Ingroia nei ceppi del Termidoro

Salvatore Merlo

“Va ricordato che il Termidoro seppellì il giacobinismo ma evitò anche la controrivoluzione”, dice Alfredo Mantovano. E l’ex magistrato, oggi deputato del Pdl, vuole dire che nella magistratura di sinistra è iniziata un’inedita guerra civile, anche culturale e politica, tra i giacobini di Palermo e i termidoriani di Roma. Da una parte Antonio Ingroia, e la procura siciliana sul cui cielo brillano come stelle fisse la Giustizia, la Ragione e la Verità; dall’altra parte i termidoriani che a Roma siedono invece nel Csm e che guidano Magistratura democratica, la grande corrente della sinistra togata.

    Roma. “Va ricordato che il Termidoro seppellì il giacobinismo ma evitò anche la controrivoluzione”, dice Alfredo Mantovano. E l’ex magistrato, oggi deputato del Pdl, vuole dire che nella magistratura di sinistra è iniziata un’inedita guerra civile, anche culturale e politica, tra i giacobini di Palermo e i termidoriani di Roma. Da una parte Antonio Ingroia, e la procura siciliana sul cui cielo brillano come stelle fisse la Giustizia, la Ragione e la Verità; dall’altra parte i termidoriani che a Roma siedono invece nel Csm e che guidano Magistratura democratica, la grande corrente della sinistra togata. Chi vincerà? “I termidoriani fanno sempre piazza pulita dei giacobini, così la rivoluzione continua. I magistrati di sinistra che stanno isolando Ingroia inviano un messaggio alla sinistra politica, quella che siede in Parlamento e che forse governerà. Le stanno dicendo un cosa chiarissima: ce ne occupiamo noi, non c’è bisogno di nessun intervento legislativo. Nessuna riforma. E’ tutto sotto controllo”, dice Mantovano pensando anche alla sua parte politica. Ma la guerra civile nella magistratura è appena cominciata.

    “Md ha perso anche troppo tempo a intervenire. La mia Md, quella di una volta, forse sarebbe stata più tempestiva e avrebbe avuto più coraggio”, dice Giuseppe Di Lello, uomo schiettamente di sinistra, il magistrato che con Giovanni Falcone fece parte del pool antimafia. La guerra civile è cominciata, ed è un conflitto di stile e cultura giuridica che coinvolge il ruolo, la professione e la figura stessa del magistrato in Italia: tra chi lancia grandi appelli manichei in cui si contrappongono drasticamente le forze della luce e quelle dell’oscurantismo, e chi invece oggi richiama i colleghi al rispetto dei confini tra politica e giustizia, chi oggi chiede sobrietà. “Il modello di magistrato migliore è quello che lavora nel riserbo, in silenzio e operosamente”, ripete da tempo Paola Severino, il ministro della Giustizia che osserva, anche lei, con particolare attenzione, e preoccupazione, il cielo rosso di Palermo. Perché da questo scontro, che non è solo guerra tra toghe, dipende un po’ il futuro dell’Italia. Forse anche il ministro infatti ricorda che con il Termidoro, che seppellì il giacobinismo, “Parigi – scrive François Furet – fu colta dalla frenesia della danza e dei salotti, la mania del ballo scoppiò improvvisa e impetuosa quando i patiboli erano stati appena abbattuti e il suolo intorno era ancora inzuppato del sangue umano”. Non è più questione di toghe rosse o non rosse, tutti gli attori sulla scena appartengono alla sinistra eppure coltivano una morale contro l’altra, giacobini contro termidoriani, Palermo contro Roma.

    Ai colleghi che lo criticano, ieri Ingroia ha risposto così, dal palco della festa di Rifondazione comunista a Palermo (ed è la seconda volta che il pm si misura tra la falce e il martello): “Non riconosco più il gruppo di Md al quale appartengo. Siamo nel pieno di un processo di arretramento politico e culturale. E’ il berlusconismo che ha contagiato ampi settori della vita sociale”. Alcuni giorni prima, per molto meno, ospite del Fatto, assieme al collega Nino Di Matteo aveva invitato il popolo “a cambiare la classe dirigente e il ceto politico”. Che cos’è successo a Palermo? Perché qui trionfa l’intransigenza e a Roma il compromesso? Perché a Palermo non è ancora finito il tempo della rigida morale rivoluzionaria, mentre a Roma, Rodolfo Sabelli, capo dell’Anm, dice che “i magistrati dovrebbero evitare quei comportamenti di natura politica” che ieri invece anche Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo (ancora Palermo, sarà un caso?), ha rivendicato come legittimi sul Corriere della Sera? “Md sbaglia su Ingroia”, ha detto Caselli. “C’è una sgradevole voglia di normalizzazione, mentre fu proprio Md a rivendicare quel diritto di partecipare al dibattito politico che oggi si vuole impedire a Ingroia”. E forse qualcosa di verò c’è, forse più di qualcosa, ed è quel filo sottile che tiene insieme, come gemelli, i giacobini e i termidoriani: la rivoluzione. “Per salvarla è necessario persino normalizzare”, dice Mantovano, che parla di rivoluzione per intendere il collateralismo tra toghe e politica, e che ricorda la famosa frase di Antoine Fouquier de Tinville, l’accusatore pubblico che negli anni del Terrore fermò i sanculotti assetati di sangue: “Fermi. Perché quello che volete fare voi con le picche, noi lo facciamo con le toghe”. Ecco dunque, conclude Mantovano, “Ingroia questo non lo ha capito. Berlusconi è già stato abbattuto, colpire Mancino e Scalfaro è un’azione fuori misura. Ora gli tocca il Termidoro, e la confusione è tanta. Alla destra vorre dire di stare attenta, il generale Bonaparte non va confuso con il controrivoluzionario De Maistre”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.