La crisi del partito dei giudici
Marco Travaglio non ha torto quando rileva che la delegittimazione brutale di Antonio Ingroia e associati palermitani da parte del sindacato dei magistrati e dell’associazione sindacale progressista, Magistratura democratica, sa di zolfo. Bastonano i pm antimafia solo adesso che entrano in conflitto con il loro blocco di riferimento, istituzionale e politico, cioè con il Quirinale di Giorgio Napolitano, l’alto clero togato costituzionalista, e le stelle dell’empireo politico-giudiziario come Luciano Violante.
Marco Travaglio non ha torto quando rileva che la delegittimazione brutale di Antonio Ingroia e associati palermitani da parte del sindacato dei magistrati e dell’associazione sindacale progressista, Magistratura democratica, sa di zolfo. Bastonano i pm antimafia solo adesso che entrano in conflitto con il loro blocco di riferimento, istituzionale e politico, cioè con il Quirinale di Giorgio Napolitano, l’alto clero togato costituzionalista, e le stelle dell’empireo politico-giudiziario come Luciano Violante. Per il focoso forcaiolo che dirige il quotidiano il Fatto, in condizioni di contiguità notoria con gli estremisti di procura specie se palermitani, questo improvviso rovesciamento di fronte delle “toghe rosse” segnala che la preoccupazione del partito dei giudici o magistratura militante non è stata storicamente l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge bensì l’uso politico della giustizia. Ecco: è raro che un avversario arcigno e malmostoso dica in breve che avevi ragione tu con parole tanto incontrovertibili; ed è quanto succede ora che il partito dei giudici va a rotoli per ragioni che adesso spiegheremo. Quello dei pm, Anm e Magistratura democratica in testa, era dunque un partito, faceva politica, lo stato di diritto non c’entrava alcunché: firmato Marco Travaglio, cioè il pubblicista che dell’esatto opposto di quanto ora riconosce ha fatto una ragione di vita e di brillante carriera. Complimenti e grazie.
Archiviato il clamoroso autogol, passiamo all’analisi. Come è stato possibile? Perché il partito giustizialista si è spaccato in modo tanto clamoroso e autolesionista? Intanto va detto che non tutti i gatti sono grigi, e nel partito forcaiolo c’era questo e c’era quello. Di Pietro era un affamato di politica e potere, e Francesco Saverio Borrelli, un borghese con una sua compostezza, un codino ma non un famelico arruffapopolo, testimoniò la cosa ricordando a bruciapelo che il poliziotto fattosi pm gli aveva detto di Berlusconi: “Io a quello lo sfascio” (vaste programme). Ma i Davigo, Colombo e Greco e altri restarono più o meno ai canoni della professione, o rientrarono nei ranghi in funzioni di pedagogia civile. Altri fecero politica, di nuovo, professionalmente e compostamente, come un D’Ambrosio sulla scia luminosa di Violante. La novità è che al posto di un Caselli, che se ne sta a metà tra l’irrilevanza processuale del secolo e la pubblicistica piagnucolosa, sono arrivati, sulla scia dei De Magistris e di altri cacciatori di notorietà politica, pm che fanno comizi con le mani in tasca, sbagliano tutto nello stile, si rivelano improponibili, insortables, anche per ragioni di sostanza: le loro inchieste sono risibili mitologie, veicoli del nulla a mezzo del nulla shakerato e chiacchierato. Il partito dei giudici troverà forse il modo di riordinarsi intorno a nuove priorità, ma ora a una Boccassini fa orrore l’antimafia dell’agenda rossa e del pentito Scarantino, al sindacato repelle la ricerca sguaiata del consenso imputata a un Ingroia, per Magistratura democratica è causa di imbarazzo la gestione sgangherata del rapporto tra inchiesta giudiziaria e offensiva politica e istituzionale. Per smantellare un sistema ci vogliono inchieste rigorosamente orientate a uno scopo politico, ma attendibili giudiziariamente. Palermo oggi offre solo una indecente caciara nel colmo dell’inattendibilità pataccara. E il partito forcaiolo si divide e va in crisi.
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