Le guerre di Obama tutte armi e poca faccia finiscono nell'urna elettorale

Paola Peduzzi

Chris Stevens era la faccia dell’intervento americano in Libia, un intervento su cui l’America non ha messo la faccia, ma tante armi, questo sì, tanto personale esperto. Chris Stevens aveva preso i contatti con i ribelli, aveva gestito con loro i mesi di guerra, la caccia a Gheddafi, la divisione dei compiti una volta che il colonnello era stato stanato ed eliminato. Chris Stevens è stato ucciso ieri dal braccio islamista di quegli stessi ribelli con cui aveva parlato, pranzato, discusso, pianificato. Lavorato. Il suo corpo tumefatto mostrato alla folla, trofeo di una nottata di guerra.

    Chris Stevens era la faccia dell’intervento americano in Libia, un intervento su cui l’America non ha messo la faccia, ma tante armi, questo sì, tanto personale esperto. Chris Stevens aveva preso i contatti con i ribelli, aveva gestito con loro i mesi di guerra, la caccia a Gheddafi, la divisione dei compiti una volta che il colonnello era stato stanato ed eliminato. Chris Stevens è stato ucciso ieri dal braccio islamista di quegli stessi ribelli con cui aveva parlato, pranzato, discusso, pianificato. Lavorato. Il suo corpo tumefatto mostrato alla folla, trofeo di una nottata di guerra. Due giorni fa Vanity Fair edizione americana ha pubblicato un articolo di Michael Lewis su Barack Obama, “Obama’s Way”, un ritratto scritto e costruito in modo magnifico in cui Obama gioca a basket, prepara discorsi, sogna un giorno out of office (lo passerebbe a inseguire le onde alle Hawaii), prende tante decisioni, anzi s’è messo a vestire sempre uguale, o blu o grigio, per non dover scegliere l’abito da indossare, non può disperdere energia decisionale. In “Obama’s Way”, c’è tanta Libia – tempismo spaventevole – e tanto Obama in versione commander in chief.

    Lui che scrive il suo discorso d’accettazione del Nobel per la Pace cestinando le proposte dei suoi speechwriter perché quella è l’occasione di parlare di guerra, non di pace, di come si fa una guerra, quando è giusta, quando è necessaria, quando hai deciso e non si può tornare indietro. Lui che s’interroga su cosa fare in Libia e non c’è nessuno che vuole intervenire – che cosa gliene frega agli americani dei libici? – e lui che non sa cosa fare, chiede alternative e poi decide: l’unica cosa che non si può fare è non intervenire, “that’s not who we are”. E che cosa siamo, allora, Mr. President? Questa è la domanda che rivolgeranno gli americani a Obama dopo i fatti di ieri, e non c’è bisogno di tirare in mezzo Carter e gli ostaggi a Teheran per capire che questo è un momento cruciale, la “september surprise” che appare così poco sorprendente. I repubblicani già attaccano, se la prendono con il tono di scuse, con il pasticcio diplomatico, con quel fare remissivo dell’Amministrazione Obama che da sempre la fa sembrare fragile, e ambigua. Ha preso tante decisioni, il presidente, ha fatto guerre mettendoci più armi (e droni) che faccia, ha deciso che un dittatore andava tirato giù e l’altro a due passi da lì no, ha scelto di litigare più con Israele che con l’Iran. Ora gli viene chiesto di dire una cosa semplice: “That’s who we are”. Come aveva fatto a Oslo, un Nobel per la Pace che difende la guerra, un barlume di dottrina, che poi s’è spento lì.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi