La kill list di Obama in Libia

Ecco i bersagli dei droni americani dopo l'attacco al Consolato

Daniele Raineri

Make no mistake, justice will be done” dice il presidente americano Obama dopo l’uccisione in Libia dell’ambasciatore Cristopher Stevens. Che forma prenderà la reazione della Casa Bianca questa volta? Nel 1986 Ronald Reagan ordinò il bombardamento della Libia dopo l’attentato ordinato dal regime di Gheddafi a una discoteca tedesca frequentata da soldati americani. Nel 1998 Bill Clinton ordinò il bombardamento di sei campi di al Qaida in Afghanistan e di un sito in Sudan dopo gli attentati a due ambasciate in Africa.

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    "Make no mistake, justice will be done” dice il presidente americano Obama dopo l’uccisione in Libia dell’ambasciatore Cristopher Stevens. Che forma prenderà la reazione della Casa Bianca questa volta? Nel 1986 Ronald Reagan ordinò il bombardamento della Libia dopo l’attentato ordinato dal regime di Gheddafi a una discoteca tedesca frequentata da soldati americani. Nel 1998 Bill Clinton ordinò il bombardamento di sei campi di al Qaida in Afghanistan e di un sito in Sudan dopo gli attentati a due ambasciate in Africa. E’ certo che oggi non sarà così rapida. La risposta di Obama avrà una parte visibile, di deterrenza e minaccia, e una parte clandestina. Due incrociatori sono stati spostati poco al largo delle coste africane e una forza di reazione rapida di duecento marine si sta occupando del rafforzamento della sicurezza attorno ai diplomatici americani. Le due navi da guerra, la Uss Laboon e la Uss McFaul, hanno missili Tomahawk che possono colpire con precisione bersagli sulla terraferma e offrono al Pentagono un’opzione in più. E’ la stessa arma scelta da Clinton nel 1998.

    La parte clandestina è affidata al mezzo preferito dall’Amministrazione Obama, i droni. Il Pentagono ammette che le Cap, le perlustrazioni effettuate con gli aerei senza pilota, non sono mai cessate sulla Libia. Erano andate avanti con discrezione anche dopo la fine della guerra, di cui erano stati protagonisti parecchio rumorosi: 145 missioni di bombardamento, molto più che sulle aree tribali del Pakistan. Lo stesso Gheddafi è morto il 20 ottobre 2011 perché il suo convoglio in fuga da Sirte è stato bloccato da un drone: poi i ribelli lo raggiunsero e fecero il resto. Grazie a un accordo riservato con il governo di Tripoli, non hanno mai lasciato il paese. Ci sono informazioni – che per il momento non è possibile confermare – su operazioni di droni armati con missili già avvenute nell’est della Libia, dove la densità di gruppi estremisti è più alta. A maggio ci sono state misteriose esplosioni in alcuni campi nella zona di Darna, secondo una fonte della Cnn. E’ la città considerata più pericolosa: da lì è partita la maggioranza dei volontari libici che sono andati a combattere in Iraq contro gli americani. Secondo un’altra fonte, un funzionario libico del governo, un comandante islamista sostiene che nello stesso periodo il suo campo è stato bombardato.

    Se è già successo, potrebbe succedere ancora, a maggior ragione adesso che i libici hanno dimostrato di non essere in grado di proteggere gli americani nel paese – martedì notte il comandante delle guardie libiche del Consolato ha indicato agli assalitori dove si erano nascosti gli americani sopravvissuti alla prima ondata di attacco. Fonti americane dicono alla Cnn che i droni stanno sorvolando l’area attorno a Bengasi in cerca di bersagli. Sulla lista dei sospetti ci sono le brigate Omar Abdul Rahman, che a giugno hanno attaccato anche l’ambasciatore inglese e gli uffici della Croce Rossa a Misurata.

    Noman Benotman, analista della Quilliam Foundation londinese e ex capo di al Qaida in Libia, è convinto che quanto è successo al Consolato sia collegato direttamente a un video diffuso tre giorni fa su Internet da Ayman al Zawahiri per l’undicesimo anniversario dell’11 settembre in cui il capo di al Qaida conferma la morte di Abu Yahia al Libi. “Il suo sangue vi chiama, e vi spinge e vi incita a combattere e a uccidere”. E’ considerato un “via libera” all’esecuzione dell’attacco contro gli americani.
    All’inizio dell’estate le brigate hanno messo su Internet il video del primo attacco al Consolato di Bengasi, datato 5 giugno, una serie di esplosioni notturne inframezzate da spezzoni di Osama bin Laden e Zawahiri, tanto per chiarire la linea ideologica senza possibilità di equivoci. Nel video il gruppo afferma di avere lanciato l’attacco in risposta alla notizia della morte di al Libi, colpito da un drone in un’area tribale del Pakistan. Per questo motivo martedì le parole di Zawahiri sono suonate sospette, a tre mesi di distanza. Nel video si dice che l’attacco è stato lanciato in corrispondenza con i preparativi per l’arrivo di un funzionario di alto livello del dipartimento di stato. “La scelta di tempo – scrisse Benotman in un report a giugno – indica che il gruppo segue e raccoglie attivamente informazioni sulle attività diplomatiche nel paese”.

    Chi finisce quindi nel mirino dei droni? Secondo i servizi di sicurezza libici tra Bengasi e Darna ci sono circa 20-30 jihadisti “hardcore” che potrebbero finire nella kill list della Casa Bianca. Due nomi. Uno è Abdulbasit Azuz, che è in collegamento diretto con Zawahiri ed è stato mandato da lui nel paese africano l’anno scorso, quando è scoppiata la rivolta contro il regime. Azuz è un veterano dei tempi dell’Afghanistan ed è stato anche a Belmarsh, la prigione di massima sicurezza britannica, dopo gli attentati del luglio 2005, perché l’intelligence lo teneva d’occhio per la sua campagna di reclutamento di estremisti a Manchester. Il secondo nome è Sufian bin Qamu, conosciuto anche come Abu Faris al Libi, un ex detenuto di Guantanamo che ha un campo nascosto nella zona boscosa di darna, vicino alla costa del Mediterraneo. Quando il governo ha mandato nell’est del paese il gran muftì Sadiq al Gharayli per stringere un patto di non belligeranza fra Tripoli e i cinque comandanti delle brigate estremiste, Qamu è stato l’unico a rifutarsi di firmare, perché vuole avere la libertà – anche formale – di compiere attacchi. Anche Qamu, 53 anni, è stato in Afghanistan e Pakistan.

    In Libia il patto politico militare con l’America è stato tradito in modo disastroso e spettacolare. L’ambasciatore Christopher Stevens era il simbolo di quel patto, quasi un eroe nazionale libico: durante la guerra il regime di Gheddafi trasmetteva le sue telefonate con il Consiglio dei ribelli come prova delle interferenze straniere. L’America contava sul governo di Tripoli per la sicurezza in Libia – ora potrebbe prendere iniziative unilaterali. Non è il solo accordo che sta cedendo, alla prova delle proteste violente contro il film su Maometto.
    C’è il patto politico militare ignorato dallo Yemen. Là le forze di sicurezza locali non hanno sbarrato la strada a cinquecento manifestanti che sono entrati con la violenza nell’Ambasciata nella capitale Sana’a – fortunatamente l’edificio è una fortezza costruita a settori concentrici e quelli hanno espugnato solo il primo, il più esterno, e non gli altri dove erano chiusi, pregando per il meglio, gli americani. Però a Washington si chiedono: è possibile che le stesse forze di sicurezza yementie che riescono a tenere lontane cinquemila manifestanti furiosi dalla casa dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh non riescono a fermarli quando sono dieci volte meno (forse perché sono ancora agli ordini di Yahya Saleh, nipote dell’ex autocrate)? Con tutti i milioni di dollari che gli diamo ogni anno?
    E c’è – più importante di tutti – il patto militare politico con l’America ignorato dall’Egitto.

    Al Cairo le forze di sicurezza locali non sono riuscite a fermare le proteste davanti all’Ambasciata americana anche se quasi ogni giorno disperdono con le brutte maniere quelle davanti all’ambasciata siriana, due isolati più in là. Di nuovo: con tuti i milioni di dollari che Washington dà ai generali ogni anno (1,3 miliardi, per la precisione), davvero finisce con la bandiera nera dei salafiti che sventola sul muro esterno? Ieri il governo del Cairo ha respinto la richiesta americana di mandare più marine a proteggere l’Ambasciata. “La protezione la garantiamo noi”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)