Sallusti e la galera
In galera per un articolo: la Quinta sezione penale della corte di Cassazione ha confermato la condanna senza condizionale a quattordici mesi di carcere per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale che ieri sera, appresa la notizia, ha annunciato ai collaboratori di volersi dimettere e di non voler chiedere misure alternative perché non vuole “essere rieducato sul suo mestiere”. La Procura ha sospeso l’esecuzione (e poi? il problema resta) ma la sostanza non cambia.
Roma. In galera per un articolo: la Quinta sezione penale della corte di Cassazione ha confermato la condanna senza condizionale a quattordici mesi di carcere per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale che ieri sera, appresa la notizia, ha annunciato ai collaboratori di volersi dimettere e di non voler chiedere misure alternative perché non vuole “essere rieducato sul suo mestiere”. La Procura ha sospeso l’esecuzione (e poi? il problema resta) ma la sostanza non cambia: Sallusti, accusato di diffamazione per un articolo sull’aborto di una ragazzina di tredici anni, apparso su Libero nel 2007 (quando Sallusti era direttore responsabile), viene condannato alla pena detentiva nel giorno in cui lo stesso pg di Cassazione Gioacchino Izzo, nella sua requisitoria, pur ritenendo Sallusti responsabile del reato contestatogli, aveva sollecitato l’annullamento della sentenza di condanna al carcere, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, “limitatamente alla mancata valutazione della concessione delle attenuanti generiche”. Del caso si sono interessati (anche ieri) il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il ministro della Giustizia Paola Severino (favorevole a una rapida modifica della legge).
Si era parlato anche di un decreto, e a Sallusti era giunto il supporto trasversale di colleghi e politici (compresi i “nemici” tradizionali dei dibattiti in tv, Antonio Di Pietro e Marco Travaglio). “Non voglio scusarmi per un reato che non ho commesso”, ha ripetuto Sallusti ieri davanti alla sua redazione esterrefatta (il giorno prima aveva anche detto “non voglio chiedere la grazia, anche se non so che cosa possa pensare un uomo sulla porta del carcere”), e c’era chi si rammaricava di non aver insistito con il consiglio già dato nei giorni precedenti: paga quello che chiede il querelante e chiudila lì, dammi retta, vai all’accordo che ti consiglia l’avvocato, tantopiù che l’articolo non hai neanche scritto tu (ma questo non cambia la sostanza della condanna alla galera per un articolo).
Sallusti però aveva già deciso di fare della sua vicenda una questione di principio. Aveva già ripetuto di aver pagato “trentamila euro” al querelante, aveva già espresso dubbi in un editoriale (a proposito delle motivazioni della sentenza di primo grado in cui, dice Sallusti, “il pm si pente: ho sbagliato a non dare a Sallusti anche una pena detentiva, scrive nero su bianco, ma ormai è fatta”). E aveva già detto in tv da Bruno Vespa: condanna senza condizionale? Cioè io sono considerato “socialmente pericoloso”? Ma scherziamo? “Sentenza politica”, aggiungeva ieri mentre la Fnsi definiva “sconvolgente” e figlia “di una legge illiberale” la decisione della Cassazione e mentre i politici e i colleghi di ogni schieramento manifestavano solidarietà. Qualcuno, come Massimo Bordin, pilastro storico di Radio Radicale, invita a considerare il “modello inglese, dove l’editore paga multe salatissime ma il giornalista non va in carcere”. “Apprezzo la coerenza di Sallusti, tipo socratico”, dice Bordin al Foglio, ma si augura che “Napolitano, che ha detto di seguire la vicenda con attenzione, torni sul tema giustizia con la prepotente urgenza di cui parlava”. E Ritanna Armeni dice: “Diffamazione è concetto troppo vago per poter mandare in galera qualcuno. Quanto alla ‘sentenza politica’, direi che questa sentenza è politica nel senso che va incontro al populismo dilagante nel paese, al ‘dovete pagare’ generalizzato”.
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