I segreti del camper

Mariarosa Mancuso

Non c’era altra scelta. Il pullman era già stato occupato da Romano Prodi e da Walter Veltroni. Restavano a Matteo Renzi il camper o la roulotte. Modesti nell’apparenza e molto alla mano, dettaglio che in campagna elettorale, sia pure per le primarie, aiuta a smarcarsi dalla casta (Beppe Grillo esagera come al solito, e sceglie il nuoto pinnato con stringinaso). Se hai davanti un avversario che come unico gesto memorabile si tira su le maniche della camicia, non puoi andartene in giro in aereo (il treno resta escluso, per recente rottura di monopolio e antica insufficienza delle linee provinciali).

Leggi Chi scende in camper di Claudio Cerasa

    Non c’era altra scelta. Il pullman era già stato occupato da Romano Prodi e da Walter Veltroni. Restavano a Matteo Renzi il camper o la roulotte. Modesti nell’apparenza e molto alla mano, dettaglio che in campagna elettorale, sia pure per le primarie, aiuta a smarcarsi dalla casta (Beppe Grillo esagera come al solito, e sceglie il nuoto pinnato con stringinaso). Se hai davanti un avversario che come unico gesto memorabile si tira su le maniche della camicia, non puoi andartene in giro in aereo (il treno resta escluso, per recente rottura di monopolio e antica insufficienza delle linee provinciali). Se poi il lettore curioso volesse sapere la differenza tra le maniche arrotolate di Pier Luigi Bersani e le maniche arrotolate di Alessandro Baricco, sappia che le prime hanno ambizioni neorealiste, e le seconde son fighettismo realizzato. Il fatto che divergano negli intenti e coincidano nel risultato fa parte delle anomalie italiane.

    Purtroppo, a giudicare dai nostri parametri di riferimento – libri, film e telefilm, c’è altro?– sono mezzi di trasporto poco raccomandabili. O fanno da sfondo a carneficine, oppure portano con sé una robusta dose di sfigataggine. Si comprano un camper a rate, e lo lucidano fino allo scoccare dell’età pensionabile, Jack Nicholson e consorte nel film di Alexander Payne “A proposito di Schmidt”. Lui fa l’assicuratore, espertissimo nella valutazione dei rischi. Ma siccome “Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti”, la signora Schmidt riesce appena a farci salire il marito per una simulazione da fermi, cercando di convincerlo che gli anni della pensione trascorsi in camper sono il massimo. Mrs Schmidt muore all’improvviso, mentre passa l’aspirapolvere sulla moquette (tra i lavori domestici, il meno a rischio di trapasso). Il signor Schmidt parte in solitaria, dopo aver sistemato i pupazzetti sul cruscotto, per andare a trovare la figlia a Denver. Troverà un genero venditore di materassi, e una consuocera che lo fa dormire in un letto ad acqua. Fuori tempo massimo: ne ricava dolori invalidanti, e una dipendenza dall’antidolorifico.

    Ha un camper superaccessoriato Robert De Niro, suocero rompiballe in “Ti presento i miei (e successivi, fino all’inguardabile ultimo capitolo della serie “Vi presento i nostri”). Jack lo guida come un carro armato, in sintonia con le sue fissazioni, che prevedono per il futuro genero un esamino alla macchina della verità. Si comprano un camper usato due trentenni belgi in “Mobile home” di François Pirot, visto all’ultimo Festival di Locarno. Nel tentativo di sfuggire ai genitori invadenti, imboccano con andatura da rally una stradina di campagna. Il veicolo si rompe, e siccome non hanno soldi per ripararlo passeranno qualche mese parcheggiati davanti all’officina del meccanico.
    Partono con il camper per il fine settimana anche i cinque studenti di “Quella casa nel bosco”, diretto da Drew Goddard e scritto da Joss Whedon, uno degli horror più fantasiosi e intelligenti visti negli ultimi anni. Son scarsi di benzina, ma non fanno rifornimento perché il benzinaio è un vecchietto sdentato che biascica maledizioni (da giovane suonava il banjo sotto il portico in “Un tranquillo weekend di paura”, agli ordini di John Boorman che spazzò via in noi ogni residua idea del campagnolo pittoresco). Il carburante servirà, quando i nostri capiranno in che guaio si sono ficcati – anche narrativo, rispetto agli stereotipi del genere: “Scream” al confronto era un giochetto per bambini. Matteo Renzi, per non restare a secco, ha aperto una sottoscrizione popolare.

    “Stai lontano da camper e roulotte”. E’ uno dei “Don’t” che lo spettatore ha scolpito nella memoria dopo aver visto “Le colline hanno gli occhi” di Wes Craven, anno 1977. La famigliola parte allegra per le vacanze, in un posto che se fossimo in un film di Terrence Malick avrebbe la sua “inquadratura biblica”: minuscola sagoma umana sullo sfondo di un sublime paesaggio con sole al tramonto. Complice un guasto in mezzo al deserto, vengono assaliti da cannibali mutanti, resi tali dagli esperimenti nucleari negli anni 50. Sbucano nella notte, riducono padre madre e figliolanza a hamburger sanguinolenti. Lo rifanno nel remake di Alexandre Aja, regista francese che gareggia con il maestro. C’è un camper anche in “11:14 destino fatale”, con i giovanotti ubriachi che pisciano fuori dal finestrino. Altra cosa da non fare mai, in caso di necessità ricorrere alla bottiglia come Jeff Bridges in “Crazy Heart”: in caso contario, il pisello verrà ghigliottinato e finirà molliccio sull’asfalto.
    Quando non vengono fatti fuori da qualcuno più pericoloso di loro, dei camperisti è meglio diffidare. I fidanzati di “Sightseers” (diretto da Ben Wheatley, un nome da tenere d’occhio tra i nuovi registi britannici, applaudito a Cannes e a Toronto per questo film, e per i precedenti “Down Terrace” e “Kill List” ) partono con il caravan Abbey Oxford verso il Lake District. La mamma di lei è contraria: il moroso potrebbe essere un serial killer. Oltre alle classiche dispute tra madre vedova e figlia zitella, è furiosa perché un paio di ferri da calza distrattamente lasciati in giro hanno impalato a morte il suo adorato cane.

    Serial killer lo è, in realtà. Non però di mature signorine solitarie, da circuire e uccidere come fa Monsieur Verdoux. Le vittime sono da tempi moderni: un turista che getta la carta del gelato per terra, un automobilista che ruba l’ultima piazzola di sosta, un gitante che invita i due morosi a raccogliere la cacca del cane (i nostri ne hanno rubato uno, identico al cagnetto infilzato: per la performance, i terrier Smurf e Ged vinsero la Palm Dog a Cannes). Girano in camper per star vicini alla natura, e in questa frenesia ecologica rientra l’omicidio per futili motivi. L’impronta al carbonio di un morto è certamente più leggera di quella di un vivo inquinatore. Cogliamo l’occasione per richiedere il film nelle nostre sale. O almeno in qualche forma di distribuzione alternativa e legale. Vale come una supplica. Tanto più che gli incassi in sala calano, e qualche provvedimento prima o poi bisognerà prenderlo (non è che si possono continuare a fabbricare segreterie telefoniche al tempo dell’iPhone, e lamentarsi perché restano in magazzino).

    I romanzi confermano la cattiva fama di camper e roulotte. Da Giano esce “Le vacanze di un serial killer”, starring la famiglia Destrooper, firmato da Nadine Monfils, belga con la vena di follia che spesso contraddistingue i suoi compatrioti. Papà Alfonse in fantozziana camicia a fiori e bermuda kaki, i figli Steven (come Steven Seagal, idolo della madre che ha una passione per le arti marziali) e Lourdes (come la figlia di Madonna) che fumano hashish sul sedile di dietro. La macchina è accessoriata dallo stesso venditore di gadget che fornì a Nino Frassica la coda di pelliccia per l’antenna radio che andava su e giù: volante in pelle di zebra, coprisedili leopardati. La roulotte, con gerani finti ai finestrini, è occupata da Nonna Cornamusa. Non il tipo nonnesco che alligna nei romanzi italiani: questa uccide fidanzate di giovanotti aitanti, poi se li porta a letto. Non soffre di artrite, casomai qualche volta ha i polsi indolenziti: “Dopo aver succhiato invano la maniglia del giovanotto, l’ha strofinata come se fosse un ottone da far brillare”.

    Camper e roulotte telegrafano ai più “vorrei ma non posso”. Per qualcosa di più chic – shabby chic – serve almeno un pulmino Volkswagen. Quello giallo che si vede in “Little Miss Sunhine” o quello verdolino, con disegni indiani da gente fumata, che abbiamo visto in “Cars” della Pixar. Quello che puntualmente appare in tutti i film sul Sessantotto e sul dopo Sessantotto (“Aprés Mai” di Olivier Assayas, per esempio, che alla voce “auto d’epoca” aveva affittato anche una Due Cavalli). Ce ne sono tanti a Slab City, dove finisce Emile Hirsch dopo avere bruciato le carte di credito e fatto perdere le sue tracce (morirà invece su un pullman eletto a ultimo rifugio, e per completare il parco veicoli ci sono i pick-up, anche questi prediletti da tipi poco raccomandabili).

    Su un camper Volkswagen rosso, vecchio di 30 anni – ha ancora la ruota di scorta sul muso – eppure conservato come una reliquia viaggiava nel 2011 Martin Dorey, nella serie Bbc “One Man and His Campervan”: ameni luoghi inglesi, a volte sembrano gli stessi paesaggi di “Sightseers” con il Museo della Matita da visitare, cene a bordo del veicolo con prodotti locali offerti dagli indigeni. Altro Combi, e sempre rosso – battezzato Fafner come il guardiano del tesoro dei Nibelunghi – per Julio Cortázar e Carol Dunlop. Nel 1982, ma il progetto aveva già preso forma alla fine degli anni 70, imboccarono l’autostrada che da Parigi conduce a Marsiglia. Ottocento chilometri, sbrigabili in una giornata. Ma si erano imposti regole precise, quindi le tappe furono una trentina. Dall’autostrada non potevano uscire, avevano deciso di fermarsi in ognuna delle sessantasei aree di sosta, e dormendo nella seconda piazzola visitata durante la giornata. Poiché non erano gli autogrill di adesso, provvisti di macchinetta spremiarance, a intervalli regolari amici compiacenti portavano ai viaggiatori cibi freschi anti-scorbuto. E bisognava tenere un diario, che con illustrazioni e le fotografie scattate durante il tragitto è appena uscito da Einaudi. Titolo (bruttarello): “Gli autonauti della cosmostrada – Un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia”. Le regole dietrostanti ricordano l’Oulipo, laboratorio di letteratura potenziale (ne faceva parte anche Italo Calvino): ovvero la letteratura fabbricata a macchina, costretta a vincoli perlopiù insensati. Per esempio, quelli che Jacques Jouet stabilisce per le “poesie da metropolitana”. Una poesia da metropolitana deve essere scritta durante un viaggio in metropolitana. Conta tanti versi quante sono le stazioni attraversate nel tragitto, meno una (se si prendono due linee, o più, son concesse due strofe, o più). Il primo verso si pensa tra le due prime stazioni, e si mette su carta quando il treno è fermo alla stazione numero due. Non si scrive quando il treno e in moto, non si compone quando il treno è fermo. Non ne escono versi memorabili, questo è certo. Ma almeno restringe la pratica ai versificatori da grande città, poeti bucolici astenersi.

    La letteratura costruita a macchina solitamente scoccia, “Gli autonauti della cosmostrada” fa eccezione. Il procedimento sembra macchinoso, ma i diari di bordo – comprensivi di cibi mangiati a colazione, pranzo e cena – sono uno spasso. Fa tenerezza sapere che Cortázar e Dunlop, nel lessico famigliare il Lupo e l’Orsetta, erano malati, e decisero di fare il viaggio continuamente rimandato con una bella scorta di medicine, giacché in autostrada non ci sono farmacie. Si portarono però un sifone da selz per gli aperitivi, con bombolette di ricambio. C’è anche la lettera inviata alla Società autostrade per chiedere una deroga al regolamento che non consentiva di trascorrere in autostrada più di 48 ore. Non ci fu risposta. Sappiamo invece il perché del nome wagneriano, in calce a un fedele ritratto del camper: “Lo vidi arrivare per la prima volta mentre risaliva Rue Cambronne a Parigi, l’avevano appena portato da un garage e quando me lo trovai davanti vidi il faccione rosso, gli occhi bassi e infiammati, l’aria da simpatica canaglia, un semplice clic mentale ed ecco il drago”. Il modello aveva sul tetto una tendina rialzabile, dettaglio che contribuiva all’aspetto dragonesco.

    Matteo Renzi sul pullman Volkswagen non ci può salire. Era appannaggio della gioventù sessantottina tenacemente convinta di essere la migliore delle generazioni possibili, e l’ultima dotata di intelligenza, compassione sociale, buone letture, spinta libertaria. A dire il vero, lo credono (e lo credevano, e lo crederanno) tutte le generazioni transitate sulla terra, ma prima – trascorso il loro momento – erano zittite e trattate come il nonno rincoglionito che ripete sempre le stesse cose. Esattamente la generazione che Renzi vorrebbe uccidere, perché nel resto del mondo è così che si diventa grandi (l’ha detto anche Sigmund Freud, primo tra i rottamatori). Curioso che a non afferrarlo siano proprio quelli che la categoria del giovane l’hanno inventata, e considerano la rivolta e l’occupazione una cosa buona e giusta, purché gli obiettivi siano altri. Spiace accanirsi, ma serve un esempio chiaro: possibile che siamo ancora a litigare sul regista dei “Pugni in tasca” Marco Bellocchio? Non sarebbe ora di svecchiare pure certe polemiche? Quanto al “non ha esperienza, manca di preparazione”, il requisito avrebbe fatto sghignazzare, se richiesto ai leader assembleari. I serial killer sono numerosi e agguerriti, la sfigataggine sempre incombente, per la campagna elettorale in camper prenotiamo una poltrona di platea, ci sarà da divertirsi.

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