Dopo le cannonate di Assad

Erdogan non vuole la guerra contro la Siria (ma contro i curdi sì)

Matteo Matzuzzi

Ecco, Ankara raggiunge il punto di ebollizione contro Damasco dopo l’attacco siriano che mercoledì pomeriggio ha causato la morte di cinque civili nel villaggio turco di Akcakale – vittime, una madre con i suoi tre bambini e un’altra donna. Per gran parte della giornata di ieri, i colpi d’artiglieria dell’esercito turco hanno colpito le postazioni siriane oltreconfine, mentre ad Ankara il Parlamento autorizzava  il governo a intraprendere “ogni tipo di azione militare” in terra straniera per proteggere la sovranità nazionale.

    Roma. Ecco, Ankara raggiunge il punto di ebollizione contro Damasco dopo l’attacco siriano che mercoledì pomeriggio ha causato la morte di cinque civili nel villaggio turco di Akcakale – vittime, una madre con i suoi tre bambini e un’altra donna. Per gran parte della giornata di ieri, i colpi d’artiglieria dell’esercito turco hanno colpito le postazioni siriane oltreconfine, mentre ad Ankara il Parlamento autorizzava  il governo a intraprendere “ogni tipo di azione militare” in terra straniera per proteggere la sovranità nazionale. Il provvedimento voluto dal premier Recep Tayyip Erdogan era stato originariamente concepito come uno strumento per dare copertura politica e legale ai raid contro le basi curde nell’Iraq del nord, il vero incubo della leadership turca. Nella notte, però, il testo della mozione è stato rivisto, limato e aggiornato: per la prima volta, si dice espressamente che le truppe di Damasco rappresentano “una grave minaccia” alla sicurezza della Turchia. Erdogan l’aveva detto, durante l’estate: la pazienza di Ankara ha un limite, e prima o poi alle provocazioni siriane sarebbe seguita una risposta chiara, nonostante anni spesi a tessere con orgoglio le lodi della dottrina “nessun problema con i vicini” coniata dal ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu.  Da Ankara fanno sapere di non volere “iniziare una guerra”, ma assicurano che risponderanno sempre e con determinazione a ogni minaccia. Non sono ammesse voci dissenzienti:  la trentina di manifestanti che ha tentato di raggiungere il Parlamento intonando cori a sostegno “dei fratelli siriani” è stata dispersa con i gas lacrimogeni.

    Dopo aver chiesto e ottenuto una riunione d’urgenza del Consiglio nordatlantico della Nato mercoledì notte – che ha emesso un comunicato di solidarietà alla Turchia e intimato alla Siria di porre fine alle “violazioni del diritto internazionale” –, il premier Erdogan ha chiamato in causa anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu. La bozza di una risoluzione di condanna all’attacco siriano era pronta, ma la Russia ha bloccato tutto, ancora una volta. A ogni modo, la risposta turca all’attacco di mercoledì non è estemporanea, ma calcolata e annunciata.

    Da mesi la tensione tra i due vicini, un tempo stretti alleati, era palese e sempre più forte. Solo quattro anni fa, Erdogan – grazie alla sua forte amicizia con Bashar el Assad – faceva la spola tra Gerusalemme e Damasco cercando di mettere d’accordo l’allora premier israeliano Ehud Olmert e il rais siriano. Oggi, il leader turco scopre che, secondo alcuni documenti di intelligence di cui è entrata in possesso l’emittente satellitare al Arabiya, quanto raccontato sulla fine dei due piloti turchi a bordo del jet abbattuto da parte di un missile siriano il 22 giugno scorso non corrispondere alla verità. I due piloti sarebbero stati infatti recuperati dalle forze di Damasco ancora in vita, e solo in un secondo tempo sarebbero stati uccisi “su suggerimento dei russi”.

    Ma è la questione curda a rappresentare la causa principale del progressivo e sempre più profondo deterioramento dei rapporti turco-siriani. Alla fine di luglio, Damasco ha affidato alla minoranza curda l’amministrazione dell’area nord-orientale del paese, che di fatto si è trasformata nella seconda enclave autonoma dopo quella irachena. A prendere il controllo delle strategiche città poste lungo i 910 chilometri di confine sono stati gruppi legati al Partito dell’unione democratica, direttamente affiliato al Pkk, da anni in guerra con Ankara. Erdogan reagiva prontamente, minacciando interventi diretti in territorio siriano per colpire le basi curde: “E’ un nostro diritto”, diceva, aggiungendo che “nessuno deve provocarci, nessuno deve poterci minacciare”. L’accusa esplicita che la Turchia muove ad Assad è di sostenere il Pkk. Per questo, sostengono ad Ankara, gli attentati contro obiettivi turchi si sarebbero intensificati negli ultimi mesi dopo un decennio di relativa calma. “Noi siamo in guerra con la Siria e i suoi alleati regionali”, diceva profeticamente ad agosto  Suat Kiniklioglu, consigliere di politica estera del governo Erdogan: “Quello che sta accadendo non è altro che il tentativo di Assad di portare la guerra oltre i confini del suo paese. Dobbiamo prepararci”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.