Ghosn e Marchionne parlano chiaro: l'alternativa è competere o perire
Facciamo un quiz facile facile. Provate a indovinare qual è il manager dell’auto che fa questa diagnosi: “Il mercato europeo è davvero pessimo. E purtroppo non vedo alcun alcun miglioramento per l’anno prossimo. Per ora ce la siamo cavata con interventi congiunturali sugli impianti, e il taglio dei costi. Ma se la congiuntura non migliorerà ci vorranno interventi strutturali. Quali? Il problema è la competitività del paese, un tema che non possiamo risolvere da soli.
Milano. Facciamo un quiz facile facile. Provate a indovinare qual è il manager dell’auto che fa questa diagnosi: “Il mercato europeo è davvero pessimo. E purtroppo non vedo alcun alcun miglioramento per l’anno prossimo. Per ora ce la siamo cavata con interventi congiunturali sugli impianti, e il taglio dei costi. Ma se la congiuntura non migliorerà ci vorranno interventi strutturali. Quali? Il problema è la competitività del paese, un tema che non possiamo risolvere da soli. Certo, quel che ha detto il governo nelle ultime settimane va nella giusta direzione: ma ora ci aspettiamo scelte e un piano d’azione”. Basta così, è già troppo facile: le solite scuse di Sergio Marchionne, quello che non fa gli investimenti e lascia nel cassetto i nuovi modelli. Ahi, ahi, risposta sbagliata. A parlar così , alla vigilia dell’apertura del salone parigino dell’auto che si è aperto ieri, sul Figaro, è stato Carlos Ghosn, numero uno di Renault e Nissan, l’unico manager occidentale (anche se, per la verità, è mezzo libanese, mezzo venezuelano) che si è imposto in Giappone. Stavolta Marchionne, che non lo ama affatto (screzi tra prime donne dell’industria) non si lamenterà del “plagio”. Perché, davanti ai quadri dell’auto Fiat, due giorni fa il manager italo-canadese si era espresso così: “Dobbiamo ripensare il modello di business al quale siamo abituati – ha spiegato l’ad di Fiat – siamo pronti a fare la nostra parte ma non da soli. Dobbiamo renderci conto che, viste le attuali condizioni della domanda di auto e le previsioni degli anni a venire, l’Italia e l’Europa non potranno per noi più essere i soli mercati finali. Perciò occorre iniziare a pianificare azioni per recuperare competitività internazionale”. Dichiarazioni in fotocopia con cui i due boss che nel 2009 Barack Obama chiamò al capezzale dell’auto americana (Ghosn, diviso tra Parigi e Tokyo, rifiutò il bastone del comando in Gm, Marchionne accettò la sfida Chrysler) mettono in evidenza che il vero problema è la crisi di un modello di sviluppo che va sostituito al più presto, con il concorso di tutti. Altrimenti saranno dolori, a partire dall’occupazione. Un allarme che va assai al di là dei problemi di politica sindacale così cari alla sinistra che governa in Francia o che aspira a farlo nel nostro paese. “Sul ritiro di Fabbrica Italia la Fiom non c’entra nulla”, commenta secco Marchionne. E Ghosn, a proposito del piano strategico 2016 dice: “Non lo ritiro. Ma non nascondo che l’ambiente è tutt’altro che favorevole. Non posso impegnarmi a garantire i posti di lavoro a ogni costo se il rinvio o l’assenza di decisioni rischia di mettere in pericolo la storia di Renault”. Una richiesta di nuovi aiuti di stato, com’è tradizione nel paese di Colbert? “Devo ripetermi: oggi il nostro problema più grave è la competitività”. Gli fa eco, una volta arrivato al Salone di Parigi, Marchionne: “Non cerchiamo aiuto né dall’Italia né dall’Europa”. La via della “politica industriale”, se questa consiste nello scambiare nuovi modelli e posti di lavoro in cambio di contributi, non ha alcun senso: “Se si investe senza guadagnare, in tre o quattro anni ti ritrovi coperto di debiti”. L’involontario coro GM (che sta per “Ghosn-Marchionne”) potrebbe durare ancora un bel po’. Anche perché un elemento accomuna la storia della Renault a quella del Lingotto. Solo loro sono riusciti nella temeraria impresa di sposare due industrie dell’auto senza provocare fratture o divorzi prematuri. “Se oggi Renault è in attivo lo si deve in gran parte a Nissan. Anzi, una cosa è sicura: né Nissan né Renault sarebbero sopravvissute da sole”. Marchionne la pensa allo stesso modo a proposito dell’asse tra Fiat e Chrysler. Ma il manager che comanda sia a Torino che a Detroit non fa sconti a nessuno, come dimostra il ricorso al tribunale statunitense per definire il prezzo da versare al sindacato americano per le azioni in mano ai metalmeccanici dell’Uaw. Ghosn, che a Tokyo ha vissuto per anni circondato da guardie armate (l’ufficio era al 13esimo piano, quello di sopra e quello di sotto erano deserti per motivi di sicurezza) non è certo meno rigido. Certo, le due superstar dell’auto hanno strategie ben diverse. Ghosn ha puntato con successo sulle low cost (prodotte in Romania) e cerca di far concorrenza ai tedeschi nell’alta gamma. Ma gli manca l’America e gioca una partita molto rischiosa sull’auto elettrica. Marchionne, invece, pigia sul freno in Europa, rifugiandosi oltre Oceano. E per dir cose simili a Ghosn, numero uno di un’azienda in cui lo stato ha il 15 per cento, subisce un bombardamento da parte di sindacati, partiti e pure dei colleghi industriali.
Ma la musica, al di là di situazioni storiche e ambientali diverse, non cambia: o si recupera competitività oppure l’Europa, afflitta da sovraccapacità produttiva cronica, perderà la partita dell’auto. E non solo quella. Certo, per raggiungere l’obiettivo ci vuole una politica industriale, purché sia distante anni luce da quel mix di aiuti di stato e di investimenti a pioggia degli anni passati. Impossibile? Mentre Marchionne parla al Salone, ieri è spuntato il ministro. Mica Corrado Passera, cui spetta la regia degli interventi pro export, bensì Michael Fallon, neo responsabile inglese del dicastero del Business. E’ qui a galvanizzare la squadra del made in England, l’unica realtà in salute dell’auto europea. Grazie alla flessibilità garantita dai recenti accordi con Gm, Jaguar Land Rover e Nissan, cresce l’occupazione e l’export. Ora si tratta di allargare il miracolo: il piano “Tier One” punta a convincere i fornitori d’auto più importanti a immigrare a nord della Manica, grazie al costo del lavoro conveniente (23 euro l’ora contro i 28 italiani e i 45 francesi) ma ancor di più la disponibilità delle Union a contrattare flessibilità in cambio di posti di lavoro. Musica per i clienti più attenti: le coreane Kia e Hyundai e i prossimi, temibili concorrenti: i cinesi. Insomma, o i vari Passera e Arnaud Montebourg, titolare del dicastero del Riassetto produttivo, si sbrigano. Oppure i nipotini di Maggie Thatcher lasceranno loro il cerino in mano.
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