IL VERO FILM DI UN ATTACCO MILITARE
“Assuming we don’t die tonight. We saw one of our ‘police’ that guard the compound taking pictures”. “Sempre che non moriamo stanotte. Abbiamo visto uno dei nostri ‘poliziotti’ a guardia del compound mentre scattava foto”.
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“Assuming we don’t die tonight. We saw one of our ‘police’ that guard the compound taking pictures”. “Sempre che non moriamo stanotte. Abbiamo visto uno dei nostri ‘poliziotti’ a guardia del compound mentre scattava foto”. Questa è una riga di presentimento in una chat scambiata al computer con un amico e l’ha scritta Sean Smith, un funzionario del dipartimento di stato che martedì era con l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, e con lui è morto assieme a due uomini della sicurezza. Più tardi la stessa sera Smith ha scritto all’amico in chat due ultime righe: “FUCK” e “GUNFIRE”. Panico, e poi più nulla. Al Cairo martedi 11 settembre c’è stata una protesta di massa dei salafiti davanti all’ambasciata americana che ha inglobato gli ultras egiziani – sempre pronti a rispondere all’appello della piazza, soprattutto se c’è la possibilità di scontrarsi con la polizia – e ha finito per strappare e bruciare la bandiera a stelle e strisce per rimpiazzarla con la bandiera nera islamista, sotto gli occhi di giornalisti e fotografi. A Bengasi no. C’è stato un attacco militare pianificato da tempo che ha sfruttato la protesta come diversivo – dopo il tramonto, con il buio – come è stato detto alla Cnn da fonti del governo americano.
Non è il primo attacco di questo tipo: l’11 giugno l’auto blindata dell’ambasciatore inglese Dominic Asquith è stata colpita da un razzo a spalla Rpg mentre attraversava Bengasi, due uomini della sicurezza sono stati feriti. E’ la stessa arma che ieri ha colpito l’auto dell’ambasciatore Stevens mentre tentava di fuggire dal consolato dato alle fiamme, dopo una quarantina di minuti di scontro a fuoco. Secondo il medico libico che ha tentato di rianimare Stevens per novanta minuti, la causa della morte è asfissia da fumo. Era arrivato per inaugurare un centro culturale, nella città che senza l’intervento americano sarebbe stata distrutta da Gheddafi nel 2011. L’ambasciatore, dice il medico, è arrivato da lui portato da libici, senza nessun accompagnatore americano. Dov’erano gli altri?
Il vice ministro dell’Interno libico, Wassim al Sharaf, dice che dopo la morte dell’ambasciatore gli americani hanno trovato rifugio in una “safe house” – la cui esistenza avrebbe dovuto essere segreta, ma di cui gli aggressori conoscevano la posizione. Da Tripoli nel frattempo l’ambasciata americana mandava un aereo con una squadra di “uomini della sicurezza” per tentare il salvataggio. Quando la squadra ha tentato di portare via i superstiti dal secondo edificio, è scoppiato un altro scontro a fuoco e sono morti due uomini della sicurezza e almeno due libici.
Safian Kudura è un pilota di linea, ha raccontato alla tv satellitare in inglese France24 cosa ha visto: gli islamisti hanno bloccato le strade davanti al consolato e hanno impedito a tutti di passare. “Erano armati con fucili d’assalto, con Rpg e mitragliatrici pesanti montate su fuoristrada. Erano chiaramente islamisti, avevano la barba lunga. La gente gridava loro di smettere, di non sparare, quelli rispondevano di voler uccidere tutti dentro il consolato. Ci sono anche libici là dentro, urlava la gente. E loro: non dovrebbero lavorare per gli americani”.
Anche la fondazione Quilliam, un think tank di Londra che lavora alla deradicalizzazione di giovani islamisti, in particolare immigrati dal mondo arabo e dall’Asia, sostiene la tesi dell’attacco pianificato da tempo e mascherato da protesta violenta improvvisa contro il film su Maometto. Per quella fondazione lavora come analista Noman Benotman, che è stato il capo più importante dell’estremismo violento in Libia e che ora ha rinunciato al terrorismo, senza perdere però i contatti. Il movente dell’attacco sarebbe la morte di Abu Yahia al Libi, influente capo di al Qaida ucciso da un drone americano a giugno. Martedì il leader di al Qaida, Ayman al Zawahiri, ha dato la conferma della morte di al Libi con un messaggio su Internet, che è parso singolare considerato che la morte risale a giugno. Oggi il messaggio di Zawahiri suona deliberato, a orologeria, come se lui potesse sapere.
Il presidente americano Obama non ha saputo con certezza cosa è successo a Bengasi fino all’alba di Washington. Una forza di reazione rapida dei marine di circa 200 uomini ieri è stata mandata in Libia per rafforzare la sicurezza attorno agli interessi americani e secondo la Cnn i droni stanno perlustrando il terreno attorno a Bengasi per identificare e selezionare possibili bersagli da colpire: campi del jihad, capi delle milizie. Il dipartimento di stato americano ha ordinato a tutto il personale non essenziale di lasciare la Libia.
Il piano d’attacco all’ambasciata era già stato scritto. Ma è scattato al momento opportuno, alla notizia che l’ambasciata americana al Cairo era sotto assedio e minacciata dalla possibile irruzione della folla salafita. Sono le conseguenze dell’onda lunga di un altro piano, questa volta di segno opposto, per provocare la rabbia islamica. Il film contro cui si sono scatenate le proteste in Egitto, in Libia e anche in Tunisia è sotto ogni standard di qualità e non ha nessun valore come film autonomo: sembra girato e fatto circolare con il solo intento di suscitare una reazione incontrollata. Per ora sta riuscendo, probabilmente oltre le aspettative. Ieri un portavoce del Pentagono ha detto che a Terry Jones, il pastore che brucia Corani e che ha adottato il film sul suo sito, è arivato il messaggio dai vertici dell’esercito americano: troncare subito la provocazione.
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