Chi è il Marchionne americano che ora intimorisce Obama
Per la prima volta da anni, in questa campagna elettorale 2012, né il candidato democratico né quello repubblicano alla Casa Bianca si recheranno in visita agli stabilimenti della General Motors negli Stati Uniti. Né Barack Obama né Mitt Romney sono infatti ben accetti al quartier generale di Detroit; e ciò apparentemente è ben strano, perché il governo federale, dunque il presidente (quello in carica e/o quello che verrà) è di fatto il principale azionista della prima casa automobilistica americana. Washington ha infatti praticato il salvataggio del gruppo nel 2009 con un piano da 49,5 miliardi di dollari, ed è attualmente azionista di Gm con il 26,5 per cento.
Roma. Per la prima volta da anni, in questa campagna elettorale 2012, né il candidato democratico né quello repubblicano alla Casa Bianca si recheranno in visita agli stabilimenti della General Motors negli Stati Uniti. Né Barack Obama né Mitt Romney sono infatti ben accetti al quartier generale di Detroit; e ciò apparentemente è ben strano, perché il governo federale, dunque il presidente (quello in carica e/o quello che verrà) è di fatto il principale azionista della prima casa automobilistica americana. Washington ha infatti praticato il salvataggio del gruppo nel 2009 con un piano da 49,5 miliardi di dollari, ed è attualmente azionista di Gm con il 26,5 per cento. Ufficialmente i cancelli di Detroit sono chiusi ai due candidati perché, come ha detto Bob Ferguson, responsabile rapporti con le istituzioni di Gm, il gruppo vuole concentrarsi sul suo core business e non farsi coinvolgere nella tenzone politica, e sarebbe un motivo comprensibile. Obama d’altronde ha posto il successo del bailout dell’auto al centro del suo tour elettorale; recentemente il suo vice Joe Biden ha proclamato che “Osama bin Laden è morto, e Gm è viva”; ma i critici dell’intervento pubblico sull’auto sono molti, tanto che da tempo i critici hanno iniziato a fare riferimento a Gm come a “Government Motors”. Lo sfidante repubblicano Romney invece ha sempre considerato l’operazione come un pessimo esempio di interventismo, negativo sia per i contribuenti che per gli azionisti del gruppo. Insomma, l’azienda vuole stare fuori dalle polemiche; anche perché non se la passa molto bene: la sua quota di mercato in agosto è scesa dal 20 al 18,1 per cento (con un calo del 9,5 per cento); i nuovi modelli come la ibrida Volt, su cui Obama ha puntato molto come capostipite di una nuova generazione di auto pulite, sono un totale fallimento (secondo gli analisti di Reuters, ogni vettura comporterebbe una perdita secca per 49 mila dollari per l’azienda) e addirittura c’è chi, come Forbes, sostiene che il gruppo andrà incontro a un nuovo fallimento nel giro di quattro anni.
In questa situazione, c’è chi considera che il “governo imprenditore” di Obama sia in parte responsabile di questa débâcle: è il capo azienda di Gm, l’amministratore delegato Dan Akerson, che pure è stato installato nel ruolo proprio da Obama. Sessantatré anni, californiano, una laurea in Ingegneria ottenuta all’Accademia militare, un master in Economia alla London School of Economics, Akerson è soprattutto un militare: ha servito in marina, da ufficiale, alla guida di un reparto cacciatorpediniere tra il 1970 e il 1975. Repubblicano convinto, Akerson è anche deciso teorico dello stato fuori dall’azienda. E’ da imputare a lui il cancello chiuso ai politici di qualunque schieramento in questa campagna elettorale. Akerson per esempio vorrebbe fortemente che Obama vendesse la sua quota in Gm, ma per ora è improbabile: il titolo vale in Borsa meno di venticinque dollari, mentre per recuperare quanto speso, il governo dovrebbe aspettare che salga almeno fino a 53 dollari. Un’infinità. Negli ultimi mesi Akerson ha protestato in particolare con le norme obamiane che pongono limiti agli stipendi dei manager. “Non possiamo attirare i migliori talenti” ha detto il ceo; la tutela governativa sull’azienda infatti limita fortemente anche l’utilizzo dei jet aziendali e di altri benefit. Ma il punto non è questo: Akerson – paradossalmente, visto che è stato imposto proprio dalla presidenza democratica – è convinto che lo stato debba fare un passo indietro; il rapporto incestuoso con Washington sta rovinando la reputazione del gruppo, ha detto; e intanto il salvataggio stesso di Gm comincia a mostrare le sue crepe: attualmente il governo registra una perdita di 25 miliardi di dollari nell’operazione; cifra alla quale sarebbero da aggiungere, secondo uno studio recente della Heritage Foundation, anche gli extra costi del salvataggio della controllata finanziaria Gmac (altri 14,5 miliardi) e le concessioni ai sindacati della United auto workers (altri 23 miliardi di dollari).
La differenza con il bailout di Chrysler
“La cosa buona del salvataggio è che è durato solo 39 giorni; la cosa negativa è che è durato solo 39 giorni”, ha detto qualche tempo fa Akerson, lasciando intendere come alcune soluzioni imposte dall’alto siano state condotte forse in maniera troppo semplicistica (come la chiusura di molti concessionari per tagliare le spese, o la semplice cancellazione dell’enorme indebitamento del gruppo, invece che incidere sui costi operativi) o ideologiche, come le forti concessioni sindacali ottenute a spese degli azionisti e degli obbligazionisti della società. Gli analisti sottolineano oggi come nel caso Gm, a differenza di quello Chrysler, il bailout sia stato pilotato dall’alto, con diversi paletti: attenzione alle sensibilità sindacali, decisioni sul prodotto (la ibrida Volt), e nomina politica di diversi membri del consiglio di amministrazione. Akerson, fama da duro, ha proceduto con una politica aggressiva: soprattutto col rimpiazzo di parecchi manager nei posti-chiave, tra cui Karl-Friedrich Stracke, capo della controllata Opel, avvenuto durante una visita allo stabilimento di Rüsselsheim in Germania, quando il manager gli confessò che i target di risparmi previsti non sarebbero stati rispettati, seppur di poco. Manager non abbastanza aggressivo, secondo Akerson, il quale adesso comincia a essere accusato di non essere all’altezza del compito assegnatogli, soprattutto di non essere un esperto del settore (le sue precedenti esperienze manageriali lo avevano portato in colossi delle tlc come Nextel e nel private equity a Carlyle Group). Di sicuro lui ritiene di aver fatto il suo lavoro, e che potrebbe farlo meglio se lo stato uscisse dalla fabbrica.
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