Il “laissez faire” di Monti messo alla prova da Marchionne
A Palazzo Chigi si preparano in queste ore le strategie in vista dell’incontro con l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne. Le direttrici che prenderà l’agenda di sabato pomeriggio sono almeno quattro, secondo quanto apprende il Foglio sulla base delle discussioni avvenute in questi giorni in ambienti parlamentari e governativi. Sul tavolo del presidente del Consiglio, Mario Monti, i punti salienti dell’incontro saranno sia di carattere urgente, sia di taglio prospettico.
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A Palazzo Chigi si preparano le strategie in vista dell’incontro con l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne. Le direttrici che prenderà l’agenda di sabato pomeriggio sono almeno quattro, secondo quanto apprende il Foglio sulla base delle discussioni avvenute in questi giorni in ambienti parlamentari e governativi. Sul tavolo del presidente del Consiglio, Mario Monti, che segue da vicino la trattativa (è da lui che è partita la convocazione del manager italo-canadese), i punti salienti dell’incontro saranno sia di carattere urgente, come la situazione occupazionale di Fiat, sia di taglio prospettico, come la questione posta da Marchionne della credibilità internazionale del paese, i rapporti con i sindacati, e la possibilità di rendere efficienti gli impianti italiani.
A detta del ministro del Lavoro, Elsa Fornero, sarà un “dialogo” e non un “monologo”, che potrà però assumere diverse sfumature che di fatto ne decreteranno il risultato. Secondo una fonte che sta seguendo il caso da vicino, sarà un incontro “molto secco” che avrà appunto in cima all’agenda la “pesante” situazione occupazionale del Lingotto che investe tutto il Gruppo e coinvolge anche i colletti bianchi: sono in vista tagli del 20 per cento dei manager europei, ha rivelato ieri Bloomberg. In Italia la preoccupazione deriva dal fatto che dall’anno prossimo tra i 10 e i 15 mila dipendenti saranno senza una copertura e rischiano perciò di trovarsi senza lavoro. L’ipotesi di un allungamento della cassa integrazione, circolata nei giorni scorsi, è “possibile” ma ovviamente deve avere carattere nazionale e graverebbe sulle già provate finanze di stato. Segue il rapporto conflittuale di Fiat con le sigle sindacali, dal momento che la riforma dell’articolo 18 non ha tuttora un carattere definito perché lascia ampia discrezionalità ai giudici in merito alla valutazione delle cause per licenziamento.
“Anche se su queste condizioni di carattere sociale si dovesse trovare un compromesso rimane sul tavolo il nodo dell’assetto produttivo”, aggiunge la stessa fonte. E’ infatti qui che si capirà se Monti ha davvero intenzione di “sfidare” Marchionne sul campo della politica industriale. Il numero uno di Fiat chiede un assetto che permetta all’azienda di essere competitiva anche in Europa dal punto di vista dei volumi prodotti: punto fondamentale per decidere di non abbandonare progressivamente l’Italia. Dei quattro stabilimenti italiani solo quello di Melfi riesce a raggiungere la capacità di 350 mila vetture (contro le oltre 600 mila dell’impianto polacco di Tychy). Monti, ma qui si va nel campo delle ipotesi, potrebbe cercare il compromesso promettendo di fare ciò che è necessario per aumentare la competitività nazionale anche a costo di una riduzione degli impianti, da parte dell’azienda, per aumentarne l’efficienza.
Sembrano marginali, riferibili piuttosto alle intenzioni di Marchionne, le possibili pressioni che Monti potrebbe esercitare in ambito europeo per contenere il problema della sovraccapacità produttiva. Sarebbe marginale anche la possibilità di incentivi che potrebbero al massimo indirizzarsi verso il sostegno di progetti “verdi”. In ambienti governativi c’è la sostanziale convinzione che dall’incontro non usciranno grandi novità. Per il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, il governo terrà “il fiato sul collo” a Marchionne. Ma l’impostazione di Monti è stata finora quella del non interventismo nelle strategie dei privati. Un “laissez-faire” all’italiana che ha a che fare anche con l’impostazione culturale del premier, refrattario per retaggio accademico e professionale all’intervento dello stato in economia. Solo la criticità del momento potrebbe spingere l’esecutivo a rompere con questa tradizione.
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