Fatima senza testa

Daniele Raineri

Si arriva al villaggio di Kfar Awayed al tramonto, dopo una giornata di strade secondarie percorse a bordo di un pickup dei ribelli siriani. La scorta che viaggia sul cassone salta giù per sgranchirsi le gambe intorpidite, senza mollare i fucili. Come dicono gli stemmi verdenero verniciati sulle fiancate e sul cofano, appartengono alla brigata al Farouq, che combatte più a nord, a Idlib, e più a sud, a Homs, ma non sono di questa zona. Hanno dovuto chiedere indicazioni, hanno pure sbagliato un paio di incroci e sono dovuti tornare indietro.

Attenzione: le immagini contenute in questo reportage potrebbero urtare la vostra sensibilità

    Attenzione, l'immagine usata per illustrare questo reportage potrebbe urtare la sensibilità di chi legge. Clicca qui per vederla

    Si arriva al villaggio di Kfar Awayed al tramonto, dopo una giornata di strade secondarie percorse a bordo di un pickup dei ribelli siriani. La scorta che viaggia sul cassone salta giù per sgranchirsi le gambe intorpidite, senza mollare i fucili. Come dicono gli stemmi verdenero verniciati sulle fiancate e sul cofano, appartengono alla brigata al Farouq, che combatte più a nord, a Idlib, e più a sud, a Homs, ma non sono di questa zona. Hanno dovuto chiedere indicazioni, hanno pure sbagliato un paio di incroci e sono dovuti tornare indietro. Tutta una pista tortuosa che evita i posti di blocco dell’esercito, o almeno dove si crede che siano in queste ore, e che ha fatto filare il pickup radente alla linea del fronte, alle sue rientranze e alle sue sacche, senza farcelo finire dentro. Soltanto i rumori, due botti secchi d’artiglieria, altri spari più leggeri. Ed ecco dal nulla si materializzano altri ribelli, senz’armi, che chiedono il motivo della visita e subito arrivano anche bambini, che saltano fuori dappertutto, a ogni sosta e a ogni foto. Non c’è più luce, le formalità si sbrigano alla luce di una torcia elettrica tenuta coperta con una mano: un’occhiata al passaporto, la spiegazione. Cerchiamo la famiglia di questa immagine. Certo, la conoscono. Sì, se ci teniamo possono mostrarci dov’è la casa. Intanto però perché non ci togliamo dalla strada e non venite da noi (e magari rispondete a un paio di domande)?

    ***

    La fotografia è stata scattata il 16 settembre nelle prime ore del pomeriggio [Attenzione, l'immagine usata per illustrare questo reportage potrebbe urtare la sensibilità di chi legge. Clicca qui per vederla]. Alcuni elicotteri del governo hanno sorvolato questo villaggio e hanno sganciato una bomba in mezzo al gruppo più fitto di case. L’esplosione ha raso al suolo un edificio basso dove si cuoce e si vende il pane e ha devastato quello che c’era intorno. Il motivo della presenza qui: una scheggia della bomba ha tagliato di netto la testa di una bambina che stava giocando su alcuni gradini a meno di trenta metri di distanza. E’ un’anomalia della balistica. Succedono, quando si bombarda abbastanza a lungo. Il corpicino di Fatima, è questo il nome della bambina, è stato raccolto e portato alla famiglia, dove qualcuno ha scattato l’immagine. Messa su Internet, nei giorni successivi ha fatto il giro dei siti che si occupano della rivoluzione siriana, che dopo diciotto mesi e ventisettemila morti non è più soltanto rivoluzione ma è anche guerra civile e film dell’orrore. Il governo di Damasco nega e sostiene che si tratta di una rozza operazione di propaganda inscenata dai terroristi. “Non è una vera bambina. E’ soltanto una montatura fatta con una bambola”.

    ***

    Ogni conflitto ha la sua foto, l’icona che resterà. C’è il bambino ebreo che alza le mani davanti alle SS naziste. C’è la bambina vietnamita che scappa nuda dal napalm americano. Questa presa a Kfar Awayed non ha un destino da icona, per ora. Non è arrivata ai grandi media internazionali, o è arrivata ma non c’è il coraggio di pubblicarla. E’ troppo cruda, anche per gli standard del materiale che arriva dalla Siria. Non ha un suo destino anche se fissa in un secondo che cosa è la violenza senza senso del random shelling siriano, del bombardamento a caso sulle aree civili ordinato per punire una regione su cui le truppe di terra stanno inesorabilmente perdendo il controllo.

    ***

    Digressione sulla caduta casuale di bombe e colpi di artiglieria sopra il nord della Siria. Certe volte appare che non siano nemmeno così casuali, ma intenzionali. Ad Aleppo, città assediata che sente i morsi della scarsità di cibo, acqua e benzina, gli elicotteri e gli aerei hanno colpito già dieci forni-panetterie come quello raso al suolo qui a Kfar Awayed. E’ la guerra di Damasco all’hobs, a quel pane sottile sottile che strappato a pezzettini e stretto tra il pollice, l’indice e il medio fa da companatico e da pinza per attingere al piatto comune e trasforma un piatto di pomodori, oppure di olive, o di yoghurt, in un pasto completo. E’ la guerra al nutrimento che sazia e fa marciare da secoli il motore degli arabi. Si mangia un po’ di hobs e questo. Oppure un po’ di hobs e quest’altro. Questi colpi deliberati non valgono soltanto per il pane, valgono anche per il segnale dei telefoni satellitari. Dove il segnale di un satellitare punta verso il cielo l’esercito siriano sa che sotto c’è un giornalista che sta spedendo foto, video o articoli fuori dalla Siria alla redazione, e punta i cannoni e spara. I ribelli sono molto chiari sul punto: non si usa il satellitare fino a quando si è ancora a portata di tiro.

    ***

    File di scarpe lasciate fuori. La base locale è nelle fondamenta di un ex edificio governativo spoglio e dentro le armi ci sono, eccome, assieme a decine di uomini. I ribelli chiamano il regime “il Sistema”. I carri del Sistema. Gli aerei del Sistema. “Attenzione, i soldati del Sistema!”. Entra un cecchino scalzo con un fucile di precisione Dragunov sovietico preso ai soldati di Assad. “Gli ufficiali del Sistema ci vendono le armi e le munizioni, lo fanno per i soldi, perché ne hanno bisogno per scappare, o anche perché vogliono tenere i piedi in due scarpe, fanno la faccia leale con il regime e con noi si preparano al dopo, potranno sempre dire di essere quelli che ci aiutavano”. A proposito dei rifornimenti: appeso a un muro c’è uno Steyr Aug, è un fucile d’assalto di produzione austriaca, relativamente nuovo e moderno in confronto al solito arsenale di produzione Urss. Spicca dentro la stanza. Per quello che vale notare, è in dotazione anche alle Forze armate del Qatar, il minuscolo e ricchissimo emirato accusato da Damasco di aiutare i ribelli. “Questo ci è arrivato con il numero di matricola abraso e nemmeno noi ne sappiamo l’origine esatta. Quello che sappiamo è che il suo calibro è 5,56 millimetri, noi usiamo il 7,62. Bell’aiuto davvero. Abbiamo già abbastanza problemi a procurarci le nostre munizioni, questa per noi è un’arma inutile”.

    ***
    Capiscono che è potente, ma sono quasi offesi che spicchi sul resto dell’orrore quotidiano. Il Sistema nega persino che sia autentica e allora sì, si convincono che valga la pena dimostrare che la piccola Fatima di due anni e mezzo è esistita davvero e che in foto non c’è una bambola. E però qualcosa non gli torna, e si tormentano: “E dopo cosa succederà? Assolutamente nulla. La foto è vera e il regime ha detto un’altra balla, ma in Italia non cambierà assolutamente nulla. Non ci avete aiutato in tutto questo tempo, perché la situazione dovrebbe cambiare ora? Perché siete qui soltanto adesso, così tardi?”.

    ***

    Si sale di nuovo sul pickup, la casa è vicina, ci sono la madre di Fatima, Amal, ha 19 anni, e il padre, Ahmad Abu Mohammed, che ha 24 anni e fa il contadino. Lui ha pudore, sta zitto sul tappeto accanto alla moglie, non sa che dire, è venuta gente da fuori per ascoltare questa storia e c’è la domanda inespressa nell’aria: “Perché una morte è più speciale di altre?”. Lei invece mostra le foto di Fatima viva. Racconta dello spostamento d’aria causato dalla bomba, del rumore dello scoppio. Alza la voce. “Perché il governo ha scelto mia figlia come bersaglio? Perché era considerata un nemico da uccidere? Siamo tutti siriani, perché ci bombarda? Perché sta facendo questo?”. Durante l’intervista la luce va via. La bomba che ha ucciso Fatima è esplosa relativamente lontana, a duecento metri, ma nella stanza del tappeto c’è il segno di un’altra esplosione, un pezzo di muro è sbreccato, manca il vetro. Si esce, si va a vedere quello che resta della panetteria. Non molto, cumuli di calcestruzzo, le rovine tutte identiche. Davanti ci sono i gradini dove sono volate le schegge, sono arrivate così forti che hanno tagliato anche il muro accanto e sono entrate dentro l’edificio, il padre indica i fori, mette il dito dentro, prova ultima per gli increduli.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)