Quello che il governo dovrebbe dire al Marchionne di turno

Stefano Cingolani

Quando il gran cattivo della storia, Sergio Marchionne, l’ex “manager socialdemocratico” diventato più vallettiano di Valletta, più romitiano di Romiti (che del resto non smette di bacchettarlo “da sinistra”), chiamerà finalmente Elsa Fornero in trepidante attesa accanto al telefono o parlerà con Corrado Passera, che cosa potranno dirgli i ministri? Possono tirarlo per la giacca, ma sono in grado di fermarlo? Certo, potrebbero mettere sul tavolo la cassa integrazione straordinaria e accompagnare così la ristrutturazione, come propongono dalle colonne dei grandi giornali autorevolissimi commentatori.

    Quando il gran cattivo della storia, Sergio Marchionne, l’ex “manager socialdemocratico” diventato più vallettiano di Valletta, più romitiano di Romiti (che del resto non smette di bacchettarlo “da sinistra”), chiamerà finalmente Elsa Fornero in trepidante attesa accanto al telefono o parlerà con Corrado Passera, che cosa potranno dirgli i ministri? Possono tirarlo per la giacca, ma sono in grado di fermarlo? Certo, potrebbero mettere sul tavolo la cassa integrazione straordinaria e accompagnare così la ristrutturazione, come propongono dalle colonne dei grandi giornali autorevolissimi commentatori. In altri termini, scaricare in buona parte sul bilancio pubblico il licenziamento a termine di migliaia di operai. Ammesso che si trovino le risorse. O, al contrario, possono mollare una volta per tutte la Fiat, l’antica azienda di sistema, “terra, cielo e mare”, pilastro di una Italia che non c’è più. Una via radicale che non sostiene nemmeno Alessandro Penati, il quale su Repubblica ha difeso Marchionne (voce fuori dal coro). Né l’una né l’altra, del resto, sono soluzioni. In ballo non c’è il futuro della Fiat, ma dell’Italia produttiva, dentro una crisi che ha tutte le caratteristiche di una nuova rivoluzione industriale. Altro che declino. Protagonista, ancora una volta, è l’impresa privata, quel capitalismo che non è morto e sepolto magari sotto il neo despotismo orientale. E come tutte le rivoluzioni, anche questa non è un pranzo di gala.

    Se non si parte da qui, non si capisce nemmeno che cosa fare. Non tanto per trattenere Marchionne, ma per portare altri imprenditori siano essi tedeschi (la Volkswagen vuole davvero l’Alfa e a quali condizioni?) o indiani (l’ultimo a farsi avanti sembra sia Anand Mahindra presidente del gruppo omonimo che si frega le mani per il fallito matrimonio tra Fiat e Tata). Peter Marsh, columnist del Financial Times, ha appena pubblicato un libro con la Yale University Press che sta facendo discutere in tutto il mondo. Si intitola, appunto, “La nuova rivoluzione industriale. Consumatori, globalizzazione e la fine della produzione di massa”. E sfata molti luoghi comuni. Per esempio che viviamo in una società terziaria, mentre in realtà ogni anno vengono sfornati dieci miliardi di nuovi prodotti. Naturalmente, è una manifattura ben diversa, integrata con i servizi a lei essenziali (si pensi all’importanza del marketing), con l’informazione (il marchio e l’immagine sono tutt’uno), con la ricerca. Il secondo luogo comune è che la Cina sia destinata a diventare la fabbrica mondiale dove verranno prodotti tutti gli oggetti che servono alla nostra vita. Trent’anni fa lo si diceva del Giappone e non è successo. Ma quel che sta accadendo adesso è ancor più sconvolgente: l’industria diventa un gigantesco ecosistema. Un prodotto può essere disegnato in un paese e assemblato in un altro usando componenti provenienti da tutto il mondo. Ogni lavastoviglie, ogni attrezzo da giardino, ogni automobile oggi è fatta così. Grazie a un mercato mondiale che non è omologato come credono gli adepti del pensiero unico e i loro nemici, ma sempre più diversificato, addirittura personalizzato per i consumatori più ricchi o sofisticati, oggi si produce quel che ogni segmento chiede là dove lo chiede. La nuova onda tecnologica accompagna e accentua questo processo (si pensi alle stampanti a tre dimensioni grazie alle quali si può fare in casa, o quasi, persino il paraurti di un’auto).

    Anche la vicenda Fiat sta proprio qui dentro. Il cambiamento del mercato europeo alla fine è arrivato, ieri lo ha detto anche Moody’s che mette nel mirino Fiat, Psa e Renault. Marchionne avrà anche fatto il “furbetto cosmopolita”, come lo chiama Diego Della Valle, ma ne tira le conseguenze. Ormai la Polonia produce più vetture dell’Italia. Un netto ridimensionamento avverrà anche in Francia (nonostante i sostegni pubblici) e la Spagna segue. Peugeot ha già annunciato che chiuderà un impianto. Renault regge solo grazie a Nissan che vende bene in Asia. In Germania la Opel è ormai schiacciata tra le tre grandi: Volkswagen, che fa profitti soprattutto in Asia, Bmw e Mercedes, che si rivolgono ai ricchi. Certo, là dove la produzione automobilistica non è affidata a un solo gruppo, il processo è meno doloroso. L’Italia ha scelto la monomarca fin dal 1987 quando l’Alfa finì a Torino. Cesare Romiti ora fa un po’ d’autocritica: forse era meglio la Ford, dice, anche se allora fece fuoco e fiamme. Tuttavia, in Europa occidentale l’assemblaggio di vetture di massa non ha futuro. Negli Stati Uniti le tre big si sono ristrutturate e l’amministrazione Obama le difende come può: proprio ieri ha denunciato la Cina al Wto per concorrenza sleale. Ma anche loro non hanno compiuto un vero salto tecnologico.

    C’è chi, come Guido Viale, da tempo sostiene una riconversione ecologica. Meglio i pannelli solari; tutt’al più, qualche vettura elettrica. C’è chi, proprio leggendo il percorso della nuova rivoluzione industriale, vorrebbe che in Italia restasse il cervello, mentre le braccia e le gambe si distendono in ogni continente. Modello Apple. Quel che conta, del resto, è il valore aggiunto. L’Italia ha una eccellente componentistica. E la stessa Fiat conserva ancora una grande capacità progettuale soprattutto nei motori. Basti vedere quante tecnologie vengono assorbite dalla Chrysler, un travaso vivificante se non si trasforma in uno scambio ineguale. Oggi il paradosso è che la Fiat ha il controllo finanziario della Chrysler la quale si sta mangiando la Fiat industriale.

    Ciò non risolve il problema degli impianti in eccesso. Il governo, allora, dovrebbe compiere gesti coraggiosi, attirando altri produttori per fare le vetture che la Fiat non vuole, non può e soprattutto non sa fare né vendere. A quali condizioni? Questa è la domanda che pone chiunque voglia venire in Italia dove l’elettricità costa almeno il 30 per cento in più e la produttività nell’insieme, comunque la si voglia misurare, resta bassa. E allora, occorre guardare al modello inglese e quello scandinavo. Proprio Peter Marsh ricorda che “il revival della produzione è uno degli obiettivi chiave del governo conservatore”. Ma anche le Trade Union, culla del Labour Party, stanno al gioco. Del resto, mentre si scrivevano tante pagine epiche sulla “deindustrializzazione britannica”, l’Inghilterra diventava la mecca della farmaceutica e delle biotecnologie. E tutte le calde lacrime versate sulla chiusura della British Leyland, sulla vendita della Morris alla Bmw e della Land Rover a Tata, hanno coperto il fatto che ancor oggi si producono oltre Manica un milione e mezzo di auto (contro le 800 mila in Italia). Non solo giapponesi, ma americane, come la Ford. Quanto alla mitica Volvo, è andata ai cinesi, eppure gli impianti di Göteborg stanno vivendo una nuova vita, i salari aumentano, i posti di lavoro sono salvi, i sindacati brindano. In Svezia hanno cambiato paradigma. In Italia discutono ancora sul declino.