Ridere da morire

Edoardo Rialti

Tre uomini si aggirano in una foresta congelata da un inverno perenne, e uno di loro insiste per abbandonare quel luogo sinistro il prima possibile. Ma il capo della spedizione si limita a sogghignare: “La stessa cosa che mi diceva la mia balia. Mai credere a quello che si sente vicino alle tette di una donna”. E quando poco dopo i tre dovranno fronteggiare un misterioso orrore che emerge silenzioso e letale dagli alberi, un’ombra tra le ombre che fa ulteriormente abbassare la temperatura attorno, sarà sempre il capitano a sfoderare la spada e invitare la cosa innominabile a farsi avanti: “Vuoi danzare? Allora danziamo”.

    Tre uomini si aggirano in una foresta congelata da un inverno perenne, e uno di loro insiste per abbandonare quel luogo sinistro il prima possibile. Ma il capo della spedizione si limita a sogghignare: “La stessa cosa che mi diceva la mia balia. Mai credere a quello che si sente vicino alle tette di una donna”. E quando poco dopo i tre dovranno fronteggiare un misterioso orrore che emerge silenzioso e letale dagli alberi, un’ombra tra le ombre che fa ulteriormente abbassare la temperatura attorno, sarà sempre il capitano a sfoderare la spada e invitare la cosa innominabile a farsi avanti: “Vuoi danzare? Allora danziamo”. Sono solo due battute dal primo capitolo de “Il Trono di Spade” di George Martin, da cui la Hbo ha tratto una fortunata serie televisiva – giunta già alla terza stagione, in corso di riprese – che hanno fatto incetta di premi, ma bastano a circoscrivere e a evocare l’intero orizzonte del mondo inventato dallo scrittore americano, e anche parte consistente del suo successo planetario. Come ebbe a notare un altro celebre narratore e amatore di universi fantastici come il Clive Staples Lewis di “Narnia”, l’atmosfera di un grande romanzo fantasy è ottenuta principalmente per mezzo del linguaggio: “Ciascun episodio, ciascuna battuta aiutano a incarnare quello che l’autore sta immaginando. Non potreste perderne una sola. Fanno sì che l’intera storia costruisca la sua strana mistura di lussuosità rinascimentale e nordica asprezza. Gran parte del segreto qui sta nello stile, e nello stile dei dialoghi in special modo. Quella gente orgogliosa, audace, appassionata crea se stessa e l’atmosfera in cui vive principalmente parlando”. Parole degli anni Quaranta per i romanzi di Eric Rücker Eddison, ma che sembrano scritte apposta per “Il trono di spade”. Il mondo di Martin è infatti scandito dalle battute folgoranti dei suoi personaggi, che spesso, con astuzia da centone vittoriano, chiudono un capitolo e invogliano a gettarsi subito sul successivo; si passa dalla nobile pensosità dei personaggi saggi e positivi come Lord Eddard Stark (“– E’ possibile che un uomo che ha paura possa anche essere coraggioso? – Possibile? Bran, è quella l’unica situazione in cui si fa strada il coraggio”) al sorriso crudele di Theon Greyjoy che abbatte un nemico con una freccia e constata che i leoni e i lupi possono tenersi i loro artigli, visto che “non c’è niente di micidiale come la metà d’una piuma d’anatra”, o di suo zio il pirata Occhio di Corvo, che accusato di crudeltà ed empietà si limita ad alzare le spalle e ricordare di “essere l’uomo più devoto che sia mai salpato. Quando vedono le mie navi, tutti si mettono a pregare”.

    C’è poi la stolidità guerriera di Gregor Clegane ( “Sai chi sono io?” gli domanda un nemico, “Un uomo morto” ribatte lui) il cinismo machiavellico del cortigiano Ditocorto (“Una borsa di conio compra il silenzio di un uomo per un po’. Un dardo di balestra compra quel silenzio per sempre”) e la segreta brutalità della apparentemente soave e splendida regina Cersei (“Lo sai cosa rende Varys tanto pericoloso? E’ che non ha il cazzo. Forse però anch’io sono pericolosa. Mentre tu invece sei un perfetto imbecille come tutti i maschi. E’ con quel vermiciattolo appeso tra le gambe che pensi”). Gli scherzi sul sesso da parte di soldati e guerrieri non si contano: “Lord Gargalen una volta mi disse che sperava di morire con la spada in pugno, io gli risposi che la mia speranza era di andarmene con in pugno un seno rigoglioso” spiega un gentiluomo, e un mercenario che deve scegliere se sposare una nobile racchia o essere assoldato per fronteggiare un celebre e micidiale campione non ha grossi dubbi su dove esercitare le sue prestazioni: “Dovendo scegliere tra fottere Lollys e combattere con la Montagna che cavalca avresti le brache calate e l’uccello duro in meno di un battito di ciglia”.

    C’è poi la regale crudeltà della regina Daenerys: un ambasciatore nemico la minaccia di essere lui il perno dell’esercito nemico e lei sorride deliziata: “Per cui è da te che traggono il loro coraggio?” Dany si volta verso ser Jorah. “Quando la battaglia avrà inizio, uccidilo per primo”. Ma il campione indiscusso in questo genere di battute è uno dei personaggi più amati dai lettori e dagli spettatori, il nano Tyrion: “Quando fai tagliare la lingua a qualcuno, non dimostri che è un bugiardo, stai solo svelando al mondo che hai paura di quello che potrebbe dire”. Costretto fin dalla nascita a ingoiare insulti, in un mondo dove tutti brandiscono un’arma, egli non ha altro che le parole con cui difendersi e attaccare: opponendosi apertamente al re suo nipote si sente accusato da un lord di minacciare Sua Maestà, ma egli risponde serafico: “Non sto minacciando il re, ma educando mio nipote” per poi volgersi alle sue guardie del corpo e ordinare loro di sgozzare il nobile accusatore se apre di nuovo bocca. “Questa è una minaccia, capito la differenza?”. E’ celebre la scena in cui, circondato da una banda di barbari fuorilegge questi gli chiedono: “Dimmi, Tyrion figlio di Tywin, come vuoi morire?”, ed egli senza battere ciglio ribatte: “Nel mio letto, a ottant’anni, con la pancia piena di vino e le labbra di una fanciulla attorno al cazzo”. I barbari si mettono a ridere, e decidono di risparmiarlo.

    L’umorismo nero nei romanzi epici non è un’invenzione del solo Martin: è presente in due pilastri del fantasy novecentesco, distanti mille miglia per stile, filosofia e sensibilità, come l’Howard di “Conan il barbaro”, e il Tolkien de “Il Signore degli anelli”: l’americano Howard fa notare ai suoi barbarici protagonisti come “gli uomini civilizzati sono più scortesi dei selvaggi perché sanno di poter essere maleducati senza avere il cranio fracassato, come norma generale”, il nano Gimli di Tolkien è britannicamente più implicito, ma non meno letale: fronteggiando l’esercito degli orchi che pareva “un grande campo di grano nero scosso da bufere di guerra, ove ogni spiga brillava di luce pungente” si dice “soddisfatto: da Moria in poi non avevo tagliato altro che legna”. Ma l’elenco potrebbe continuare, come ben sanno gli amanti: E. R. Eddison, S. Donaldson, H. Turtledove, fino al grande affresco della lotta tra pellerossa e vichinghi de “La camicia di ghiaccio” di W. Vollmann, “ L’Anello del Nibelungo di Wagner, diretto da Peckinpah e riadattato da Tolkien”, come scrisse il New York Times.

    E se certamente esempi si possono scovare in tanta letteratura epica di tutti i tempi –  come i guerrieri di Omero che alla Clint Eastwood invitano i nemici a farsi avanti, così da preparargli “un bel vestito di pietre”, o “La Canzone di Orlando” dove il corpo di chi viene trafitto da una spada si abbatte inerte perché “l’inquilino se ne era volato via”, quasi avesse subito uno sfratto – è nel mondo delle saghe e dei poemi nordici che la radice culturale di queste battute va ricercata. Il lettore vi incontra non solo la ferocia quasi insostenibile di storie come quella di Sigfrido (che si apre con un bambino che strappa la lingua a una lupa e si conclude con un banchetto che degenera in strage), ma anche scherzi pesanti sul sesso (la nobile Hriurt che si lamenta di un imbarazzante incantesimo gettato su suo marito da una amante gelosa: “Quando si avvicina a me il suo membro assume tali dimensioni che non è in grado di avere piacere da me”) e, quel che più conta, sulla morte. Un mondo dove perfino i moribondi conservano il gusto della battuta, come nella saga di Njall dove si canta l’ultima battaglia dell’eroe Gunnarr: “ Quando gli assalitori arrivarono non erano certi che Gunnarr fosse in casa e ordinarono a qualcuno di andare alla casa a vedere. Torgrìmir il Norvegese si arrampicò così sull’edificio. Gunnarr vide una casacca rossa contro un pertugio e la trapassò con l’alabarda. Al Norvegese cadde lo scudo, perse l’appoggio dei piedi e precipitò dal tetto. Quindi si mosse verso Gizurr e gli altri seduti per terra. Gizurr lo fissò e gli disse – Allora, Gunnarr è in casa? – Questo tocca a voi scoprirlo: io so soltanto che c’era la sua alabarda – Poi cadde a terra morto”. E nel poema più celebre del mondo anglosassone, il “Beowulf”, il protagonista libera il re dal compito di erigergli un tumulo se perderà nel suo scontro con l’Orco, visto che la tomba in tal caso è assicurata: “Si prenderà il Solitario il mio corpo nel sangue, penserà lui a seppellirlo, sbranandolo senza rimpianti”. E durante un banchetto in cui la birra scorre a fiumi, rammentando le sue imprese giovanili, constaterà che ai suoi nemici “morire non era piaciuto affatto”. E’ anche in versi come questi che emerge tutta una filosofia di vita che è stato proprio il Tolkien filologo a Oxford a rilevare in un suo celebre saggio del 1936 che ha fatto scuola: la civiltà occidentale, con l’apporto del cristianesimo, ha elaborato uno sguardo sull’esistenza ben diverso da quello delle saghe nordiche, eppure in esse è elaborato “un tema che nessun cristiano deve disprezzare”, e anche lui sembra, come Lewis, scrivere di opere come quelle di Martin, notando come tale mentalità “ha avuto il potere, per così dire, di rivitalizzare il suo spirito anche ai nostri tempi”.

    Il mondo mitologico mediterraneo vede degli dèi “elevati, temibili e imperscrutabili, senza tempo”, più convincenti dal punto di vista filosofico, ma spesso meno commoventi di quelli nordici, visto che “il loro interesse per questo o quest’altr’uomo fa parte dei loro progetti individuali, non di una grande strategia che include tutti gli uomini buoni, come la fanteria della battaglia”, che è esattamente quel che avviene invece con gli dèi di Sigfrido o Beowulf. Essi sono “in ogni caso votati alla morte al pari dei loro alleati. La battaglia è contro i mostri e l’oscurità esterna”. E nel giorno della fine del mondo, quando i cancelli degli inferi saranno spezzati e i mostri dilagheranno “essi raccolgono gli eroi per l’ultima difesa”. In quella cavalcata fuori delle mura del palazzo di Asgard, quando Odino ucciderà il lupo Fenrir e ne sarà azzannato a morte, quando Thor schiaccerà la testa del grande serpente mentre questi lo stritola senza scampo, è sinteticamente espresso anche quanto di più nobile e valoroso è stato vissuto e tentato dall’umanità, ogni qualvolta un eroe sia riuscito a ritardare l’avanzata del buio che incombe, senza tuttavia sconfiggerlo mai del tutto: per questo nei poemi nordici “la sconfitta è il tema. Il trionfo sui nemici della precaria fortezza umana appartiene al passato, e ci avviciniamo lentamente e con riluttanza all’inevitabile vittoria della morte”. Anche C. S. Lewis, che da “pagano” divenne cristiano anche grazie a Tolkien, ma col quale portò avanti un club di professori che amavano raccontarsi storielle oscene in lingue antiche, riconobbe per tutta la vita un debito perenne a quell’antica concezione: “Ho creduto in Dio prima di credere nel paradiso. E persino adesso, perfino se – supponendo l’impossibile – la Sua voce mi dicesse indubbiamente ‘Ti hanno ingannato. Non posso fare niente del genere per te. La mia lunga battaglia con le forze cieche è alla fine. Muoio, figlioli. La storia sta finendo’ sarebbe quello il momento per mutare casacca? Forse che io e te non faremmo come i vichinghi: i giganti e i troll vincono, moriamo dalla parte del giusto, assieme al Padre Odino?”

    E’ una concezione del mondo che secondo Tolkien è propria di un uomo “disgraziato ma non detronizzato”, il cui ultimo fallimento non compromette e anzi esalta la sua dignità, quasi facendolo svettare ancora di più su tutto il paesaggio circostante. Nel frammento “La battaglia di Maldon” gli eroi, che resistono a un guado contro nemici ben più numerosi, cadono continuando a incitarsi che “l’animo deve essere più risoluto, il cuore più ardito, il coraggio maggiore, quanto minore si fa la nostra forza” e quando il vecchio Beowulf si avvicina alla tana del drago che abbatterà e da cui sarà ucciso “allora dai polmoni, infuriato com’era / il re fece uscire un richiamo. / Gridò, quel forte cuore: la sua voce echeggiò / grandiosa, battagliera, sotto la roccia canuta”. Quel che segue è ancor più significativo, è solo un verso, eppure contiene un mondo: il drago esce e l’anonimo poeta nota che “nacque un terrore reciproco, nell’uno come nell’altro”. L’uomo, buono o cattivo, ha lo strano potere di mettere paura alla morte stessa: l’orco morente scappa da Beowulf e il poeta nota che “non gliene era venuta gioia”, e che aveva passato davvero “una brutta giornata”. Questo sorriso amaro, rivolto ai compagni di battaglia, e persino al nemico di sempre, è il segreto alla base sia delle sagge massime che degli scherzi, dei canti in onore degli antenati, delle spacconate e dei lazzi osceni: sono difatti questi gli ingredienti dell’altra grande metafora di tutta la vita che è propria dei poemi antichi, quella vissuta in ogni banchetto che si rispetti: “Così là dentro, per tutto il giorno / ci demmo ai diletti, finché sugli uomini / scese una nuova notte”. Il buio che circonda e assedia l’isola della piccola luce degli uomini raccolti a ridere, mangiare, fare l’amore, è come se ne esaltasse il chiarore; il diverso sorriso suscitato dalla triste sapienza dei buoni, dalla ribalda oscenità degli avventati o la fredda crudeltà dei cattivi non è che una variazione del medesimo tema, visto che tale mondo, dovesse essere espresso con una frase, per Tolkien sarebbe stata che “l’uomo, ogni uomo e tutti gli uomini e tutte le opere degli uomini devono morire”.

    Nei romanzi di Martin il misterioso lasciapassare della ragazzina Arya Stark, cui si inchinano sorridendo pure i maghi e i pirati, suona esattamente così: “Valar morghulis, tutti gli uomini devono morire”. Si sorride, si ride, si sghignazza su ciò che è maledettamente serio: il cibo, il sesso, la morte, nella consapevolezza che a quest’ultima, come nota il syrio Forell del “Trono di Spade” televisivo sceneggiato dallo stesso Martin, “puoi dirle solo una cosa: non oggi”, e farle passare davvero un pessimo quarto d’ora. “Sempre la gioia si volge in dolore” canta “La saga dei Nibelunghi”, ma l’uomo può sempre ribattere “come” intende fronteggiare l’ultima sconfitta. I barbari di Martin, e i suoi lettori, ridono a una delle risposte possibili, quella di Tyrion.

    In questa strana commistione di elegiaca tristezza e umorismo, per cui l’uomo può trovare qualcosa di divertente nel momento stessa della sua disfatta, sta tanta parte del fascino di queste storie, antiche e nuove. Anche oggi gli uomini si sentono disgraziati, ma non detronizzati. Davvero l’immagine iniziale de “Il Trono di Spade”, con il giovane guerriero che invita la morte a farsi avanti, viene da molto lontano. “Vuoi danzare? Allora danziamo”.