Maometto e Afrodite

Carlo Panella

Salman Rushdie è stato condannato a morte in odio al principio divino femminile: questa è stata, agli occhi dell’ayatollah Khomeini, la più profonda, insultante e vergognosa colpa dello scrittore indiano, la sua apostasia. Rushdie merita la morte, agli occhi di tanta parte dell’islam, non solo per aver sostenuto – il fatto non l’ha inventato lui – che Maometto avrebbe porto l’orecchio a Satana pronunciando quei “versetti”, ma soprattutto per aver ricordato che il Profeta tentennò, ebbe dei dubbi, sull’espellere o no dal Corano – dalla Rivelazione, dall’islam – il principio femminile divino: le tre figlie di Allah Allat, al Uzza e Manat.

    Salman Rushdie è stato condannato a morte in odio al principio divino femminile: questa è stata, agli occhi dell’ayatollah Khomeini, la più profonda, insultante e vergognosa colpa dello scrittore indiano, la sua apostasia. Rushdie merita la morte, agli occhi di tanta parte dell’islam, non solo per aver sostenuto – il fatto non l’ha inventato lui – che Maometto avrebbe porto l’orecchio a Satana pronunciando quei “versetti”, ma soprattutto per aver ricordato che il Profeta tentennò, ebbe dei dubbi, sull’espellere o no dal Corano – dalla Rivelazione, dall’islam – il principio femminile divino: le tre figlie di Allah Allat, al Uzza e Manat

    E’ ben strano che, a 23 anni di distanza da quella fatwa, nessuno si sia chiesto che cosa mai era detto e scritto in quei “Versetti satanici”. Che nessuno abbia riflettuto sul loro contenuto. Proprio in quei versetti è evidente la radice profonda della visione dell’eterno e del terreno che fa oggi non di Maometto, ma dei maomettani, i più grandi nemici della donna, del femminino, e quindi della libertà umana che soltanto dall’incontro libero tra maschile e femminile può derivare.

    Andiamo al fatto: 120-130 anni dopo la morte del Profeta (632 d.C.). un episodio scabroso della vita di Maometto fu descritto in modo concorde da tre autorevoli storici della sua vita. Muhammad ibn Jarir al Tabari, Omar al Waquidi e Muhammad ibn Ishaq, gli estensori principali e tra i più seguiti della Sirah (Sirah Rasul Allah: storia della vita dell’apostolo di Dio) e degli Hadith (sermoni, detti e sentenze di Maometto, in applicazione del Corano), descrissero questo episodio: Maometto è ancora alla Mecca, quindi prima della Egira, della fuga verso la Medina (622), e crede ancora di potere conquistare alla nuova fede la città sacra al culto politeista. Il profeta, una sera, recita davanti ai suoi pochi seguaci la sura LIII, An Najm (Le stelle), quando una rivelazione divina, trasmessagli dall’arcangelo Gabriele, dopo il 20esimo versetto gli suggerisce queste parole:

    “Che ne pensate voi di Allat e al Uzza e di Manat, il terzo Idolo?”

    “Ecco le gharaniq, la cui intercessione è cosa grata ad Allah”.

    La costernazione dei suoi fedeli è terribile: la triade composta da al Uzza, Allat e Manat, figlie di Allah, era il baricentro e la polarità femminile del politeismo idolatrico che la Rivelazione coranica aveva sin a quel momento negato come empia, in nome della assoluta, totale, inderogabile unicità di Allah, il Tawhid. La forte polarità femminile del politeismo pre-islamico aveva il proprio riferimento proprio nel culto di al Uzza (che secondo alcune tradizioni era la madre di Allat e Manat), che aveva ruolo, attributi e poteri simili a quelli di Afrodite per i greci, Cerere per i romani, Ishtar e Astarte per gli egizi. Ad al Uzza era dedicato un tempio a Petra e nella penisola araba era venerata nella sua rappresentazione di sorgente, circondata da tre acacie, nell’oasi di Nakhla al Shamiyya.
    Ammettere, come ora fa il profeta, che esse erano le “gharaniq” (gru della Numidia, rappresentazione zoomorfa delle figlie di Dio) la cui intercessione è grata ad Allah comporta una drastica, totale, riduzione e relativizzazione della sua onnipotenza assoluta, unica, priva di comprimari, per di più a favore di una mediazione tra Increato e creato, tra Allah e umanità terrena, affidato a una essenza di origine divina tutta al femminile.

    Grande è invece la gioia dei membri della tribù dei Banu Quraysh, maggiorente della città sacra, principali negatori della sua Rivelazione, che proprio dal culto politeistico di al Uzza e delle tre divinità al femminile derivavano potere, denaro, prestigio nella Mecca. L’ipotesi accreditata da molte interpretazioni critiche di questo episodio è che tale pur cauta apertura al femminile nel divino è legata a un tentativo del Profeta, tutto politico, di ottenere la neutralità dei potenti Banu Quraysh nell’aspro conflitto che contrappone in quella fase Maometto a tutti i maggiorenti della Mecca e che lo costringerà poi alla fuga dalla città verso la Medina.

    Ma la mattina seguente, Maometto rassicura i suoi e delude i Banu Quraish: ammette e sostiene che quei versetti gli erano stati sussurrati all’orecchio sinistro, (l’arcangelo Gabriele gli sussurra al destro) e che quindi erano di origine satanica. Si consuma così l’espulsione totale e definitiva del principio divino femminile dal Corano e dalla teologia islamica, concretizzato poi dal taglio delle tre acacie, dall’estirpazione delle loro radici e dall’interramento della sorgente-tempio dedicato ad al Uzza nell’oasi di Nakhla al Shamiyya, ordinata da Maometto una volta rientrato, trionfante, alla Mecca dalla Medina nel 631 d.C.

    Nel Corano, nell’islam, vi è qualcosa di ben diverso di un Dio unico, onnipotente, e ovviamente di polarità maschile. Maometto, nel contrastare l’idolatria va ben oltre la distruzione del “vitello d’oro”, non si ferma alla iconoclastia di tutti gli idòla che materialmente frantuma nel recinto sacro della Mecca, ma consuma una radicale espulsione dalla teologia musulmana del divino femminile.
    Le tre divinità femmine vengono rigettate dal Profeta nel regno della Jaillyyha, il gorgo nero della ignoranza idolatrica, ossessione dell’islam contemporaneo, che la vede riemergere, minacciosa, nella modernità occidentale che lo circonda. Una radiazione che fa sì che il solo evocarle – questa la colpa di Rushdie per Khomeini – fa cadere nel più grave peccato per l’islam, più grave ancora dell’omicidio: l’apostasia.

    La volontà di espungere dal Corano e dalla definizione di Dio qualsiasi elemento che riconduca al femminile della divinità è tanto radicale che Maometto si scaglia, sempre nella sura LIII, in un versetto successivo, il 27, contro l’uso di nomi di donna per alcuni angeli, condannandoli come infedeli, per questa sola “colpa”:

    “Invero quelli che non credono nell’altra vita danno agli angeli nomi femminili.”

    L’islam nasce e si afferma nel nome di una specie di misoginia teologica, sì che in tutto il Corano si parla di un solo personaggio femminile: la Vergine Maria. Maria è l’unica donna chiamata col suo nome in tutto il Corano con un afflato poetico intenso:

    Se il mare fosse inchiostro per scrivere le parole del Signore (su Maria), si esaurirebbe il mare prima che si esauriscano le parole del Signore, anche se portassimo un mare nuovo ancora in aiuto! (Corano, sura XVIII, versetto 109)

    Una sura, la terza, è dedicata a Imran, il padre di Maryam, mentre la XIX è dedicata a lei e decine e decine sono i versetti – 70 complessivamente, 34 quelli in cui è chiamata per nome – che le sono dedicati, quale madre del Cristo, madre vergine, naturalmente, in una prospettiva teologica che a prima vista pare contrastare con quanto abbiamo affermato nelle righe precedenti. Ma non è così.
    Tutta la struttura coranica è tesa a elaborare, costruire e dimostrare la perfetta, assoluta continuità a partire dai profeti Adamo e Abramo, anzi Ibrahim, tra giudaismo, cristianesimo e islamismo. Così come Ibrahim “non è ebreo”, ma è il primo Hanif, il primo credente monoteista musulmano, il Cristo è un profeta, l’ultimo profeta prima di Maometto, la cui santità è moltiplicata per mille da due elementi: il suo concepimento miracoloso a opera di Dio e il fatto che gli ebrei l’hanno ucciso (elemento più volte ripreso, anche veementemente, nella polemica contro gli ebrei della Medina che non accettano la Rivelazione del Corano).

    La miracolistica coranica sfugge a ogni tentazione o valenza di Mito e inconoscibile, è puramente tecnica, è legata a una modificazione dell’ordine dei fenomeni naturali conosciuti dall’uomo. Anche i miracoli attribuiti al Cristo dal Corano hanno questo segno (compresi quelli non presenti nei Vangeli) o la funzione – opposta a quella dei Vangeli – di convincere gli infedeli. Maometto sentiva fortemente il pathos epico della figura della Madonna, ma solo e unicamente perché affascinato dal miracolo compiuto da Dio nel suo ventre, attraverso il concepimento.

    La sua Maria, non è Maria, è Maryam, esattamente come Abramo non è Abramo, ma Ibrahim e Gesù non è Gesù, ma Issa. Nomi simili, episodi simili, ma personaggi radicalmente, totalmente diversi. La Maryam del Corano è solo “ancella del Signore”, una vergine che si piega e si abbandona alla volontà di Dio e a essa abbandona il suo corpo, non senza soffrire e urlare, peraltro, al momento del parto. Non è però Madre, men che meno madre di Dio fattosi uomo, la qual cosa, solo a dirla, “fa spaccare i cieli”, secondo Maometto, tanto è blasfema. Ma è unicamente genitrice. E’ insomma orbata della profondità, del fascino, del turbamento che compenetrano il culto mariano e lo ricollegano a più complesse simbologie: quello di madre che vive sulla sua carne e nella sua anima il travaglio della Passione e della crocifissione del Figlio.

    L’Issa coranico, che di Gesù prende solo il nome, non muore affatto sulla croce (anzi: i cristiani sono veementemente accusati di mendacio perché lo sostengono), non soffre tradimento, processo nel Sinedrio, Calvario e Passione e tantomeno resuscita. Maryam, di conseguenza, nel Corano, non è per nulla né “Mater Dei”, né “Mater dolorosa”.
    Priva della sua pietas di madre partecipe del mistero della Resurrezione, ridotta a ragazza madre sgridata dai parenti, strumento – anche se devotissima – di un disegno divino che la relega al ruolo di un profeta, Maryam si riduce solo a un esempio – poetico, sentito, devoto – di “sottomissione”, di islam appunto. L’opposto esatto della partecipata condivisione del Mistero della vita, che è della Maria cristiana, che è quella Madonna che fa sorgere dal petto di Papa Luciani il grido pacato, fantastico: “Dio è madre”.

    Maryam non agisce, non ama maternamente, non soffre il suo amore per il Figlio. Genera soltanto. Lo stravolgimento della sua figura e del suo mistero fa stupire del fatto che ancora agisca nella chiesa una forte corrente post conciliare che si illude che essa possa essere tramite di un dialogo tra cristiani e musulmani. Ma Maria nulla ha a che fare con Maryam e non solo perché non è madre del Figlio di Dio che è Dio. Ma perché mai è, toto corde, origine del Mistero di madre. Maryam, ovviamente, non è neanche una “gharaniq, la cui intercessione è cosa grata ad Allah”, una messaggera alata tra l’umanità e Dio. Maryam, unica grande figura femminile positiva del Corano è anch’essa appiattita, spogliata del mistero e del mito e della mitologia, all’interno di una teologia e soprattutto una antropologia, rigidamente a due sole dimensioni, descrittiva, solo meccanicamente, fisicamente, veicolo di miracolo.

    Un’altra donna.
    La ferocia della fatwa di morte di Khomeini contro Salman Rushdie non è solo motivata dal ricordo di un Profeta dubbioso e incerto, volutamente provocatorio, ma di piena matrice musulmana. L’episodio esalta sì una contraddizione del Profeta, ma non è per nulla parte di una pubblicistica apostatica o avversa all’islam. E’ invece ripreso e avvalorato proprio da quegli estensori della Sirah i cui Hadith o episodi della vita del Profeta vengono solennemente riconosciuti come veritieri e degni di fede da quasi tutte le università coraniche. L’esistenza di versetti “abroganti” ed “abrogati”, perché contenenti massime e prescrizioni contraddittorie, è unanimemente riconosciuta da tutte le variegate componenti islamiche di studi coranici.

    L’apostasia di cui Rushdie sarebbe colpevole non è solo e tanto l’oltraggio al Profeta dubbioso. Ma è nel merito, eversivo per l’islam contemporaneo, di un Profeta che, facendone non delle divinità, ma delle “messaggere” gradite ad Allah, tentò di recuperare il divino femminile nella teologia islamica. E’ un errore definire la feroce legislazione shariatica imposta da Khomeini in Iran dopo la rivoluzione, come quella che si sta riproponendo in Tunisia, Egitto e Libia, solo come una “vendetta sul corpo delle donne”. Questo astio, questa volontà maschile di costrizione e punizione, questa paura shariatica del corpo della donna da imprigionare con la violenza, per esorcizzarne il mistero, sono reali, ovvie e scontate. Ma non c’è solo questo. Il terrore a fronte della donna, non dell’islam, ma dell’islamismo che oggi trionfa in Iran, Egitto, Libia e altrove, è ben più radicato e profondo di quello – pure ossessivo – nei confronti del corpo delle donne.

    L’isteria khomeinista si scatena a fronte della sola ipotesi che per una sola notte, nella vita del Profeta, Allah, il divino, potesse avere non solo il volto, la potenza onnipotente, la volontà del Dio maschio, ma anche che si potesse fondere con un principio divino femminile, eterno, sovraordinato all’uomo, quanto incomprensibile e da rigettare. Sino a condannare a morte chi soltanto osa evocarne il mistero.