Da Renzi a Napolitano, tutti gli ostacoli tra Bersani e Palazzo Chigi
Non ci sono soltanto nemici espliciti e ostacoli messi in conto, nelle selve di palchi e dibattiti in cui si muove Pier Luigi Bersani, segretario itinerante tra una festa del Pd e l’altra (con animo di certo meno sereno del volto mostrato nei manifesti, tripudio di felicità casareccia in cui Bersani abbraccia una signora militante dall’aria felliniana, si intuisce volontaria ai fornelli). Né ci sono soltanto i duelli annunciati con grancassa (da Matteo Renzi per le primarie, da Beppe Grillo contro i vari “cadaveri ambulanti” nelle urne) per il Bersani che si trova a dover parare, negli stessi giorni, più attacchi concentrici alla sua eventuale premiership e alla sua attuale leadership.
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Roma. Non ci sono soltanto nemici espliciti e ostacoli messi in conto, nelle selve di palchi e dibattiti in cui si muove Pier Luigi Bersani, segretario itinerante tra una festa del Pd e l’altra (con animo di certo meno sereno del volto mostrato nei manifesti, tripudio di felicità casareccia in cui Bersani abbraccia una signora militante dall’aria felliniana, si intuisce volontaria ai fornelli). Né ci sono soltanto i duelli annunciati con grancassa (da Matteo Renzi per le primarie, da Beppe Grillo contro i vari “cadaveri ambulanti” nelle urne) per il Bersani che si trova a dover parare, negli stessi giorni, più attacchi concentrici alla sua eventuale premiership e alla sua attuale leadership. Per volontà degli avversari o per eterogenesi dei fini, infatti, il campo di battaglia è pieno di bombe a orologeria – tanto che, per assurdo, lo scontro con Renzi è una delle poche cose che possono mantenerlo saldo in sella (per dirla con le parole dello sfidante rottamatore: “Bersani, non aver paura di chi ti dice le cose in faccia, ma di chi te le dice dietro”).
C’è, sì, sul campo, Antonio Di Pietro, l’ex alleato ora in guerra che sbandiera l’entente cordiale con Nichi Vendola sul referendum anti riforma Fornero (votata dal Pd) in tema di articolo 18, ma c’è anche Nichi Vendola che, alleato a quanto pare ineluttabile ma non del tutto gestibile, rende sempre più scivolosa per Bersani la stretta con Sel (“non penso vi sia un’agenda di cambiamento se non si mette al centro il dramma del lavoro e della precarietà”, ha detto ieri Vendola in coro con il Di Pietro che parlava di “alleanze da fare sui programmi” e referendum presentati “come proposta di programma per un’alternativa alla destra berlusconiana e per mettere di fronte alle proprie responsabilità anche chi appoggia il governo Monti”). Sul palcoscenico del centro, intanto, vanno in scena triangolazioni che consegnano sempre e solo a Bersani il famoso ultimo cerino: si vedeva a un passo dal compromesso con Pier Ferdinando Casini sulla legge elettorale, il segretario pd (Vendola intanto diceva: “Casini è incompatibile con me”), ma si ritrova con Casini che occhieggia alle preferenze – alla faccia dei bipolaristi del Pd – non prima di aver buttato sulle spalle del vertice democratico quel “dopo Monti c’è Monti” che fa a pugni con la “discontinuità” cantata in agosto da Bersani. Terreno, questo, dove i dolori del segretario si tingono di amarezza, ché il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a Cernobbio, si è mostrato più lontano che mai da ogni discontinuità (“mi adopererò perché in Italia venga condiviso l’impegno a dare seguito e sviluppo agli impegni presi in sede europea”).
All’interno del Pd, poi, è tutto un fiorire di alleanze che si indovinano a tempo e di parole che sembrano sostenere, sì, ma per disperazione (molto meglio, per il Bersani che si vorrebbe di governo, il dissenso economico spiattellato al mondo dall’alleato ribelle Stefano Fassina): ecco dunque Rosy Bindi che apparentemente smentisce di volersi candidare alle primarie (“non è mia aspirazione”, dice in tv a “Omnibus”) ma intanto fa capire di aver fatto scelte di testa e non di cuore (“io ragiono sulla principale, voglio rafforzare le motivazioni per le quali sostenere Bersani… prima di arrivare, dio non voglia, a una candidatura della Bindi…”). Ed ecco, sulla Stampa, Dario Franceschini malinconico, intento a mostrare piccole crepe da alleato obtorto collo (“… dopo aver perso le primarie ho preso l’impegno di lavorare con Bersani come in una squadra. Così ho fatto e così farò, non è il momento di aprire divisioni…”). Da un lontano mondo perduto, ma non troppo lontano da Matteo Renzi, infine, si affaccia un pericolo sottile: Romano Prodi che punta al Quirinale, e pazienza se questo rende ancora più incerta la già incerta salita di Bersani a Palazzo Chigi.
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