Sono talebani dentro

Daniele Raineri

Venerdì alle dieci di sera quindici talebani sono riusciti a entrare all’interno di Camp Bastion, una base militare nel sud dell’Afghanistan, mentre il resto del mondo guardava le proteste di una minoranza islamista fiammeggiare davanti alle ambasciate degli Stati Uniti. I talebani avevano fucili d’assalto, lanciarazzi a spalla Rpg, corpetti esplosivi e indossavano divise mimetiche americane che li rendevano difficilmente distinguibili dai soldati veri.

    Venerdì alle dieci di sera quindici talebani sono riusciti a entrare all’interno di Camp Bastion, una base militare nel sud dell’Afghanistan, mentre il resto del mondo guardava le proteste di una minoranza islamista fiammeggiare davanti alle ambasciate degli Stati Uniti. I talebani avevano fucili d’assalto, lanciarazzi a spalla Rpg, corpetti esplosivi e indossavano divise mimetiche americane che li rendevano difficilmente distinguibili dai soldati veri.

    I talebani hanno detto di avere agito anche loro sotto l’impulso dell’offesa a Maometto, ma in realtà l’operazione era stata pianificata da tempo e con cura. Venerdì era la notte del mese più adatta perché completamente priva di luce lunare: quindi buia come sotto una coperta nel sud dell’Afghanistan, fatta eccezione per le luminarie isolate della base. Camp Bastion è enorme, ci abitano circa 28 mila uomini, ha misure di sicurezza minacciose e un traffico aereo da 600 voli al giorno (perlopiù missioni di guerra) controllato dagli inglesi: se fosse un aeroporto, sarebbe il quinto della Gran Bretagna. E’ illuminata come una piccola Las Vegas e brilla in mezzo al deserto di Helmand – tutto piatto, niente montagne in mezzo a cui nascondersi, il sito è stato scelto per ridurre il rischio per chi atterra e decolla. Da qualche parte lì dentro c’è in espiazione pure Harry, principe di Wales, e il ministero della Difesa inglese ha fatto sapere che non è mai stato in pericolo perché era a un chilometro di distanza e quando l’assalto è cominciato lo hanno fatto rintanare in un rifugio segreto e questo ha scatenato commenti piccati degli inglesi: come sarebbe a dire che si è rintanato? Il tour di quattro mesi come pilota di elicotteri Apache in Afghanistan potrebbe non essere sufficiente a fare dimenticare in patria le notti nude in Nevada. Per i soldati Harry è “il capitano Wales” e i talebani lo hanno chiamato con un bellissimo refuso Prince of Whales, principe delle balene, nel loro comunicato di rivendicazione dell’attacco.

    Gli intrusi afghani si sono divisi in tre squadre da cinque uomini, si sono diretti verso le piste, hanno distrutto sei Av-8 Harrier, i jet a decollo verticale, e ne hanno danneggiato seriamente altri due (forse senza possibilità di riparazione). Lo squadrone aereo d’attacco “Avengers”, i Vendicatori, disponeva di dieci Harrier: il comando dei marine ha deciso che adesso la sua presenza in Afghanistan è diventata inutile, con otto su dieci messi fuori combattimento, e i due jet superstiti sono stati rispediti negli Stati Uniti. Anche il comandante dello squadrone, il colonnello Chris “Otis” Raible, è stato ucciso, assieme a un altro marine.

    I soldati sono rimasti senza supporto aereo ravvicinato in quella parte del paese e ora proveranno a farsi coprire dagli elicotteri Apache e dai Tornado che arriveranno dall’aeroporto di Kandahar. Però gli Harrier sono aerei da guerra che nessuno produce più e a Camp Bastion l’America ha perso in una sera l’otto per cento del suo parco. Il danno è di circa trecentosessanta milioni di dollari, incluse due stazioni di rifornimento per il carburante e alcuni hangar leggeri. Non succedeva dal febbraio 1965 che gli Stati Uniti perdessero sei velivoli militari tutti assieme. Quarantasette anni fa furono trecento vietcong, che assaltarono per una notte Camp Holloway a Pleiku, in Vietnam, e distrussero 10 elicotteri parcheggiati sulla pista. Nell’attacco di venerdì sono morti quattordici talebani e un quindicesimo, ferito, è stato catturato.

    Quest’uso delle uniformi per confondere il nemico sta diventando una costante dei raid più audaci dei guerriglieri. A Bastion, in mezzo al caos notturno dell’attacco, tra aerei distrutti e carburante che bruciava, i quindici sono diventati un bersaglio elusivo e difficile da identificare e da inquadrare. A giugno un altro gruppo di incursori suicidi con divise americane è riuscito a entrare a Fob Salerno, una seconda grande base nel sud dell’Afghanistan, e a ingaggiare battaglia da dentro, dall’interno, violando quella bolla di sicurezza in cui credono di vivere i soldati.

    Non è difficile procurarsi le mimetiche. Dopo dieci anni di guerra, si trovano di seconda mano sulle bancarelle del mercato di Khost, o si possono ordinare su eBay. E’ una cosa che fa persino folclore afghano, cartoline dalla terra delle mille guerre, come le carcasse rugginose dei tank sovietici onnipresenti, fino a quando non cadono nelle mani dei talebani. La differenza tra l’assalto a Salerno e quello a Bastion è che nel primo caso gli aggressori sono stati preceduti da un camion carico d’esplosivo che ha aperto una breccia nel muro di difesa attorno alla base. Nel caso di Bastion non c’è notizia di un camion esplosivo: i servizi segreti afghani dicono che i talebani sono riusciti a infiltrarsi senza violenza iniziale e sarebbe più grave ancora.

    Ecco. Talebani vestiti da soldati americani. Soldati afghani che stanno con i talebani e nessuno lo sa prima dell’attimo fatale in cui puntano le armi nella direzione sbagliata e sparano a freddo contro i soldati Isaf che stanno con loro nelle basi. Uniformi che non corrispondono alle teste di chi le indossa, uniformi che non hanno più significato e che anzi complicano la sopravvivenza. Tra sabato sera e domenica mattina sei soldati sono morti uccisi da poliziotti o militari afghani che sono passati all’improvviso con il nemico e i cosiddetti attacchi “green on blue” quest’anno sono già stati 32. Il finale di partita in questa guerra che ha già la data di scadenza fissata nel 2014 è tutta una questione di uniformi.

    Due giorni fa è arrivato l’ordine di sospendere le attività congiunte tra americani e afghani, a livello delle piccole unità. Niente più pattuglie assieme, niente più operazioni sul campo. Ogni missione che prevede l’impegno di una forza mista dev’essere autorizzata preventivamente almeno da un generale a tre stelle. Continua la collaborazione ad alto livello, tra i gradi superiori, nei palazzi di Kabul, ma a che serve? La guerra si combatte lontano dalle città, nelle basi remote, nelle valli dove gli afghani stanno progressivamente tentando di caricarsi la responsabilità sulle spalle. Due settimane fa il programma d’addestramento delle forze speciali americane con le reclute afghane è stato interrotto in attesa che il ministero prenda daccapo i file personali di tutti i militari e li rivanghi per scoprire se ci sono affiliazioni con i talebani, un vetting di massa che potrebbe non setacciare gli elementi pericolosi in un paese in cui molti hanno un solo nome: servirà ricontrollare tutti, da Amatiullah a Zahir?
    La sospensione mette in crisi tutta la strategia di passaggio della guerra agli afghani. Ma viene da mettersi nei panni dei soldati americani, che si trovano il nemico in casa. Forse. Forse no. Come una roulette russa di massa. Due ufficiali sono stati uccisi sul posto persino dentro il ministero della Difesa afghano, in teoria uno dei luoghi più sicuri della capitale. Ora le regole impongono ai militari Isaf di fare la doccia in luogo riparato e isolato, perché hanno scoperto che quello è uno dei momenti più vulnerabili, nudi e insaponati davanti a un soldato afghano che tutto d’un tratto si rivela nemico. Di mettere la scrivania in modo da essere sempre di faccia a chi entra. Di girare armato di pistola in ufficio e di fucile d’assalto nelle basi miste, che ora non sono più miste, ma ben separate.

    Almeno la rivolta dei cipays a metà Ottocento, quell’ammutinamento di massa delle truppe indigene che causò massacri in India ed è citato adesso come precedente dagli editorialisti sui giornali, era un tumulto collettivo. Questo è uno stillicidio di casi che farebbe saltare i nervi a chiunque, in un paese dove persino il plotone cerimonaile con scarpe lucide e alamari che riceve i dignitari stranieri assieme al presidente Karzai fa il presentat arm con fucili scarichi, perché nessuno si fida a dare loro armi con vere munizioni.

    Il risultato negli ultimi due giorni è stato – come raccontano i corrispondenti embedded – che gli afghani increduli combattono fuori dagli avamposti e i soldati americani li osservano da dentro. “Perché non venite più con noi, è pericoloso, voi avete i metal detector per scoprire le bombe nascoste sottoterra”. Gli altri non rispondono, ma la replica suonerebbe più o meno così: “Perché abbiamo paura che uno dei vostri si metta a spararci addosso. E come se non bastasse di notte potrebbero arrivare gli altri. Con le nostre divise addosso”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)