Il venerdì della collera

Cronaca di un giorno di dittatura globale della minoranza ultraislamista

Matteo Matzuzzi

Il primo venerdì della preghiera  dopo l’assalto pianificato al consolato americano di Bengasi si è trasformato, come annunciato, nel venerdì della collera. Dall’Egitto allo Yemen, dal Sudan alla Giordania, dalla Tunisia all’Iraq, dal Bangladesh alla Malesia, fino al Pakistan e all’India, le violenze sono divampate al termine delle funzioni mattutine nelle moschee. Una frangia minoritaria ma violentissima interna al mondo musulmano ribolle e protesta contro il film che irride Maometto. L’obiettivo da colpire è l’America, attraverso le sue sedi diplomatiche sparse nel mondo.

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    Roma. Il primo venerdì della preghiera  dopo l’assalto pianificato al consolato americano di Bengasi si è trasformato, come annunciato, nel venerdì della collera. Dall’Egitto allo Yemen, dal Sudan alla Giordania, dalla Tunisia all’Iraq, dal Bangladesh alla Malesia, fino al Pakistan e all’India, le violenze sono divampate al termine delle funzioni mattutine nelle moschee. Una frangia minoritaria ma violentissima interna al mondo musulmano ribolle e protesta contro il film che irride Maometto. L’obiettivo da colpire è l’America, attraverso le sue sedi diplomatiche sparse nel mondo. A Khartoum, in Sudan, si è tentato di replicare la strage di  Bengasi di martedì sera. Cinquemila, forse diecimila dimostranti (le fonti non concordano) hanno prima tentato di forzare i blocchi davanti all’ambasciata britannica, quindi hanno attaccato con successo quella tedesca, appiccando incendi un po’ dovunque all’interno del compound e sostituendo la bandiera della Germania con il vessillo nero di al Qaida. Successivamente, a bordo di automobili e autobus bloccati lungo la strada, si sono diretti verso la sede diplomatica americana, scontrandosi con gli agenti in assetto antisommossa inviati dal governo. Negli scontri, almeno tre uomini sono rimasti uccisi. L’assalto non è avvenuto a sorpresa, già giovedì erano state annunciate marce di protesta: “Domani scenderemo in strada per difendere il profeta Maometto”, aveva avvertito il segretario dell’organo degli studenti islamici di Khartoum, Salah el Din Awad, che aggiungeva: “Nella capitale ci sono cinquemila moschee e due milioni di abitanti che non aspettano altro che le preghiere del venerdì”. Il ministro degli Esteri di Berlino, Guido Westerwelle, ha detto che “nulla, neppure l’odioso film anti islamico può giustificare la violenza”.

    Poche ore dopo, la tensione cresceva anche a Tunisi, dove è infuriata la battaglia tra la polizia e i manifestanti, che poco prima erano riusciti a superare gli sbarramenti a protezione della sede diplomatica americana, rimuovendo la bandiera degli Stati Uniti e dando fuoco a diverse auto parcheggiate nel cortile. Sul tetto del compound hanno preso posizione una decina di marine, mentre le forze dell’ordine tunisine hanno respinto la folla sparando anche colpi ad altezza uomo. Il bilancio è di almeno tre morti e ventotto feriti. Incolumi i funzionari americani, evacuati prontamente “seppure con difficoltà”, come riporta la tv satellitare qatariota al Jazeera. Negli stessi drammatici momenti, a poche centinaia di metri di distanza, un istituto scolastico americano, l’American Cooperative School of Tunis, chiuso precauzionalmente da ieri mattina, era incendiato.

    Colonna sonora del venerdì della collera è stato lo slogan: “Ascolta Obama, noi siamo tutti Osama”. Dall’Africa maghrebina al medio oriente, queste sono state le parole scandite simultaneamente dalle folle rabbiose. Anche a Tripoli, seconda città più popolosa del Libano, dove un uomo è morto nei duri scontri con la polizia che cercava di disperdere i trecento manifestanti intenti ad appiccare il fuoco a un ristorante della catena americana Kentucky Fried Chicken. Poche centinaia di chilometri più a sud, a Gaza e Rafah, migliaia di persone scendevano in strada rispondendo agli inviti che diversi gruppi jihadisti avevano fatto giovedì: “Morte, morte all’America, morte, morte a Israele”, intonavano ritmati i cori dei dimostranti. Stesso copione nella solitamente più tranquilla Amman, in Giordania, dove un migliaio di persone si è raccolto davanti all’ambasciata americana chiedendo l’espulsione immediata del rappresentante diplomatico di Washington e l’interruzione dei rapporti con gli Stati Uniti. Anche qui cori per Osama bin Laden, il cui ritratto è ricomparso al Cairo, in quella piazza Tahrir dove iniziò a declinare il trentennale regime di Hosni Mubarak. La polizia è riuscita a contenere la folla, rispondendo a continue sassaiole con il lancio di lacrimogeni e innalzando cortine di cemento alte tre metri a protezione del perimetro esterno della sede diplomatica americana, assediata da martedì. Analogo lo scenario a Sana’a, in Yemen, dove le forze di sicurezza locali hanno usato gli idranti per tenere a bada i manifestanti più accesi. Il Pentagono, nel frattempo, decideva di inviare nella capitale yemenita un contingente di cinquanta marine per difendere la sede diplomatica di Washington e il suo ambasciatore, più volte minacciato di morte nei cori e negli slogan urlati all’esterno del muro di cinta. Il contagio che si temeva dopo le proteste del Cairo e l’assalto al consolato di Bengasi dell’11 settembre scorso è stato rapido, e nulla fa pensare che non si potrà ripetere.

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    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.