Hollande, la stella cometa dell'eurosinistra che dopo quattro mesi già cala
La gauche plurielle mostra crepe, la maggioranza dei Verdi decide di non votare il Fiscal compact, Daniel Cohn-Bendit li tratta da coglioni e se ne va sbattendo la porta, i socialisti, che pure hanno la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e potrebbero quindi fare ciò che vogliono, non possono rimetterli al passo perché anche loro hanno in casa una nutrita pattuglia di franchi tiratori. Di fronte a uno scenario così al povero, a Bersani cadrebbero gli ultimi capelli.
Roma. La gauche plurielle mostra crepe, la maggioranza dei Verdi decide di non votare il Fiscal compact, Daniel Cohn-Bendit li tratta da coglioni e se ne va sbattendo la porta, i socialisti, che pure hanno la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e potrebbero quindi fare ciò che vogliono, non possono rimetterli al passo perché anche loro hanno in casa una nutrita pattuglia di franchi tiratori. Di fronte a uno scenario così al povero, a Bersani cadrebbero gli ultimi capelli. Per François Hollande invece è poco più che una lite di condominio. La sacra icona cui i democrat guardano come il salvatore dalla morsa tedesca ha ben altre gatte. Il presidente arranca. Per la prima volta gli scontenti della sua azione sono molto più numerosi di quelli che se ne dicono soddisfatti. Le due curve, di popolarità e d’impopolarità, si sono incrociate, i giudizi positivi sono scesi di undici punti. Precipita, è in caduta libera, è su una brutta china, lo scrivono persino i giornali amici. A quattro mesi dalla sua elezione, fa un tonfo che nei cieli della Quinta Repubblica è secondo soltanto a quello di Jacques Chirac nel 1995: per averne un’idea, alla stessa epoca Nicholas Sarkozy aveva ancora il consenso del 61 per cento dei francesi. Certo sono solo sondaggi: ma qualcosa deve essersi incrinato se persino Angela Merkel ha pensato di rincuorarlo e invitarlo a non tenerne conto: se De Gaulle avesse dato retta ai sondaggi, avrebbe detto la Cancelliera, non ci sarebbero mai state la riconciliazione franco-tedesca e l’Europa. Avanti con audacia, dunque. Ma non è impresa facile.
A forza di sembrare a tutti i costi uomo normale, che non se la tira, che si sposta in treno, ascolta per ore all’Eliseo delegazioni di operai a rischio di posto di lavoro, non è più percepito come capitano solitario, dalle mani salde e sicuro della rotta che ha in mente. Certo non è colpa sua se il cosiddetto stato di grazia non è durato i canonici cento giorni ma lo spazio di un mattino: la crisi scava e sfibra anche un paese che non ha conosciuto l’ansia quotidiana da spread. Ma c’è comunque un peccato originale: Hollande ha fatto campagna denunciando l’inconcludenza del suo predecessore e mettendone l’iperattivisimo, autoritario e frenetico, esclusivamente sul conto di un ego smisurato e di una personalità debordante. Ne ha fatto insomma una questione di psiche, senza capire che c’era anche dell’altro: da quando c’è stata la riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, non si può più governare come prima, quando François Mitterrand dava sempre la solenne sensazione di saper esattamente gestire i suoi sette anni. Cinque anni volano, cambia “le tempo” della politica. E dell’apparire: un capo che deve metterci sempre più spesso la faccia non può permettersi di passare per normale. Deve essere per forza eccezionale, o comunque dare questa impressione, fare le scelte giuste e difenderle. Hollande se n’è reso conto, i suoi collaboratori stanno mettendo a punto una campagna di chiarificazione e riconquista dell’opinione. A condizione che non sia più un punto interrogativo, un enigma e dica chiaramente dove vuole andare.
Venerdì il governo varerà la Finanziaria 2013, primo passo di quello che il presidente ha chiamato lo “sforzo di risanamento più importante degli ultimi trenta anni”. Prevede la riduzione del deficit pubblico, comprensivo di quelli delle collettività locali e della Sécurité sociale, al 3 per cento del pil, come annunciato durante la campagna: l’obiettivo è portarlo a zero a fine mandato, nel 2017. Ma i conti raccontano un’altra storia. Le previsioni di crescita, prudenti, attorno allo 0,8 per cento, sono giudicate invece ottimiste dalla maggioranza degli osservatori, nel migliore dei casi sarà della metà se non addirttura nulla. La spesa pubblica non sarà ridotta in modo significativo, anzi è probabile che aumenterà per le migliaia di assunzioni nella scuola e il ritorno dell’età pensionabile a 60 anni. I 20 miliardi necessari a ridurre il deficit verranno dunque tutti da un aumento della pressione fiscale, una stangata per grandi imprese e redditi alti e medio-alti. La presidente del Medef, la confindustria francese, ne ha “terrore”. I redditi bassi e medio-bassi, più o meno sedici milioni di contribuenti, pagheranno più cari birra, alcolici, tabacco, una sorta di rieducazione a colpi di accise verso consumi a minore rischio sanitario. Hollande, che fu grande demiurgo di congressi socialisti, sembra oggi alla ricerca della sintesi impossibile. Dice sì al trattato di stabilità ma non ne tira le dovute conseguenze per la fiscalità, il mercato del lavoro o il recupero della produttività perduta. Vorrebbe innovare, addirittura impegnare il paese in una lunga e gloriosa transizione ecologica ma con il piano di rientro dal deficit taglia il ramo su cui è seduto. Per i socialdemocratici tedeschi, educati da quel marpione di Gerhard Schröder, che sarà pure finito con Gazprom ma con l’Agenda 2010 impostò le dolorosissime riforme cui si deve la rinascita attuale della Germania, è un po’ un avatar del secolo scorso: che àncora la crescita non agli investimenti ma ai consumi, allo scopo ridistribuisce reddito e finanzia il tutto con il debito. Dal prossimo anno la Francia potrebbe essere il paese che più dovrà ricorrere all’emissione di buoni del Tesoro, più della stessa Spagna. La previsione è dell’editorialista di Libération, quotidiano di sinistra e hollandista, che se la cava in angolo. E cita Einstein: “Non si risolve un problema con i modi di pensare che l’hanno generato”.
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