Spento il carisma berlusconiano, morto il partito carismatico

Berlusconi e il crepuscolo delle zucche

Salvatore Merlo

Ricordate cosa disse Berlusconi? “Erano zucche, li ho trasformati in tanti deputati”. Ma adesso che bisogna progettare resistenze e lunghe marce ci vogliono i sergenti e i caporali, le strutture di servizio, un partito. Perciò Berlusconi si sta consumando tra le sue zucche, che ieri sera lo hanno raggiunto a casa, a Palazzo Grazioli: “Presidente, devi dirci se ti candidi o no. Se non ti candidi facciamo le primarie”.

    Ricordate cosa disse Berlusconi? “Erano zucche, li ho trasformati in tanti deputati”. Ma adesso che bisogna progettare resistenze e lunghe marce ci vogliono i sergenti e i caporali, le strutture di servizio, un partito. Perciò Berlusconi si sta consumando tra le sue zucche, che ieri sera lo hanno raggiunto a casa, a Palazzo Grazioli: “Presidente, devi dirci se ti candidi o no. Se non ti candidi facciamo le primarie”. E lui niente, nicchia Berlusconi, si siede sul divano di via del Plebiscito e abbassa lo sguardo, mentre mille mormorii ci dicono che si è scocciato, che per lui il Pdl già non c’è più, che pensa ad altro, ma che pure, da solo, non riesce a riannodare i troppi fili al vento. Alessandra Ghisleri, la sondaggista preferita, invia rilevazioni per e-mail: il partito è al 17,8 nazionale, è poco ma non ancora una Caporetto; in Sicilia invece, dove si vota tra pochissimo, il centrosinistra, con il suo candidato Rosario Crocetta, è sopra il centrodestra di due punti. “Avremmo dovuto fare le primarie, scegliere meglio la classe dirigente. Il partito è carismatico, ma se il carisma si affievolisce che succede? Avremmo…”, dice oggi Guido Crosetto, l’ex sottosegretario alla Difesa, che si agita ma che pure con fatalismo tranquillo aggiunge che “tanto io un lavoro vero ce l’ho”.

    Ignazio La Russa organizza pranzi e alimenta capannelli, accarezza l’idea di quella scissione dal Pdl che ormai non è più una minaccia rivolta contro il Cavaliere, ma un progetto che Berlusconi gli ha praticamente scippato, facendolo suo. E dunque il Cavaliere adesso rivolge la scissione contro gli ex missini, che invece, nell’ingannevole gioco di specchi, ora resistono e proprio non se ne vogliono andare: “A che serve una testimonianza del 2,5 per cento?”, ha urlato a pranzo Altero Matteoli guardando negli occhi La Russa. Ma “quella che per loro oggi è un’opzione domani può diventare una condanna”, dicono da Palazzo Grazioli gli amici di Berlusconi. Mentre Paolo Bonaiuti sembra far capire che, pur nella confusione, qualche idea il “capo” ce l’ha: lo spacchettamento del suo vecchio partito. E dunque via gli ex di An, saranno i fedeli alleati del Pdl rifondato (se vorranno). Maurizio Sacconi, l’ex ministro del Lavoro, si dispera: “Per sottrazioni non si va da nessuna parte, dobbiamo restare uniti” e il vecchio socialista sembra pronto a gettare una rete, una scialuppa di salvataggio, pur di trattenere quegli uomini che furono finiani e che pure lui considera lontani anni luce dal suo modo di vedere le cose e la politica. Poi dice: “Come non capire che Monti al Quirinale è la migliore garanzia per un governo Bersani. Qua i giochi si fanno senza di noi. Siamo già fuori dal bipolarismo”.

    Un vecchio adagio della politica recita così: quando sei nei guai meglio restare fermi, e difatti il Cavaliere è praticamente immobile, mentre nel Pdl è tutta un’agitazione: riunioni pubbliche e riunioni segrete, in trattoria, negli alberghi di via Veneto, e nella sede del partito ormai abbandonata ad Alfano: ancora litigi sul Lazio tra i padroncini in rotta, strana geografia politica per alberghi e ristoranti, luoghi ameni dove, tra facezie e consumazioni, nelle fazioni ravvivano la voglia di mordere, di graffiare, di colpire. Adesso però a che serve? “Ci sono grandi riunioni in corso, ma siamo come ‘color che son sospesi’. Come sempre decide Berlusconi e in queste riunioni non mi sembra che ci sia lui”, dice Daniela Santanchè. E subito si accalora: “Dobbiamo fare pulizia, adesso”, e la pasionaria del berlusconismo vorrebbe armarsi di scopa e paletta. “Ma come si fa a non candidare gente importante nel partito?” è il tormento del segretario Alfano; come si fa a tenere fuori Cosentino, Scajola e Dell’Utri? Berlusconi che dice? “Il capo non è morto, ma cambia continuamente testamento”, scherza Andrea Augello, l’ex sottosegretario ama i motti di spirito, ma tra le pieghe della battuta si rivela un’analisi crepuscolare: è finito il carnevale della politica, nessuno crede più alla festa liberale, fatta di canzoni, palcoscenici e detassazione; anche il partito-azienda ha i conti in rosso ora che la poesia ha ceduto il posto alla prosa.

    A Lecco, un tale Antonio Piazza, dirigente locale del Pdl, per una questione di parcheggio, avendo anche torto, ha bucato i pneumatici dell’auto di un disabile. “Mio figlio oggi mi ha detto: papà, ma in che cazzo di partito sei finito?”, racconta Giancarlo Lehner, socialista ancora craxiano. “Gli ho risposto così: Sono finito in un partito, dove la Minetti ha preso per il naso Alfano; dove Fiorito non è stato cacciato ma si è autosospeso; dove il succitato Piazza, in luogo d’essere preso a pedate, è stato sollecitato a dimettersi”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.