I confini del dramma

Paola Peduzzi

I maschi in età adulta non possono passare, anche se hanno una fila di bambini dietro. Non passano. Devono essere prima controllati e interrogati. Poi forse potranno andare di là. Di là è l’Iraq, di qua è la Siria, da dove la gente scappa, scappa sempre di più, perché non ci sono più posti sicuri dove stare. Ieri c’è stata un’altra esplosione nel centro di Damasco, sono stati colpiti i palazzi dei servizi segreti siriani, “filiale palestinese”, precisa al Arabiya, giusto per ricordarci che ci sono molti interessi in gioco, in questo martoriato paese.

    Milano. I maschi in età adulta non possono passare, anche se hanno una fila di bambini dietro. Non passano. Devono essere prima controllati e interrogati. Poi forse potranno andare di là. Di là è l’Iraq, di qua è la Siria, da dove la gente scappa, scappa sempre di più, perché non ci sono più posti sicuri dove stare. Ieri c’è stata un’altra esplosione nel centro di Damasco, sono stati colpiti i palazzi dei servizi segreti siriani, “filiale palestinese”, precisa al Arabiya, giusto per ricordarci che ci sono molti interessi in gioco, in questo martoriato paese. Esplode la capitale-fortezza della Siria e tutto il resto del paese è sotto i bombardamenti del regime di Bashar el Assad. I siriani, quando possono, scappano. Ma l’Iraq, così vicino, così consanguineo, non è più un porto sicuro: il governo di Baghdad guidato dallo sciita Nouri al Maliki teme che s’inneschi un’alleanza sunnita tra i due paesi e per questo ha stilato una serie di ordini per controllare i flussi di profughi dalla Siria verso l’Iraq.

    Maliki – e i suoi amici iraniani, l’alleanza è ormai inestricabile – non è l’unico a essere preoccupato. Quel confine costituisce un problema per gli Stati Uniti ormai da quasi un decennio (anche prima, ma a lungo s’è potuto far finta di niente), e ora sta diventando un dramma. Su questi seicento chilometri di frontiera si sommano due instabilità, due fragilità: quelle irachene e quelle siriane. Si vede, su questo confine, il fallimento di due politiche: il ritiro affrettato dall’Iraq e la non-politica per la Siria. Ieri il presidente Barack Obama è intervenuto al Palazzo di vetro con un bel discorso in cui ha ribadito che il regime di Bashar el Assad “deve finire” in modo che possa “iniziare una nuova alba per il popolo siriano”. “Il futuro – ha detto il presidente americano – non appartiene a un dittatore che massacra il suo popolo”. Nella visione di Obama, che è convinto che la voce dei popoli del medio oriente contro le dittature “è stata ascoltata”, c’è una Siria “unita e inclusiva”, in cui tutti possono convivere assieme. Ma le modalità per un regime change a Damasco sono ancora da definire.

    La fragilità irachena è il tema di un libro uscito ieri, ampiamente anticipato dai media americani negli ultimi giorni: s’intitola “The Endgame: The Inside Story of the Struggle for Iraq, from George W. Bush to Barack Obama” ed è stato scritto da un giornalista del New York Times, Michael Gordon, e dal militare in pensione Bernard E. Trainor. Il libro racconta gli ultimi mesi della presenza americana in Iraq, quelli in cui sono stati stabiliti i termini del ritiro. Nel famoso discorso “welcome home” del dicembre del 2011, Obama ha celebrato il raggiungimento di un obiettivo a lui caro: la fine della guerra in Iraq, la guerra non necessaria, la guerra ingiusta. In realtà dietro a quel trionfalismo si nascondeva un fallimento: Obama ha cercato per mesi di far siglare un accordo tra il premier Maliki e Iyad Allawi, leader del blocco politico più rappresentativo dei sunniti: Allawi avrebbe dovuto prendere il posto del curdo Jalal Talabani per la presidenza dell’Iraq. Quell’accordo è fallito, assieme a quello militare: Maliki non ha voluto nemmeno un piccolo contingente americano che si occupasse della formazione delle forze irachene e anche il piano di usare i civili per questo training è stato di molto ridimensionato. Il dato di fatto – che gli autori di “Endgame” dettagliano in modo preciso, con le telefonate, i paper, i meeting: i retroscena della politica americana sono sempre irresistibili – è che la mediazione americana è fallita: Obama ha venduto l’uscita dall’Iraq come un successo, il mantenimento di una promessa, ma si è ritrovato con un paese più instabile, che drena comunque 19 miliardi di dollari in un programma di vendita di armi volto ad assicurarsi l’alleanza con Baghdad (al Congresso molti deputati vogliono tagliare questi fondi, a meno che l’Iraq non dimostri fedeltà), e con un premier, lo sciita Maliki, che assomiglia sempre più a un dittatore.

    In Siria la questione è simile: la mediazione americana è debole. Da un lato, l’Amministrazione Obama non vuole comparire, preferisce che a mostrarsi siano i paesi della regione – è lo stesso modello applicato in Libia, lì eravamo noi europei al comando – e promuove una politica “from behind”. Ci sono gli uomini americani e ci sono i soldi americani, ma la faccia è saudita, turca, qatariota. Il risultato è complesso: i ribelli siriani subiscono le infiltrazioni qaidiste, il regime resiste, e colpisce. E mentre gli Stati Uniti non riescono a impedire che gli aerei iraniani volino nel cielo iracheno per rifornire le forze di Assad, la frontiera irachena è chiusa per i profughi siriani e aperta per le armi e gli uomini di Teheran.
        Twitter @paolapeduzzi

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi