L'Antimafia di stato

Inchiesta su una Trattativa al di sotto di ogni sospetto

Salvatore Merlo

E’ un tiepido martedì di inizio settembre 2012 quando Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, ex ministri di Giulio Andreotti ai tempi delle stragi, giorni di sangue e bombe, fanno il loro ingresso nella sede della commissione Antimafia, a Roma, e di fronte ai cinquanta parlamentari che la compongono ripetono esattamente, parola per parola quello che è già agli atti del processo di Palermo, ciò che è riportato nei faldoni di Antonio Ingroia, nei fascicoli di quell’inchiesta sulla Trattativa tra lo stato e la mafia che coinvolge, a diverso titolo, i defunti Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Parisi, il novantenne ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, e persino, di riflesso, nei fangosi rivoli mediatici, anche Giorgio Napolitano.

    E’ un tiepido martedì di inizio settembre 2012 quando Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, ex ministri di Giulio Andreotti ai tempi delle stragi, giorni di sangue e bombe, fanno il loro ingresso nella sede della commissione Antimafia, a Roma, e di fronte ai cinquanta parlamentari che la compongono ripetono esattamente, parola per parola, fin nelle minuzie, quello che è già agli atti del processo di Palermo, ciò che è riportato nei faldoni di Antonio Ingroia, nei fascicoli di quell’inchiesta sulla Trattativa tra lo stato e la mafia che coinvolge, a diverso titolo, i defunti Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Parisi, il novantenne ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, e persino, di riflesso, nei fangosi rivoli mediatici, anche Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica la cui voce è rimasta impigliata in alcune intercettazioni.
    Il delfino mancato di Craxi e il ministro democristiano, Martelli e Scotti, ex potenti travolti negli anni Novanta dalla temperie giudiziaria di Mani pulite, hanno recuperato la memoria di sospetti e circostanze sul biennio di sangue che si aprì con la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Così martedì 11 settembre, pochi giorni fa, Martelli guarda negli occhi il presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu, un tempo amico di Silvio Berlusconi, poi allarga lo sguardo come per coinvolgere tutti i presenti, e infine lo dice, ancora, dopo le interviste e le deposizioni in procura: “La Trattativa c’è stata. Il regista fu Scalfaro”. Scotti (un rinvio a giudizio condonato per sopravvenuta prescrizione) e Martelli (condannato per la maxitangente Enimont) sono due pilastri della teoria di Antonio Ingroia, assieme a Massimo Ciancimino (figlio del mafioso Vito e indagato per calunnia e falso). Entrambi gli ex potenti sostengono di essere stati allontanati dal governo, dove li aveva messi Andreotti, per essere sostituiti con la complicità del presidente Scalfaro da due ministri secondo loro più malleabili, niente di meno che il galantuomo Conso e il galantuomo Mancino.

    Eccoli dunque, Martelli e Scotti, di fronte all’Antimafia, che si prepara a licenziare una sua sentenza, tra qualche settimana, una relazione conclusiva redatta da Pisanu, tra allusioni e anticipazioni a mezzo stampa che riguardano anche Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. E in queste ore è tutto un avanzare e un rinculare, voci e pettegolezzi, anticipazioni e allusioni, un dire e un non dire tipico di un altro genere di cultura; non precisamente antimafiosa. Si tratta di un centinaio di pagine che tutti, nel Palazzo, attendono perché si teme possano precipitare con violenza sull’Italia istituzionale, prima del processo vero, quello in tribunale, persino prima che il giudice di garanzia valuti se un processo debba esserci o meno a Palermo; prima che vengano sciolti dalla magistratura i dubbi che si addensano sull’inchiesta, teatro dell’evanescenza in cui tutto appare e poi scompare: quale il reato? Quale il movente? Quali le prove?

    Eccoli dunque ancora i due testimoni, Scotti e Martelli, come Massimo Ciancimino, il pataccaro conclamato e inquisito, il figlio di mafioso, ritornare sul proscenio, convocati in Parlamento a recitare una replica che si sovrappone e si intreccia con il procedimento giudiziario, un altro processo, questo più rapido e sommario e dunque efficacissimo. La legislatura volge al termine e la commissione Antimafia deve sbrigarsi a scagliare la propria relazione in piena campagna elettorale, bisogna fare presto per confondere e lacerare l’Italia che difficoltosamente tenta di sopravvivere alla crisi finanziaria e si avvia ad archiviare la Seconda Repubblica, pur tra gli inciampi, guidata da un Quirinale iperattivo ma ammaccato proprio dalle allusioni mafiologiche. “La relazione dell’Antimafia è in linea con le accuse della procura di Palermo”, ha anticipato il Fatto, l’informatissimo araldo quotidiano delle procure, il primo tifoso della saldatura politica tra Antonio Di Pietro e Beppe Grillo e tra questi e Antonio Ingroia, la stella del Guatemala, che Di Pietro vorrebbe candidare in Parlamento dando il grande annuncio il prossimo 21 settembre alla convention dell’Idv a Vasto. Alfredo Mantovano, ex magistrato e deputato del Pdl, non si è spinto a immaginare un esito di questo genere per Ingroia, ma lo ha comunque definito “un magistrato in fuga” dalle sue responsabilità. “Il minimo della deontologia professionale richiede che il pm resti dov’è, affronti le decisioni del gip e poi, in caso il dibattimento in aula”, dice oggi Mantovano. Ma la verità è che il pm palermitano è già stato contattato per fare altro.

    Ingroia è stato chiamato a fare qualcosa che non ha niente a che vedere con il suo incarico internazionale in Guatemala per conto dell’Onu (a proposito: mistero fitto sugli emolumenti che gli verranno corrisposti. Serviranno per la campagna elettorale?). Che la politica lo interessi, Ingroia non ne ha mai fatto mistero, e infatti è stato avvicinato da Di Pietro in persona dopo un primo incontro a Palermo, nel palazzo del comune, con il sindaco Leoluca Orlando. “Sorpresa. Il primo partito è Grillo più Di Pietro. 5 stelle al 18 per cento, Idv al 7,5” era il titolo di apertura del Fatto, questo giovedì. E si capisce che tutto si tiene, e ciascuno dei protagonisti sta dentro a questa storiaccia per ragioni che non confessa nemmeno a se stesso: taluni convinti di potersi permettere ogni azzardo, anche il più spudorato, perché se mai dovessero trovarsi in difficoltà troveranno comunque il cinismo necessario a chiamare in propria difesa il sangue e la storia delle vittime di mafia.

    Le danze in Parlamento, in commissione, sono prevalentemente condotte da quattro uomini, Beppe Pisanu, Giuseppe Lumia, Fabio Granata e Walter Veltroni, quattro parlamentari molto diversi tra loro per storia e carattere, eppure tutti e quattro, ciascuno per una ragione diversa, chi per equivoco sulla natura della politica, chi per disperazione e chi per calcolo, protagonisti e forse involontari strumenti di un’operazione spericolata che riscrive in chiave criminale la storia dell’Italia istituzionale e getta un’ombra sinistra anche sulla nascente Terza Repubblica. “Non mi esprimo sulla legittimità di un processo parlamentare che si sovrappone a quello giudiziario. Mi chiedo solo, dopo tutto quello che sta succedendo, che serenità potrà avere il giudice terzo chiamato ad esprimersi sulle accuse della procura di Palermo”, dice Nicolò Zanon, membro laico del Consiglio superiore della magistratura. E il professor Zanon, che di lavoro fa il professore ordinario di Diritto costituzionale, si riferisce evidentemente a Piergiorgio Morosini, il magistrato romagnolo, il giudice per le indagini preliminari che il 29 ottobre dovrà decidere se dare seguito o meno alle richieste di rinvio a giudizio della procura di Palermo. Ma non ci sono soltanto la commissione Antimafia e i giornali che aggrediscono il Quirinale, sputacchiano sul cadavere di Scalfaro (“magari potesse rispondere”, dice Gerardo Bianco che gli fu amico) e invitano a rivoltare la repubblica come un calzino. Circa cinquecento magistrati si sono fatti trascinare nella rissa istituzionale tra organi dello stato e hanno firmato un appello a sostegno di Roberto Scarpinato, il procuratore generale di Caltanissetta. Dicono che “ha fatto bene” l’ex collega di Ingroia che lo scorso 19 luglio a Palermo, nel corso della commemorazione per la strage di via D’Amelio, si è rivolto al defunto Paolo Borsellino alludendo così, con queste parole, alle più alte cariche dello stato presenti quel giorno: “Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi”. Le istituzioni puzzano mentre il magistrato profuma, par di capire. E se le istituzioni puzzano, allora tutto è lecito. Dice Zanon: “Le insinuazioni non risparmiano nessuno. Quanto sarà sereno il giudice che dovrà valutare le carte della procura di Palermo? Se dovesse dare torto a questo teorema, e ai suoi sostenitori nelle piazze e sui giornali, cosa succederà? Cosa gli diranno? Qui sì che ci vorrebbe una pratica a tutela della serenità del magistrato”. Altro che Scarpinato, altro che Ingroia, i due magistrati oggetto di una particolare attenzione da parte del Csm, i due magistrati che già indagavano nel 2010 sulla trattativa e che furono entrambi promossi dal Csm con il voto personale e determinante dell’allora vicepresidente Nicola Mancino.

    “A che serve l’indagine dell’Antimafia? Temo possa servire da pedissequo ripetitore di un’inchiesta giudiziaria che si sta sgonfiando”, parole di Francesco Maria Marinello, membro della commissione stessa. Nei giorni in cui il teorema giudiziario di Palermo perde colpi, nel momento in cui si incrinano solidarietà da tempo sedimentate, quando persino Repubblica molla e con il direttore Ezio Mauro si schiera dalla parte del Quirinale ammaccato e combattivo, quando anche il vicepresidente del Csm stigmatizza Ingroia e quando persino l’associazione nazionale dei magistrati, con il suo presidente Rodolfo Sabelli, prende le distanze da quegli uffici di Palermo in cui anche un sostituto procuratore, Paolo Guido, entra in polemica con i colleghi e non firma i provvedimenti; quando insomma le cartucce giudiziarie cominciano a scarseggiare ecco il Parlamento, la commissione Antimafia, la cavalleria pronta a correre in soccorso di un teorema che annaspa vistosamente ma che pure, così sembra, deve restare a galla malgrado tutto. Almeno sui giornali e in televisione, perché è la character assassination quello che conta. Si alimenta la sensazione che la ricerca della verità non c’entri più nulla con questa storia, un processo tutto mediatico e tutto politico, dove i confini tra l’interesse privato, il cinismo del potere, la disperazione e la verità affondano nella palude dell’inafferabile e misteriosa Trattativa: non c’è un terreno stabile nella melma, chiunque rischia di scivolare e capovolgersi. “L’inversione prospettica è da capogiro”. E mentre lo dice, Ottaviano Del Turco, che dell’Antimafia è stato il presidente dal 1996 fino al 2000, fa una pausa, come per recuperare la concentrazione e impegnarsi in uno sforzo di torsione logica. Ed ecco il quadro: “La commissione antimafia si sostituisce all’autorità giudiziaria, l’autorità giudiziaria si sostituisce alla letteratura retroscenistica, e la sinistra per conformismo e timore accetta sorridente il ribaltamento della sua stessa storia”. Ed è quello cui sembra alludere anche Giuseppe Di Lello, ex magistrato, membro del pool Antimafia di Falcone quando si chiede: “Ma la sinistra dov’è? Il Fatto non è di sinistra”. Dunque il ribaltamento prospettico, il gioco di specchi che fa impressione, “se ci pensate è incredibile – riprende del Turco – il demone Andreotti diventa paladino di un governo Antimafia, con i coraggiosi ministri Martelli e Scotti, mentre l’icona democratica di Oscar Luigi Scalfaro, il santo del Pd, assume le sembianze di un pavido e di un colluso manovratore delle torbide relazioni con la mafia. Mi viene in mente Alberto Sordi: ‘Signor colonnello, accade una cosa incredibile… I tedeschi si sono alleati con gli americani’. Roba da matti. Io nel 1996 ero il capo dell’Antimafia e Martelli era un collega di partito. Mi avesse mai accennato a un sospetto. Neanche una parola. Mai. Gli avrei detto di andare subito dai magistrati, perché la commissione Antimafia qui non c’entra niente. Conosco benissimo Lumia, Granata, Veltroni e Pisanu. Cercano di fare il processo in Parlamento, roba da pelle d’oca. Sono tutti e quattro disperati: Lumia vuole farsi ricandidare per la quinta volta, Granata è in cerca di casa politica, Veltroni è un pensionato con molto tempo libero e Pisanu un emarginato del Pdl che cerca di riconquistare l’interesse di Berlusconi. Ciascuno di loro cerca visibilità, un ruolo, un seggio, o più drammaticamente cerca solo qualcosa da fare”.

    Ma forse dei quattro parlamentari che animano l’attività della commissione antimafia è Giuseppe Lumia quello che merita qualche parola in più, e non solo perché è il meno conosciuto da chi non frequenta i corridoi del Palazzo. Lumia, deputato del Pd alla sua quarta legislatura, oltre ad appartenere a quel genere di antimafia che ha sostenuto in Sicilia il governo  di Raffaele Lombardo, l’ex presidente della regione inquisito per mafia, è anche quel deputato che a maggio di quest’anno, mentre l’inchiesta sulla Trattativa cominciava a scricchiolare, si è incontrato più volte nel carcere speciale di Parma con i mafiosi Bernardo Provenzano, Filippo Graviano e Antonino Cinà. Incontri cui seguivano, a breve, le visite in carcere dei pm palermitani. La cosa è sembrata tanto strana alla polizia penitenziaria, che il gruppo operativo mobile, cioè gli agenti che si occupano dei detenuti sottoposti al carcere duro, il 41 bis, ha avvertito il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nelle persone di Roberto Piscitello e Giovanni Tamburrino che a loro volta, allarmati, hanno informato il ministro della Giustizia Paola Severino. Difatti la legge non permette niente del genere: ai parlamentari è permesso di entrare nelle carceri per verificare le condizioni di detenzione dei carcerati, non per parlare di processi in corso o esercitare pressioni affinché i detenuti collaborino con i magistrati. Ma collaborino per dire cosa? La scelta dei tre mafiosi, Provenzano, Graviano e Cinà non è casuale. Guarda un po’, ma i tre pluriergastolani sono gli unici che possono suffragare il teorema della procura di Palermo, ovvero confermare le dichiarazioni dei non precisamente attendibili Massimo Ciancimino e Giovanni Brusca, il macellaio che sciolse in una vasca di acido nitrico il bambino Giuseppe Di Matteo. E dunque così il sospetto di Del Turco (“Lumia cerca la quinta ricandidatura”) prende una sua forma, perché è terribile solo pensarlo ma l’Antimafia può diventare un mestiere, professionismo, e le carriere professionali hanno bisogno di carburante, necessitano di essere alimentate, di trovare un senso e una loro ragione d’essere: Lumia, come Granata, vive e trova consistenza nella lotta politica che attraversa incidentalmente la lotta alla mafia; Pisanu è in rotta con il Cavaliere e secondo le indiscrezioni pubblicate dal Fatto la sua relazione “inchioda Forza Italia”. Veltroni, infine, è sempre lo stesso Veltroni: poeta delle emozioni senza briglia. L’eterna, drammatica, lotta tra mafia e antimafia di emozioni ne assicura parecchie.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.