Le zavorre di Fiat sono le zavorre di tutte le imprese italiane
L’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ha confermato l’impegno del Lingotto in Italia e ha aggiunto, a buon peso, che non intende vendere l’Alfa Romeo. Al governo non chiede aiuti ma che rimuova le zavorre. Mi sembra il punto di vista appropriato per ragionare su ciò che dovrebbe fare il governo per creare un ambiente favorevole all’investimento di tutte le imprese in Italia. Supponiamo che Chrysler, che fa parte del gruppo Fiat, intenda produrre in Italia auto da esportare in Europa, Africa e vicino oriente.
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L’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ha confermato l’impegno del Lingotto in Italia e ha aggiunto, a buon peso, che non intende vendere l’Alfa Romeo. Al governo non chiede aiuti ma che rimuova le zavorre. Mi sembra il punto di vista appropriato per ragionare su ciò che dovrebbe fare il governo per creare un ambiente favorevole all’investimento di tutte le imprese in Italia. Supponiamo che Chrysler, che fa parte del gruppo Fiat, intenda produrre in Italia auto da esportare in Europa, Africa e vicino oriente. Si troverebbe con un problema fiscale che hanno tutte le imprese estere, i cui utili sono tassati nello stato ove hanno l’attività principale: quello dell’impossibilità di detrarre l’Irap dall’imposta sugli utili dovuta nel paese d’origine, trattandosi d’un tributo ibrido, non previsto dai trattati internazionali sulla doppia imposizione. Se l’Irap fosse divisa in due, come da tempo suggerisco, scindendo quella sul costo del lavoro per trasformarla in contributo sanitario nazionale (quale in effetti è), la parte residua diventerebbe una imposta sull’utile lordo dell’impresa. Sarebbe pertanto detraibile dall’imposta sul reddito nello stato di origine, con una riduzione del 5 per cento del tributo sul profitto. Il contributo sanitario verrebbe inserito nel costo del lavoro. E ciò alleggerirebbe il carico in Italia sul costo del lavoro delle imprese del 2 per cento circa. Questo darebbe luogo a un minor gettito di 5-6 miliardi, che si potrebbe spalmare su tre anni, con notevole beneficio per la nostra competitività.
Un’altra zavorra, che subisce il gruppo Fiat e non solo lui, è costituita dai ricorsi contro i licenziamenti disciplinari che rendono impossibile attuare i contratti aziendali di produttività, benché approvati con referendum dalla maggioranza degli addetti. Occorrerebbe un articolo di legge interpretativo dell’articolo 18 per superare questo scoglio. Una via alternativa è la attuazione piena della normativa sui contatti aziendali, con l’applicazione dell’articolo 8 del decreto di agosto del 2011, congelato successivamente da Confindustria e sindacati.
Una terza zavorra è data dalla questione dell’incerto finanziamento della cassa integrazione straordinaria, che potrebbe servire per riconvertire gli impianti degli stabilimenti Fiat, ad esempio per produrre componenti delle auto fabbricate e vendute dal gruppo negli Stati Uniti. Una quarta zavorra è data dalle incertezze sul quadro tributario. Ad esempio, la riduzione dell’imposta sul salario di produttività non è stabilita da una legge permanente, ma da una norma temporanea che va rinnovata. Ci sono altre complicazioni che i manager delle imprese conoscono molto meglio di me. Ma quelle che ho elencato bastano per dire che il caso dell’investimento Fiat è esemplare del problema del “doing business” in Italia.
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