Facce da sbafo
Ci deve essere, nella fisiognomica, una precisione scientifica finora sconsideratamente sottovalutata. Sennò non si spiega, sennò non si capisce – il risucchio dell’ostrica, lo sciampagnino di gente appena sortita dalla cantina sociale, l’ingozzamento programmatico, “le gnocche travestite con le gonnelline bianche”, che quelle mai mancano, altrove pure (e soprattutto) certe altre senza gonnelline bianche, esperte trampoliere sempre: ché un tacco dodici arrapa non meno di un piano regolatore smaneggiato. Le facce, ecco, le facce dicono tutto.
Leggi La prevalenza del maiale di Alessandro Giuli
“Ognuno ha la faccia che ha, ma qualche volta si esagera” (Totò)
Ci deve essere, nella fisiognomica, una precisione scientifica finora sconsideratamente sottovalutata. Sennò non si spiega, sennò non si capisce – il risucchio dell’ostrica, lo sciampagnino di gente appena sortita dalla cantina sociale, l’ingozzamento programmatico, “le gnocche travestite con le gonnelline bianche”, che quelle mai mancano, altrove pure (e soprattutto) certe altre senza gonnelline bianche, esperte trampoliere sempre: ché un tacco dodici arrapa non meno di un piano regolatore smaneggiato. Le facce, ecco, le facce dicono tutto. E’ sulle facce che bisogna concentrarsi, lì bisogna assolutamente scrutare – con lente d’ingrandimento, con perizia da sbirro di questura che fa l’identikit del ricercato – per intendere meglio le parole, le mezze scuse, le palesi coglionate. Sono facce che spiegano le panze (panze, non pance), da qualche parte un rutto non ancora recepito alle cronache quasi s’ode, gli insani propositi: “I nostri valori! i nostri valori!”, il coro a mezza bocca, da burletta laziale, che pare di sentir risuonare alto e forte, “se lavora e se fatica pe’ la panza e pe’ la fica!” – i valori!, i valori! Non certo per farsi tardo-lombrosiani (anche se l’annotazione “l’uomo ignorante sempre adora ciò che non può capire” pare perfetta per la situazione degli scialacquatori vanitosi), senza mettere di mezzo cervello e cervelletto (che anzi, a trovarli), senza neanche sfiorare, ma pure sfiorando, il darwiniano anello mancante, ma ecco: rammentarsi che non sempre di superficialità occorre peccare, e così allertarsi da subito e alleprarsi immediatamente, ché sono solo i superficiali a non fidarsi della prima impressione (lo diceva Oscar Wilde; che è ricchione ma che accettiamo, avrebbe concesso il cavernicolo Cetto La Qualunque, che in confronto a costoro fa comunque la figura di un De Gasperi: Cetto che di questa intera fenomenale armata del comico e della famelicità e dello sgarrupamento è modello ideale, pur dalla realtà a ridosso del Raccordo Anulare appunto largamente superato: in palese insensibilità, in ostentata volgarità).
Si possono lasciar perdere le ricevute, le interviste, le dichiarazioni pubbliche (quelle, meglio lasciarle perdere sempre), il vizietto privato dell’abuso nascosto dalla porporina delle pubbliche virtù – ma le facce, quelle non bisogna mai perderle di vista. La risata, il sogghigno, l’aria offesa, quella pensosa – la fronte poggiata sulle mani: come ruota sgonfia accasciata sul cric, il catalogo infinito di estetiche brutture, farsi una memoria da elefante, così che all’occorrenza se serve o se la bile travasa selvaggiamente caricare. E l’occhio prestare a certe cravatte a mezza panza, a certi braccialetti da oreficeria di paese penduli al polso, a certi colli taurini che neanche i festoni delle sagre di paese potrebbero costeggiare per intero, a certi squisiti manufatti di Marinella – a strozzo annodati, a simbolo elevati: ci piace Berlusconi!, copiamo Berlusconi!, gracchiano gli sfrontati, e proprio il Cav. rimesso a nuovo, galleggiante e crocierista, dovrebbe stringere con vigore i nodi che a lui vorrebbero intestare, altro che il continuo inguattamento, togliere aria come lo strangolatore in quel film di Hitchcock, soffocare per riprendere lui a respirare. Così che invece ognuno il fiato smarrisce davanti alle foto del party al Circolo del tennis in costume da antichi romani – ma il consigliere organizzatore da Ulisse risulta vestito: così che in azzardo un sogno premonitore di Cassandra col pecoreccio Satyricon si miscela, l’onorata tradizione dei peplum degradata a parodia paesana, la confusione tra Pantheon e Divina Commedia, poca Penelope e proci festanti molti (porci? froci?), tripudio di elmi e mantelli dorati e forconi e ancelle a mollo e allori e corazze e cosce gladiatorie al vento e pettoruti che tendono l’arco e boccoluti Apolli, so’ Cupidooo!, e giare stipate di mojito e templi discotecari e vestali che porgono grappoli d’uva a maschi stravaccati e certi mascherati con teste da maiali che palpano chiappe romanamente esibite e bipedi con maschere equine chiamati a fare il quadrupede di Troia, con ridente bellezza in groppa. “Tutto a spese mie”, dice il consigliere temerariamente omerico. Ma lo stesso l’esibita paccottiglia (secondo l’on. a caratura regionale, invece, trattasi di “festa carinissima e sobria” – sta a vedere, montiana quasi) dice molto – e se il gusto altrui non si discute, il disgusto che ne segue è poi difficile da silenziare e fronteggiare.
Se tra la roba – lavica fanghiglia, tracimazione fognaria – che fuoriesce in questi giorni c’è materia per sbirri e giudici, giudici e sbirri decideranno. Ma di sicuro è roba destinata a imprimersi per sempre nella memoria, a farsi paradigma di tutto quello che un dì crollò. Tale il livello di spudoratezza e di ingordigia (si sono viste persino spese per “l’aperitivo rinforzato”, mancasse a qualcuno l’appetito) e tale quello di stratosferica stupidità – ogni singolo centimetro della corda che (metaforicamente, s’intende; metaforicamente, si spera) finirà per impiccare un’intera classe (meglio da dire sarebbe: sottoclasse) politica la stanno tessendo loro, in pratica ora dopo ora – il dirupo è lì davanti, e quelli accelerano. “Il Futuro è Fiorito”, faceva scrivere sui manifesti quel Fiorito lì, il ciociaro pantagruelico e di sostanziosissima presenza, ideale Polifemo sarebbe stato al festevole Circolo del tennis – più del settimo di tonnellata che Nero Wolfe rivendicava per sé: e in mezzo al manifesto un fiore, il nome di Berlusconi scritto al centro: epocale rivendicazione era, mesto scacazzamento di piccione ora appare: e se il futuro è fiorito, ecco, adesso di crisantemi pare fiorito, di languore beccamortario, di danza sul ponte del naviglio che imbarca acqua – tutti giù, a far compagnia alle festevoli ancelle grondanti. Lo sprofondo peggiore – dove la tragedia si muta in farsa, un istante prima che tutto svanisca e si sbricioli, come le antiche pitture sotterranee nel “Roma” di Fellini: lì si restava col fiato sospeso di fronte alla precarietà della bellezza, qui di fronte alla durevolezza della bruttura. Quel baldanzoso salire verso il cielo, giorno dopo giorno, di ricevute che parlano di pappate ai ristoranti – questa pena e questa scena di poveretti plaudenti il politicante sistemato al tavolo centrale, come gli sposi allo sposalizio, due cazzate sui “nostri valori”, tra l’abbacchio che sfuma e il vinello che cala, l’ipercalorica abbuffata che come valori giusto verso l’aggiornamento di quelli del colesterolo dovrebbe spingere – e adesso l’osso male spolpato finito di traverso chiude la gola, genera rantoli mediatici, fa proclamare intenzioni future purtroppo solo testamentarie. Il particolare rende il senso del tutto, come quel filmato di un comizio (al ristorante, ovvio: tavolate torno torno, bottiglie vuote, piatti con avanzi e satolli ridenti) di Francone Fiorito con tal Modesto a fianco, che gli batte compiaciuto e grato la mano sul trippone, e poi tutti in coro a cantare il canto dei briganti, e si avverte l’assenza della banda di paese, “Ammo pusato chitarre e tammore / ca chesta musica s’ha ’dda cagnà / simmo briganti e facimmo paura / ’e ’ca scupetta vulimme cantà…”.
E’ terra di sagre e fiere, il Lazio. Con mafia e camorra che rosicano i suoi bordi, nessuna possibilità più di essere appaiato con un qualsiasi land tedesco – per dire, manco un Meclemburgo-Pomerania Anteriore. E tutta questa faccenda di soldi e magnate, di beghe e di sputazzamenti da provincia a provincia, la Tuscia che sfida la Ciociaria, la Ciociaria che gagliardamente risponde, e lo sbrago innalza nella memoria il barista di Ceccano reso memorabile dal ciociaro Nino Manfredi, “fusse che fusse la vorta bbona” (stavolta decisamente non lo è). Sono Francone – a stazza mastodontica – e Franchino Battistoni da Viterbo, dai giornali appellato “il Duca” causa certa curialità pretigna (e un antico zio prete carsicamente dalle cronache emerge), ormai ex capigruppi, che hanno cominciato a darsele sconsideratamente, litigi e banche, conti correnti volanti, sospette camere matrimoniali pur se a uso singolo, dossier che transitano a ritmo frenetico, sospetti voucher forse contraffatti (la contraffazione dei voucher deve essere un inedito totale, manco a Totò ambasciatore del Catonga sarebbe venuta in mente): peggio di quella dei Roses, la guerra degli azzurri. Tutto il resto – come scenografia posticcia, come avanzo dell’avanzo della seratona con maiale che bacia l’ancella – è venuto giù in un soffio, ciò che ieri attizzava desiderio oggi produce vergogna: il futuro è sfiorito. Per tutti. C’è la Polverini, che di bianco vestita alza le mani al cielo nell’aula del consiglio, simil posa al Cristo Redentore di Rio, rumorosa Madonna della Pisana che fa la dura col suo attruppamento, si’ ve pijo ve smonto come ’na radiolina!, e parla di abisso e tumori e ciabatte e catastrofe e alluvione e stress, uno se gratta e se da’ – così che la già evocata Cassandra omerica (la faccenda ributta sul classico perenne della romanità pecoreccia della destra de Roma e province tutte) al confronto figura come sgallettata da happy hour. Ma l’acqua è alla gola di tutti – certo, il livello di sputtanamento raggiunto dal pidielle (senza tener conto di eventuali rogne giudiziarie) è di quelli che non lasciano scampo, una patacca perenne di unto che nessuno smacchierà più, ma pure il piddì ha le sue magre figure, e sicuramente sarà tutt’altra cosa – noi le ostriche no!, mai noi le ostriche!, le vacanze niente! la politica, noi solo la politica!, eppure lo stesso tra le ricevute di riunioni e convegni e democratiche adunate, non poco impressiona il ritmico allinearsi di enoteche e trattorie e osterie e ristoranti e alberghi e agriturismi – avessero dato, democratici e berlusconiani (e tutti gli altri che in attesa di verifica stanno) ciò che hanno dato alle meglio vinerie alle più significative librerie, ne avrebbero ricavato più vispa presenza linguistica oltre che una più giustificativa contabilità finale. Invece dell’ostrica, cazzo, ho comprato l’ultimo saggio di Brunetta! Macché caciotta, quella è la spesa per un romanzo di Franceschini! Niente di niente. Ma ecco, per restare a sinistra, che una delle migliori battute sentite è pur sempre quella di Esterino Montino, con la sua simpatica e arruffata aria da capopopolo, di fronte a quasi cinquemila euro che hanno arditamente preso la strada di un’enoteca: “A Natale abbiamo fatto regali ai bambini senza reddito, un atto di generosità…” – che c’è da intendersi e da capire: invece del pongo e del lego, ai bimbi poveretti si porta il Morellino di Scansano? Poi ha meglio dettagliato: “Erano per le famiglie dei bambini in difficoltà”. E le piccole creature, infine, a gozzo asciutto?
Ma pure, di tanti e infiniti protagonisti – per questo le facce sono importanti da mandare in memoria, sennò magari uno se li ritrova tali e quali, tra un paio d’anni, impataccati sul davanti, a ciarlare di valori: di solito quelli della vita, a leggere i conti quelli della viticultura – nessuno lo è quanto il Francone da Anagni detto er Batman (non dovrebbe alzarsi in aria, con leggiadria da volatile, l’eroe pipillestrato?), dalla fenomenale confessione – “me so’ magnato dodici bignè allo zabaione”, – alla impressionante elencazione: due vassoi di fettucine, quattro bistecche, ventiquattro baci Perugina: in una serata – consacrata icona dei giorni che stanno calando nella fossa l’istituzione regionale, così che è tutto un ravanare di inviati nella pacifica sua cittadina, e lui che appare sotto gli ulivi, un suggestivo e casareccio Getsemani, e mamma Anna che rivendica tanto l’onestà quanto la moderazione – mai una sigaretta, mai un’ostrica – così come la precoce intelligenza, “a tre anni leggeva già Topolino”. L’antico mondo viene rivoltato, col suo carico di poca fascinazione, gli amici, er Brucia o er Buciardella, gli imitatori – degli improbabili gessati, persino della gestualità delle mani che come badili nell’aria vagano: manco fossero quelle di Von Karajan o di Zavattini – a scorno e a sberleffo denominati “li pecuri Dolly”, come il povero ovino per primo clonato. In un inestricabile suggestivo groviglio di ombre e di certezze, di ville e case, di yacht a nome “My space 2”, space abbondante si suppone, e la nota “vacanzona” in Costa Smeralda con la sua amica Samantha con l’acca, “la campagna elettorale delle regionali mi aveva spossato e depresso, avevo bisogno di una vacanzona” – appunto, vacanzona, e sembra di stare in un film con Umberto Smaila, “vitaaaaa smeraldaaaaa, per fare un tuffo ho chiesto un mutuo in bancaaaaa / poi per la cena un bel finanziamentooooo…” – cose così. Ma rivendica pure altro, Fiorito che comprensibilmente un po’ appassisce sotto gli ulivi dell’orto paesano: “Me sento er Federale de Anagni…”, così in questa spettacolare parata di facce e voci che di molto supera il vetriolo delle più sbracate commedie all’italiana, fa capolino l’immagine di Ugo Tognazzi, impeccabile federale Arcovazzi – quello che piegava le gambe e allargava le cosce, a maschio ritmo fascista e romano, un-duè!, un-duè!, un-duè!, e sentendosi domandare se la pratica fosse dovuta a glorie militari, “cavalleria?”, pronto e pratico replica, “no, coglioni sudati” – e lo stato degli stessi del Fiorito per fortuna e per il momento non sono noti, ma certo risultano a rischio di rapido peggioramento se l’ex ministra Meloni dovesse mettere in pratica l’ardente, non meno ginnico, proposito: “Fuori dalle palle e calci sui denti”.
Storia che più laziale non si potrebbe, che solo nel Lazio poteva avere questo sviluppo, questa fisiognomica, questa stupefacente sospensione tra farsa e tragedia. Perciò è tutto un evocare ricottine e pajate, bucatini e abbacchio, coratella e pecorino – ché questi di struttura e vaghezza onirica di venditori di pecorino hanno immagine e sostanza, odor di cacio e roditoria predisposizione – peraltro essendo il pecorino nobilissimo formaggio che alle fave meravigliosamente si accoppia, e se delle fave si dovesse far ora metafora meglio sarebbe, se non tacere, decisamente allarmarsi. E a guardare i comunicati ufficiali, si scopre vispo affollamento un giorno alla sagra del fagiolo e un altro a quella della pastorizia, e sempre e in gran pompa istituzionale a quella del peperoncino. E i cronisti vanno, di marciapiede in marciapiede, a batter cucine e saloni di ristoranti dove l’avvenuto assembramento – da cotica a cotica, da valori a valori – pare avvenuto: persino a centinaia figurano, in posti dove più di quarantaquattro come i gatti non ci stanno, a scovare ove, romanamente esemplificando, se scofanavano ’sto monno e quell’altro. Quali bancarellari vocianti, pur con villone accreditato, adesso inevitabilmente unti risultano – a cacio e pepe e disdoro marchiati, di miseria sempre e nemmeno un’ombra di nobiltà: a meste figure di servitù che il luogo dell’antico nobile padronato hanno preso, per estinzione della razza primaria, ma nemmeno la figura del servo si è salvata, del dignitoso servire che parecchi di loro hanno a lungo e onorabilmente praticato – non l’impeccabile e sofferente maggiordomo di “Quel che resta del giorno”, neppure le serve di Genet che mettono l’abito delle padrone quando quelle non ci sono, ma gli stallieri, piuttosto, i maniscalchi, i vivandieri, i mozzi di bordo, coloro che il pitale svuotavano, e che ora ostentano il pisciare matto e sconsiderato in mezzo alla pubblica via. Razza politica dal senso della misura evanescente, da quello del ridicolo assente – e dallo stomaco tremebondo.
E ogni prebenda elevata a diritto: due macchine? mi spettano e me le piglio! quei soldi? mi spettano! la magnata? cena di lavoro, mi spetta! il Suv da 88 mila euro? ne avevo, testuale, “un tremendo bisogno” – bisogno, nientemeno: e forse diritto era, ma diritto malsano, storto seppur diritto, indigesto a tutti gli altri laddove quelli benissimo digerivano. Ridicole satrapie personali schiantate sul bagnasciuga del Raccordo anulare, là dove si erge il Palazzo del consiglio, somigliante più che mai, persino architettonicamente (roba che fu edificata dai preti), ai centri outlet che stanno accosciati da quelle parti – a pizzo di strada campagnola, di ovini pascolanti, di sperdutezze che sfiorano le statali. Posto lontano dagli occhi, dal cuore figurarsi, stomaco al riparo, luogo dove lo sguardo solo distrattamente cade – nonostante sollecitazioni tentatrici tipo quelle del presidente Abbruzzese (per le cronache: colui che guadagna quasi come Obama), che “riceve una delegazione Ciociaria del Club Windor del Canada”, opportunamente “composta da Nazzareno Conte. membro del direttivo del Ciociaria Club e nativo di Broccostella, della consorte Rosa Vani e del sindaco di Broccostella Sergio Cippitelli”. Poi, in quella sorta di Fortezza Bastiani dello sciupio e della vanagloria persa nel deserto dello sconfinamento metropolitano – destinata a farsi costume perenne e ammonimento: come le porchette dei Castelli romani immortalate da Gadda – un giorno si sono presentati, inattesi e sconosciuti, i temuti tartari: richiamati soprattutto dallo stridio ululante delle voraci “piccole volpi” lì stipate. Di quanto sia la lontananza, quasi una toponomastica che racconta di altra galassia, come di quei pianeti perduti e vagamente pensati, dicono bene le stesse accurate indicazioni che sul sito della regione Lazio indicano come raggiungerla – una circumnavigazione omerica (rieccoci!), un’esplorazione titanica, uno smisurato vagare. Dunque, così si proceda, a Termini giunti, come qualunque viaggiatore: “Prendere la linea metro A (direzione Battistini) per 10 fermate fino alla stazione Cornelia. Recarsi alla fermata C.ne Cornelia/Aurelia (100 metri) e prendere la linea 889 (Mazzacurati) per 9 fermate o la linea 892 (Aldobrandeschi). Scendere alla fermata Pisana/Sorbolonghi. Prendere la linea 808 (Eiffel) per 20 fermate. Scendere alla fermata Pisana/Regione Lazio”. E quanti temerari potevano azzardare una simile transumanza – se non a recare, a certi, pecorino fresco o disperata protesta: di sfrattati, di disoccupati, di male impiegati – a volte, chissà, semplici sfaccendati. Una piccola corte, con le sue ritualità svelate ridotte a operetta, paese dei tromboni – e d’altro.
Sarà per sempre – sarà almeno per molto – la regione Lazio, mascariata dalle cronache ultime: di alcuni poveracci che improvvisamente hanno trovato le chiavi della dispensa e l’hanno saccheggiata – i maccheroni in tasca, la tarantella nella gambe, la fraschetta all’orizzonte, come ogni misero che crede di aver svoltato l’esistenza. Tutto da smontare – come il tempio di cartapesta e i maiali e le ancelle bagnanti, il sospetto incancellabile di una gigantesca burinata (er burino è maschera e saggezza della minuscola epica ciociara: da manico dell’aratro, forse, dice l’incerta etimologia: e al salutare manico, a storia finita, molti andrebbero rapidamente riconvertiti). Col fuoco (pur con ostriche crude) hanno scherzato. E ora avvampano – e quasi pare di vedere un immaginario corteo degli scalcagnati che esce e sfila, come gli eroi di certi kolossal, martirizzati e sputtanati, lungo via della Pisana, a rifare a ritroso il percorso sopra descritto, e a piedi stavolta, e tutti intonare con un ultimo sussulto di orgoglio un evocativo, plebeo ma onestamente rivendicativo, canto: “La società dei magnaccioni / la società della gioventù / a noi ce piace de magna’ e beve…”. E chissà se basteranno le risate ultime a chiudere la faccenda e il galoppare della fantasia – della crudele fantasia della gente, diciamo, loro che sempre la gente mettono di mezzo. Cicerone – che era ciociaro, ma era pure Cicerone: per piacere – a peccar di furbizia ci rimise la testa e, dicono, le mani. Meglio lasciar la prima – più delle giare anticate, una volta svuotate, risuona. E soprattutto le mani: per poter tenere saldo il manico dell’aratro.
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