Tutti i nemici a sinistra di Bersani

Sergio Soave

Il percorso che Pier Luigi Bersani aveva progettato per arrivare a Palazzo Chigi sfruttando l’indebolimento del centrodestra, e che sembrava una strada tutta in discesa, incontra ora una serie di ostacoli imprevisti, e non solo sul lato di Matteo Renzi. La galassia che si muove alla sinistra del Partito democratico si è messa in movimento per sbarrargli la strada, usando armi “improprie” come lo sciopero generale minacciato da Susanna Camusso e il referendum contro le riforme del lavoro promosso da Nichi Vendola insieme ad Antonio Di Pietro, alla Fiom-Cgil e ai vari partitini comunisti.

    Il percorso che Pier Luigi Bersani aveva progettato per arrivare a Palazzo Chigi sfruttando l’indebolimento del centrodestra, e che sembrava una strada tutta in discesa, incontra ora una serie di ostacoli imprevisti, e non solo sul lato di Matteo Renzi. La galassia che si muove alla sinistra del Partito democratico si è messa in movimento per sbarrargli la strada, usando armi “improprie” come lo sciopero generale minacciato da Susanna Camusso e il referendum contro le riforme del lavoro promosso da Nichi Vendola insieme ad Antonio Di Pietro, alla Fiom-Cgil e ai vari partitini comunisti. Lo sciopero, in una situazione di recessione prolungata, non serve a niente, perché le imprese non ricevono alcun danno da una riduzione della produzione che è comunque in calo. Anche dal punto di vista politico, un governo tecnico che non ha il problema di raccogliere consensi non teme l’effetto di uno sciopero come espressione di dissenso sociale. Alla Cgil lo sanno benissimo, ma si muovono su questa strada consapevoli che è proprio il Partito democratico l’unico soggetto che può soffrire lacerazioni di fronte a un’agitazione sindacale contro il governo che sostiene. L’idea originale di Bersani, che annunciando l’accordo preferenziale con Sel puntava a offrire uno sbocco a tutta la sinistra – quella che appoggia il governo e quella che sta all’opposizione – si è scontrata con la volontà dell’area antagonistica di non accettare il ruolo tutto sommato subalterno che le veniva riservato. Il referendum contro le riforme del mercato del lavoro, messo a disposizione da Antonio Di Pietro, è l’arma che è stata scelta per mettere Bersani con le spalle al muro, cercando di capovolgere il gioco e costringere lui a una condizione subalterna. Le riforme del mercato del lavoro, peraltro, rappresentavano una delle principali condizioni enunciate dalla Bce per sostenere il debito italiano. Farle saltare significa negare il meccanismo di interdipendenza europeo, che non solo è la ragione stessa dell’esistenza del governo tecnico, ma è un principio dal quale Bersani non può e non deve derogare se vuole presentarsi come un’alternativa credibile e responsabile.

    A questo, Bersani aggiunge una serie di generiche promesse di correzione in senso sociale delle misure di rigore: ma proprio della loro voluta ambiguità si avvantaggia il fronte che si sta aggregando alla sua sinistra. A questo punto anche le primarie, che avrebbero dovuto garantire la sostanziale unità del nuovo centrosinistra, si presentano invece irte di ostacoli. Ammettere Vendola, metterlo in minoranza per sancire il suo ruolo ancillare, e poi aprire il confronto post elettorale per la costituzione di una maggioranza con la partecipazione dei centristi di Pier Ferdinando Casini, com’era nel disegno di Bersani, diventa oggi assai arduo. Lo spostamento a sinistra dell’asse del Pd, sancito con l’invito a Vendola, doveva essere solo un passaggio tattico, privo di prezzi politici reali. Invece ora il prezzo è aumentato enormemente, a causa dell’inattesa offensiva dell’area antagonista. Rosy Bindi ha constatato che il Pd è diventato troppo “rosso”, che somiglia sempre di più ai Ds, anche se poi attribuisce questo deragliamento, chissà perché, a Matteo Renzi. Altri constatano che con l’accordo referendario tra Vendola e i partiti comunisti si ricostituisce di fatto quella sinistra arcobaleno che aveva fatto fallire i governi di Romano Prodi, e ne traggono la conclusione, come dice Enrico Letta, che tutto il sistema di alleanze del Pd è tornato a zero. Bersani per ora tace, non prende posizioni nette sul referendum e sullo sciopero, ma in questo modo un po’ furbesco mette a rischio la sua immagine di leader.