intervenuto anche il procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, per chiedere conto e ragione di un’intervista rilasciata da Di Matteo a commento proprio di quelle intercettazioni che Napolitano ritiene perentoriamente illegittime. La cerimonia di Marina di Pietrasanta potrebbe essere l’occasione per capire come mai, in questi ultimi giorni, Ingroia abbia tentato, e a più riprese, di minimizzare lo scontro con il presidente della Repubblica, parlando addirittura di “eccessiva enfasi mediatica”, mentre Marco Travaglio, suo amico e sodale, continua a sparare senza sosta le munizioni messe a sua disposizione dalla procura di Palermo e a sostenere che Napolitano non solo ha tentato di condizionare l’inchiesta e di allontanare così la verità sulla maledetta trattativa, ma ha finito anche per isolare i pm che con tanto coraggio e zelo l’hanno portata avanti.

    10 settembre. E siccome i processi non finiscono mai, tra lunedì e martedì la commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore Giuseppe Pisanu, dovrebbe concludere l’ultimo ciclo di audizioni per poi correre spedita verso la stesura della relazione finale e il conseguente dibattito d’aula. Le audizioni in programma, va da sé, ruotano tutte sulla famigerata trattativa: saranno riascoltati gli ex ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, sarà chiesta una integrazione di interrogatorio a Nicola Mancino, e saranno sentiti per la prima volta Giuliano Amato, che dal ’92 al ’93, fu presidente del Consiglio e Gianni De Gennaro, all’epoca capo della Direzione investigativa antimafia.
    Forse sarà ascoltata anche Agnese Borsellino, moglie del giudice assassinato in via D’Amelio. Le audizioni in programma serviranno a capire se la commissione parlamentare finirà per istruire un processo parallelo a quello di Ingroia e Di Matteo. La tendenza maggioritaria, a giudicare dalle dichiarazioni degli esponenti più in vista, sarebbe quella di dare totale sostegno e copertura all’inchiesta della procura palermitana; una tendenza che Pisanu, in rotta con il suo Pdl, non avrebbe finora potuto o voluto contrastare. Ma i rischi vanno oltre. A fine ottobre prossimo il gip di Palermo dovrà decidere sui rinvii a giudizio chiesti da Ingroia e un pronunciamento della commissione, prima di quella data, assumerebbe le sembianze di un suggerimento. Pisanu avrà la forza e l’equilibrio di evitare interferenze e sovrapposizioni?

    19 settembre. Dopo mesi di confronto, e anche lacerazioni, tra giuristi di diversa cultura e formazione politica, il conflitto tra Giorgio Napolitano e la procura di Palermo arriva finalmente nella sede naturale: la Corte costituzionale, la sola abilitata a dirimere un contrasto tra organi dello stato. La seduta già in calendario per il 19 settembre si limiterà tuttavia a giudicare l’ammissibilità del ricorso presentato dal capo dello stato. Per avere una sentenza di merito bisognerà aspettare qualche mese. La Consulta ha i suoi tempi e soprattutto ha l’esigenza di lasciare raffreddare il clima: il fronte politico e giudiziario che, dal giugno scorso, conduce l’attacco contro Napolitano ha messo ripetutamente in discussione l’equidistanza dei giudici e un ex presidente della stessa Corte, Gustavo Zagrebelsky, è arrivato persino a teorizzare che, in ogni caso, ci troveremo di fronte non a un giudizio sereno ma a un pronunciamento condizionato da una sudditanza, per non dire dal servilismo. “Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la Corte desse torto al presidente della Repubblica, così nel momento stesso in cui il ricorso è stato sollevato, è stato anche già vinto”. Così ha scritto Zagrebelsky. Ma la stesura sentenza, a giudizio di altri costituzionalisti, non sarà proprio una passeggiata. Napolitano solleva il conflitto di attribuzione perché, a suo avviso, l’intercettazione del colloquio tra lui e Nicola Mancino – intercettazione effettuata quando l’ex ministro dell’Interno, sebbene sospettato di falsa testimonianza, non era ancora formalmente indagato – comporta una “lesione delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica”. Convinto che la figura del capo dello stato, in base all’articolo 90 della Costituzione, è coperta da immunità anche al di fuori dei compiti istituzionali, Napolitano sostiene che le intercettazioni, “ancorché indirette e occasionali”, sono da considerarsi “assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione”. I pm palermitani, invece, hanno ritenuto di applicare un altro metodo: le hanno ascoltate, le hanno valutate e le hanno chiuse in cassaforte. Certamente chiederanno di distruggerle in quanto si tratta di conversazioni “penalmente irrilevanti”, ma la distruzione potrà avvenire, secondo la loro tesi, solo dopo che il gip – con un supplemento di pubblicità rispetto alle indiscrezioni che circolano da tempo, rivelate la settimana scorsa sempre da Panorama – le avrà fatte ascoltare alla difesa degli imputati, e ciò in base al principio che questo o quell’avvocato potrebbe trovare nei nastri elementi a discolpa del proprio assistito. Chi vincerà? Le previsioni ruotano sostanzialmente attorno a due ipotesi. La prima è quella minimalista, possibilmente ricamata sul cavillo: le due tesi non sono in contrasto, c’è una divergenza interpretativa e quindi c’è solo da colmare un vuoto normativo. La seconda, sulla quale si basano i timori della procura di Palermo, è che la Consulta, riconoscendo la “lesione” denunciata da Napolitano, sancisca un abuso da parte dei pm. Finalizzato a che cosa? Questo la sentenza non lo dirà mai.

    29 ottobre. Dopo una incubazione durata oltre dieci anni – ricordate il fascicolo “Sistemi criminali” aperto da Roberto Scarpinato, ora procuratore generale di Caltanissetta? – e dopo cinque mesi dalla conclusione delle indagini con relativo deposito degli atti, la roboante inchiesta sulla trattativa di vent’anni fa tra stato e mafia affronterà il 29 ottobre la prima verifica processuale. Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari, dovrà stabilire se le accuse sono tutte fondate e decidere conseguentemente sui rinvii a giudizio chiesti dal procuratore aggiunto Ingroia. Tra gli imputati, cinque boss di primissimo piano: Bernardo Provenzano, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Poi ci sono gli alti ufficiali del Ros che in quegli anni lottarono contro Cosa nostra: Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. E infine due uomini politici: Calogero Mannino, ex ministro democristiano, già processato e assolto per fatti di mafia, e Marcello Dell’Utri, senatore del Pdl e fondatore, nel ’94 con Berlusconi, di Forza Italia. Sono tutti accusati di “violenza o minaccia a corpi politici dello stato”. A margine di questa assortita compagnia, ci sono due imputati collaterali: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, accusato di concorso esterno e di calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, e Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno ed ex vicepresidente del Csm, accusato di falsa testimonianza. L’inchiesta è arrivata sul tavolo del giudice Morosini con l’ombra di parecchi dubbi. Primo: Paolo Guido, uno dei sostituti che hanno lavorato con Ingroia, si è rifiutato di firmarla, sostenendo che molte accuse non sono sufficientemente suffragate da prove. Secondo: il principale teste d’accusa, Massimo Ciancimino, che per tre anni ha pellegrinato fra tribunali e studi televisivi come “icona dell’antimafia”, si è rivelato nient’altro che un pataccaro e un calunniatore. Terzo: il reato di trattativa non esiste e la “violenza ai corpi politici dello stato” appare una fattispecie sin troppo fragile e indefinita. Quarto: non si capisce bene il movente, in quanto gli ufficiali del Ros nel gennaio del ’93 hanno arrestato Totò Riina, il capo dei capi: altro che trattativa, dunque, altro che patto scellerato. E allora? Per decidere Morosini dovrà fare ricorso a tutta la sua esperienza di magistrato scrupoloso e, per sua fortuna, sempre estraneo ai giochi di palazzo. Ma la sentenza sarà destinata a fare comunque clamore: gli azzardi della procura palermitana hanno ormai spaccato verticalmente sia la politica sia l’opinione pubblica e ogni giudizio, per quanto sereno, non potrà che rinfocolare polemiche e strumentalizzazioni.

    • Giuseppe Sottile
    • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.