Per Diana Vreeland

La signora che mise le ciglia finte all'America e alla vita

Annalena Benini

Diana Vreeland aveva l’energia dell’immaginazione, un’idea magnifica di rosso, il senso della disciplina e del piacere e l’infinito talento delle bugie. Scrisse nell’autobiografia che, mentre stava seduta sul prato a New York con uno dei figli e chiacchierava con il contrabbandiere di alcolici del marito, persona elegantissima, sentì un lieve ronzio, vide Charles Lindbergh sopra la sua testa che volava verso Parigi, e lo prese come un buon segno.

    Diana Vreeland aveva l’energia dell’immaginazione, un’idea magnifica di rosso, il senso della disciplina e del piacere e l’infinito talento delle bugie. Scrisse nell’autobiografia che, mentre stava seduta sul prato a New York con uno dei figli e chiacchierava con il contrabbandiere di alcolici del marito, persona elegantissima, sentì un lieve ronzio, vide Charles Lindbergh sopra la sua testa che volava verso Parigi, e lo prese come un buon segno. Si inventò una Russia mai visitata, raccontò che da bambina, fuggita con la bambinaia all’ovest per un’epidemia di poliomielite, incontrò Buffalo Bill, carico di gloria, frange, guanti lunghi e sombreri, che regalò a lei e alla sorella due pony indiani per giocare. Ha abbellito la realtà, ha messo il fard e le ciglia finte al racconto della sua vita e ha vestito di abiti meravigliosi, ogni giorno, le storie più banali. E quando, poco dopo il suo debutto in società, nel 1924 conobbe a una festa Reed Vreeland, “l’uomo più bello che abbia mai visto”, lui le chiese di giocare a golf e lei rispose che era la sua passione. A malapena sapeva cosa fosse il golf, così si presentò al tee di partenza con il braccio fasciato, dicendo a Vreeland che purtroppo avrebbe soltanto potuto accompagnarlo lungo il campo. Si sposarono subito, andarono alle feste fumando lunghe sigarette con il bocchino, girarono il mondo su una Bugatti con il baule foderato di ermellino e lei lo amò per sempre: ripeteva all’infinito che la loro vita insieme era meravigliosa, anche quando lui la lasciò sola per otto anni e visse a Montréal con un’altra donna. Diana Vreeland continuò a vestirsi come una regina, a fare l’alba ballando il tango con gigolò argentini e a dipingere le unghie di rosso scurissimo, non si lamentò, non si guardò indietro, scrisse soltanto che quello fu un periodo piuttosto intenso, ma si racconta che andò in Canada, sola, e fece sedere la fidanzata del marito davanti a uno specchio, accanto a sé. “Guardati, sei giovane e bella, hai tutto davanti a te. Io sto diventando vecchia e ho solo il mio meraviglioso marito”. Reed Vreeland tornò a New York da lei, e ogni volta che lo sentiva entrare in casa Diana andava svelta ad aggiungere un po’ di fard alle sue guance (a Vogue per prima cosa schiaffeggiava le modelle, per liberarle dal pallore), come la più trepidante delle mogli.

    Diana Vreeland, ad Harper’s Bazaar per ventisei anni e a Vogue per nove soltanto (la licenziarono bruscamente, lei si aggiustò il trucco e uscì a testa alta), è stata audace e travolgente, leggendaria e caricaturale, ha creato un termine di paragone: ogni perfida direttrice di Vogue, ogni bizzarra signora della moda e della bella vita, ogni donna importante con aspirazioni di originalità deve fare i conti con la sua leggenda. Il diavolo che veste Prada (ma lei vestiva Chanel e Balenciaga) è soprattutto lei, con un tocco di rosso orientale e lo sguardo in cerca di esagerazione. “In America noi abbiamo davvero poche grandi donne originali – ha detto Truman Capote – Emily Dickinson era una di queste. Ma la signora Vreeland, o madame Vreeland, è una donna straordinariamente originale: è lei una delle grandi americane. Ha contribuito più di ogni altro al gusto delle donne americane nel senso di come si muovono, cosa indossano e come pensano. Lei è un genio, ma è quel tipo di genio che solo poche persone possono riconoscere. Devi essere un genio tu stesso per riconoscerlo. Altrimenti penserai che è una donna piuttosto sciocca”. Diana Vreeland pubblicò su Vogue, nel 1966, alcune pagine di “A sangue freddo” di Truman Capote, e le foto degli assassini della famiglia Clutter, scattate dallo stesso Capote. Era un giornale di moda, Vogue, di quelli in cui signore della buona società insegnano ad altre signore della buona società quale cappellino scegliere, quanti giri di perle avvolgere intorno al collo, ma Diana Vreeland non voleva accontentare i borghesi del North Dakota, voleva essere sensazionale.

    Come alle feste, in cui si spalmava il cerone bianco da teatro sul viso, sulle braccia, sulla scollatura (così diventavano bianchi anche gli smoking dei suoi accompagnatori). Come con le persone, da cui voleva sentire raccontare sempre storie emozionanti, straordinarie, anche se totalmente inventate. Veruschka, la meravigliosa modella di “Blow-Up”, le raccontò la storia di suo padre, conte Von Lehndorff, giustiziato dai tedeschi per avere partecipato all’operazione Valchiria per uccidere Hitler, ed ebbe l’attenzione di Diana Vreeland. Ma nessuna, nemmeno l’amica più cara, poteva dire a Diana: “Oggi non mi sento molto bene”. Veruschka racconta nella sua autobiografia (appena uscita per Barbès, piena di fotografie mozzafiato) che Diana le rispondeva con quella voce roca, le vocali esageratamente allungate, l’accento continentale: “Santo cielooo Veruschka, che significaaa? Fai meglio a goderti la tua vita! Devi vivere qui e ora e realizzare i tuoi sogni!”. C’era posto solo per i fiori gialli, il rouge sul viso, i cavalli arabi, gli indigeni africani, la bella gente, le cascate di diamanti, un fiore azzurro disegnato attorno all’occhio blu di Twiggy, e altri fiori sulla sua pelliccia, le geishe giapponesi vestite a festa. Posto solo per il racconto della vita che scintilla, e l’ultima cosa che importa è che abbia a che fare con la verità. La moda è questo, del resto, i quadri di Pollock anche: un sogno che faccia uscire dalla realtà, dai vestiti noiosi, dalle persone noiose, da questo “boooooring grey”, diceva Diana.

    Oggi esce al cinema a New York il documentario su Diana Vreeland, “The eye has to travel”, curato da Lisa Immordino Vreeland, la moglie di un nipote, che non l’ha mai conosciuta (Diana è morta per un male ai polmoni, ormai cieca, lei che aveva il dono eccezionale di saper vedere i colori, nel 1989), ma l’ha respirata attraverso il suo mondo: i vestiti, gli oggetti, le copertine di Vogue che irradiano la magnificenza del superfluo, le celebrità completamente soggiogate dal suo fascino, i grandi fotografi che l’hanno immortalata con quello sguardo che saetta, i filmati in cui si può ascoltare la voce costruita dalle sigarette e ammirare la camminata da ballerina consumata, con il bacino in avanti – Vreeland teorizzò l’importanza di camminare, e licenziò una bravissima collaboratrice di Vogue perché sbatteva rabbiosamente i tacchi. “Non sopporto la grossolanità di una donna che fa rumore mentre cammina”. Quindi bisogna tirare su il collo del piede, tendere la gamba, forse indossare un tacco un po’ più basso, se non si è capaci di camminare leggere come farfalle e fiere come regine. Fare più attenzione. E se non ci riuscite dovete andare a Parigi! Come diceva Napoleone: “Va’ a Parigi e diventa una donna”. Per citare le sue parole tutti usano la sua autobiografia, fresca e spassosa, che sembra disegnata da una bambina felice: “D.V.”, ripubblicata adesso da Donzelli, fu invece scritta da Vreeland negli ultimi anni di vita, quando non voleva nemmeno più farsi vedere dagli amici, e Jacqueline Onassis andava a trovarla nel suo appartamento di Park Avenue ma pranzavano ognuna in una stanza diversa e si parlavano al telefono, Jackie le raccontava pettegolezzi o le leggeva Proust, poiché gli occhi di Diana non vedevano più. Le persone che le erano rimaste accanto si preparavano per bene, prima di comporre il suo numero, perché Diana morente non avrebbe accettato storie banali, booooring, fatti riportati senza verve e ciglia finte. La noia era il nemico, non la morte. E l’occidente, secondo Vreeland, è per questo in pericolo. “Il mondo occidentale sparirà. Non succederà durante la mia vita e forse nemmeno nei prossimi cinquecento anni, ma succederà. L’occidente è di una noia mortale ed è autoreferenziale fino alla nausea!”. Lei apprezzava tutte le creature “con un tocco di colore diverso dal bianco”, trovava che avessero presenza, “Sono quelqu’uns, non c’è dubbio”. Fu fashion editor e poi guidò Harper’s Bazaar per ventisei anni, prima di dirigere Vogue, e non fece, né prima né dopo, mai, una riunione di redazione, “non avrei saputo cosa farmene di una riunione”, lei semplicemente diceva quello che voleva: un cavallo bianco tahitiano con una coda molto lunga e folta per un servizio fotografico, un paio di scarpe con le catenelle, che un attimo prima non esistevano e un attimo dopo invasero New York, uno sfondo color tavolo da biliardo, ma che avesse solo l’idea del verde biliardo (i fotografi impazzivano, la mandavano al diavolo, l’adoravano), manichini senza volto per le sue mostre, che non distraessero l’attenzione dai vestiti, ma con le teste drappeggiate da sete colorate, voleva il turgore delle labbra di una modella, Barbra Streisand come indossatrice, dei pantaloni con enormi tasche per cancellare dal mondo le borsette (la fermarono, le dissero: Diana, hai una vaga idea di quanti sodi perderemmo se tu mettessi le borse fuori moda?). E vestiti che non fossero “insopportabilmente noiosi” come quelli di una ragazza perbene. Non le importava niente delle femministe: mentre gli anni Sessanta andavano verso la rivoluzione dei sessi, lei mandava carovane di redattori, fotografi e modelle in Giappone, a prezzi folli, da imperatrice d’America, e diceva che tutte le donne sarebbero dovute andare a scuola dalle geishe, per imparare il trucco, il fascino, l’interesse che sprigionano. La realtà la interessava solo se aveva stile, se aveva “qualcosa”. Credeva molto nella volgarità, assieme al “gusto, la stravaganza, l’allure, l’eccitazione, la passione, lo schianto, il fracasso, il contrasto”. E bucò una sfilata della sua amica Coco Chanel, inventando che si era rotta un dente dando un morso a un pezzo di pane francese (Coco le approntò subito un aereo privato per mandarla dal suo dentista in Svizzera) per andare ad ascoltare Charles de Gaulle a Parigi. La interessavano Jackson Pollock, Mick Jagger, i Beatles, Marisa Berenson, Coco Chanel, Andy Warhol, Truman Capote, Cecil Beaton: trasformava l’arte in pop con un tocco di sigaretta, diceva che il suo compito era quello di insegnare alla gente cosa desiderare. Perché lo sbaglio che fanno tutti è quello di dare alle persone ciò che desiderano, invece bisogna dare quello che non possono avere, aprire nuovi orizzonti, creare cose assurde come la leggendaria rubrica illustrata di Diana Vreeland inaugurata nel 1936: “Why don’t You?” (nel catalogo Marsilio della mostra “Diana Vreeland after Diana Vreeland” allestita l’inverno scorso a Venezia ci sono alcune antiche pagine di Harper’s Bazaar a firma Vreeland). Perché non lavate i capelli biondi di vostro figlio con lo champagne avanzato, come fanno in Francia? Perché non dipingete le porte della vostra casa bianca ognuna di un colore di fiore e date a ciascuna stanza il nome del fiore? Trasformate il vostro vecchio soprabito di ermellino in una vestaglia. Come soprabito da indossare dopo aver sciato, procuratevi quello di un autista italiano, di colore rosso arancio foderato con stoffa verde scuro. Rivestite il portabagagli della vostra automobile con la pelliccia di giovane alce. Indossate cappelli di frutta. Usate un pezzo di meraviglioso broccato per ricoprire il vostro libro preferito.

    Era il lusso, la superficialità aggressiva, secondo chi la trovava sciocca, era l’archetipo di tutto quello che è venuto dopo. “Cenerentola a Parigi”, film con Fred Astaire e Audrey Hepburn del 1957, era già ispirato a lei, la donna che inventò gli anni folli della moda: fu assunta nel 1936 perché ammirata mentre ballava (Diana Vreeland ballava benissimo, era un suo godimento, ballava tutta la notte da quando aveva diciassette anni) al Saint Regis Hotel con un abito bianco merlettato di Chanel, un bolero e rose rosse nei capelli. Lanciò il bikini, “la più grande invenzione dopo la bomba atomica” e anche l’ombelico scoperto molto prima di Brigitte Bardot, tanto che Vogue ricevette molte lettere di protesta da madri di famiglia scandalizzate. Ma lei sentiva con gli occhi quello che stava per arrivare e inseguiva il nuovo, il troppo, il sé. Rifiutò un servizio sulle gonne lunghe, “perché sono scomode, le donne moderne devono portare i figli a scuola”, lei che era ritenuta la più altrove delle madri, dopo essere stata a sua volta ignorata dalla madre bellissima e in cerca sempre di nuovi amanti, anche fra i fidanzati della figlia (una volta Diana ragazza le urlò: “Ti aspetti che ogni cocchiere dell’isolato sia innamorato di te! Che problemi hai? Non ti dai mai una calmata?”, ma da grande fece pace con quella donna vistosa e scandalosa, disse: sono felice di averla avuta nel mio bagaglio culturale). Vreeland si occupava dei suoi due figli maschi il mercoledì pomeriggio, quando le nannies avevano la giornata libera, e li portava allo zoo a giocare con i gorilla (proprio dentro la gabbia, perché dovevano crescere senza la paura delle cose strane) e al museo delle cere a vedere le decapitazioni. Riteneva che le decapitazioni fossero eccitanti ed educative al tempo stesso.

    Diana Vreeland è il rifiuto della nostalgia, lo sberleffo sulla vecchiaia. Diceva: “Non sopporto i vecchi”, e non intendeva le rughe, sulla sua faccia non si è mai abbattuto nessun bisturi, il suo naso è diventato subito l’allure che alle altre mancava: intendeva lo sguardo rivolto all’indietro. Era l’unica cosa vietata. Il mondo è “per i giovani di ogni età”, così quando Jack Nicholson si lamentava in modo “insopportabilmente noioso” per il mal di schiena una sera, andò da Boots a mezzanotte e gli comprò due cerotti. Tornò al ristorante e ordinò a Nicholson di tirarsi giù i pantaloni. “Sei in splendida forma”, disse. “Devo ammettere che il tuo didietro non è niente male! Cicciottello e rosa”. Lo rimise in sesto, con la gente fuori dal ristorante che guardava “quel grosso sedere rosa in attesa”. Aveva lo spettacolo dentro di sé, senza che mai si accendessero le luci in sala. Una volta sola la sentirono piangere forte, era appena stata licenziata da Vogue, il marito era morto e lei era al Ritz di Madrid, l’orchestra suonava “Fascination”. Se proprio bisogna lasciarsi andare, almeno che la cornice sia quella adatta. Piangete nella hall di un grande albergo, mentre l’orchestra suona qualcosa di speciale, se volete diventare una leggenda. E, prima di tutto, come ha scritto Vreeland “bisogna organizzarsi per nascere a Parigi”. Poi tutto viene da sé.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.