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Erdogan non casca nella trappola di Assad
Nella notte il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha condannato la Siria per la strage di mercoledì scorso nel villaggio di Akcakale (qui la mappa della zona di frontiera dove sono avvenuti gli scontri). Dopo una lunga trattativa al Palazzo di vetro, anche la Russia ha deciso di non dare il via libera al documento, ottenendo un leggero ammorbidimento dei toni contenuti nella dichiarazione.
Leggi Erdogan non vuole la guerra contro la Siria (ma contro i curdi sì)
Nella notte il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha condannato la Siria per la strage di mercoledì scorso nel villaggio di Akcakale (qui la mappa della zona di frontiera dove sono avvenuti gli scontri). Dopo una lunga trattativa al Palazzo di vetro, anche la Russia ha deciso di non dare il via libera al documento, ottenendo un leggero ammorbidimento dei toni contenuti nella dichiarazione. Il Consiglio di sicurezza chiede che “violazioni di questo tipo del diritto internazionale cessino immediatamente e non si ripetano più”.
La richiesta di intervento dell’Onu era giunta nella mattinata di ieri dal premier turco Recep Tayyip Erdogan, che nel frattempo aveva ottenuto il via libera dal Parlamento di Ankara per intervenire militarmente all’estero per ragioni di sicurezza nazionale. “Non vogliamo la guerra”, ha dichiarato Erdogan, aggiungendo però che “nessuno deve sfidare la nostra determinazione”.
Mehmet Ali Birand, commentatore per il giornale turco Hurriyet, scrive oggi che Erdogan non ha alcuna intenzione di entrare in guerra. La strategia di Ankara, infatti, è di continuare a lavorare per la caduta di Bashar el Assad finanziando e armando i ribelli. Attaccare la Siria con una dichiarazione di guerra significherebbe allargare la crisi a tutto il medio e vicino oriente. Se la Turchia attacca per prima un paese confinante, è la decennale dottrina neottomana del “zero problemi con i vicini” coniata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu a essere smentita e considerata fallimentare.
Un segnale della crescente instabilità della regione lo si è avuto ieri in Giordania, dove il re Abdullah II – alla vigilia di un annunciato venerdì di protesta in tutto il paese – ha deciso di sciogliere il Parlamento indicendo nuove elezioni. In due anni, il re giordano ha già avvicendato quattro primi ministri.
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