La Roma al gradone zero

Alessandro Giuli

Il problema dell’A. S. Roma è che ha scelto Platone per la panchina ma gli ha messo in rosa troppe stelle senza cielo, e lo ha precipitato in un sistema solare irrancidito dalla consuetudine della peggio negligenza capitolina. Zeman è il più eccelso filosofo pallonaro, il suo modulo una metafisica perfetta, un’idealità tersa nelle mani del tacito demiurgo. Ma a Roma il calcio è sopra tutto sangue e merda e, al momento, si vede troppa merda e poco sangue dentro il campo da gioco.

    Il problema dell’A. S. Roma è che ha scelto Platone per la panchina ma gli ha messo in rosa troppe stelle senza cielo, e lo ha precipitato in un sistema solare irrancidito dalla consuetudine della peggio negligenza capitolina. Zeman è il più eccelso filosofo pallonaro, il suo modulo una metafisica perfetta, un’idealità tersa nelle mani del tacito demiurgo. Ma a Roma il calcio è sopra tutto sangue e merda e, al momento, si vede troppa merda e poco sangue dentro il campo da gioco. I terribili gradoni, in questo folle momento di sconforto curvaiolo e nello spogliatoio, c’entrano fino a un certo punto.
    Proviamo a ricapitolare: nel cuore dell’estate scorsa la Roma di Zdenek Zeman è stata gettata sul palco della serie A come la sfidante numero uno della Juventus. Squadra di pischelli fuoriclasse in erba (Pjanic e Lamela su tutti); vecchia guardia romana solida e nemmeno troppo agée (capitan Totti, capitan futuro De Rossi, il fanciullo Florenzi); proprietà americana sufficientemente liquida per tranquillizzare i colleghi di Unicredit e avulsa quanto basta dal mondo del calcio per lasciar lavorare in pace il dg Franco Baldini e il ds Walter Sabatini. Il risultato di tanto entusiasmo è che, a poche ore da Roma-Atalanta, dopo la mortificazione di settimana scorsa contro la Juve, si dice che i dirigenti abbiano chiesto ai ragazzi di vincere per guadagnare due settimane di tregua dalle contestazioni (c’è il turno di riposo in arrivo). Noi sappiamo per certo che non è vero, ma i gol subiti e le figuracce rimediate e sopra tutto le promesse disattese parlano in silenzio. Eravamo sicuri che, travolta l’Inter, avrebbero esagerato nella monumentalizzazione del boemo; eravamo sicuri che, travolto dai gobbi a Torino, Zeman l’avrebbero coperto di sputi e pernacchie; e siamo sicuri che nel mezzo di questa dismisura non c’è alcuna verità disposta a consolare il tifoso.

    Una delle possibili spiegazioni è che i pischelli sono acerbi, inadatti alle asperità comunicative zemaniane, al suo cerebralismo visionario, alla sua leggendaria severità in allenamento. Catone maggiore diceva che ogni uomo è come un ferro agricolo che può essere abbandonato alla ruggine o consumato nella virtù del lavoro. Zeman non dice niente, usa i gradoni: tutti, giovani e vecchi, su e giù e giù e su per interminabili minuti a cementare muscoli maledicendo l’universo. I mezzi d’informazione ne hanno tratto un topos divertente, inquadrando gli sbuffi coscienziosi di Totti messo lì a dare l’esempio agli ultimi arrivati. Ma può essere questa, può essere la durezza anaffettiva della preparazione zemaniana (sedute raddoppiate rispetto allo scorso anno) un argomento per legittimare scontenti e ammutinamenti immaginari? Non scherziamo. Anni fa c’è capitato in sorte di vedere come Carletto Mazzone allenava il suo Pescara durante un ritiro estivo in Abruzzo: quando voleva mostrarsi tenero obbligava i suoi calciatori a scalare e riscalare una montagna di sabbia strillando come un ossesso: “Taccolaaa… mòvi quer culoneee!”. Se tra i diciassette e i trentacinque anni quel culone non lo muovi come dicono Mazzone e Zeman, devi mollare lo sport e sederti dietro uno sportello. Urgono dunque altre spiegazioni.

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    Dice qualcuno: è la vecchia guardia che si rivolta, non l’hai sentito De Rossi in conferenza stampa scandire livido che lui è rimasto a Roma per vincere e invece con questa squadra non si arriva nemmeno fra le prime tre? Dice qualcun altro: Totti è troppo vecchio e capriccioso e Florenzi troppo giovane e immaturo. Troppo troppo troppo: è l’avverbio totemico che meglio definisce la bipolarità di questa squadra lunatica. Troppo lunatica. Di Florenzi, a parte il discutibile taglio di capelli e l’indubbia propensione all’inserimento offensivo, si sa ancora poco. Totti è Totti anche quando lo prenderesti a sberle: eroe mediatico e delizia calcistica, fenomeno mondano e campione della romanità casereccia, con tratti di guappismo spagnoleggiante. Eppure resta indispensabile come i capi dell’epos omerico – si parva licet – che se li ferisci in battaglia poi gli altri scappano tutti. Non ci siamo mai nascosti che, con la maturazione del migliore attaccante nella storia giallorossa, stava prendendo corpo anche un prodotto del Maurizio Costanzo Show (come Sgarbi e Platinette), un calciatore-spettacolo, esemplare riuscito per un format televisivo, tatuato al punto giusto, tanto pigro e grezzo nell’eloquio da corrispondere perfettamente allo stereotipo del romanaccio visto dalle brume del nord, tanto forte quanto furbo e autoironico (coraggioso purtroppo no), incline al conformismo umanitario e sentimentale tipico della Roma veltroniana; insomma: il marito di Ilary Blasi. Eppure buttalo via, Totti, anche adesso che ha trentasei anni suonati, con quei piedi e quel sesto-settimo-ottavo senso per le geometrie non euclidee che portano la palla in rete. La questione semmai è come lasciargli la primazia nello spogliatoio (e alla bisogna basterebbe una smorfia di Zeman, che lo adora) senza per questo farne un cattivo esempio, senza snaturare la cultura del lavoro duro e ripetitivo che i suoi colleghi minorenni (o poco più) devono ancora imparare. Il doloretto muscolare di Totti vale un allenamento differenziato, è chiaro; ma per uno come Zeman nemmeno lo stato comatoso di un ragazzino con una gamba sola-la gobba-e-un occhio di vetro, una volta indossata la maglia, può essere una buona ragione per non schierarlo fra gli altri pretendendo il massimo. E con questo siamo in pieno caso De Rossi.

    De Rossi è capitan futuro, ma a volte di futuro si muore pure. Lui è il dopo Totti e in una qualche misura anche il suo alter ego barbuto e scarmigliato. Totti sta a De Rossi come il Marchese del Grillo a Gasperino il carbonaro: due maschere (una ilare l’altra tragica) indossate alternativamente dallo stesso suddito del papa re, il calciatore-bandiera. Oltretutto De Rossi soffre fisicamente, ha una pubalgia che dura da almeno un anno ma nel vocabolario di Zeman non esiste per lui l’espressione “lavoro differenziato”. Baldini e gli altri ci hanno provato a farglielo capire, lui niente: una boccata di fumo e un “non c’è bisogno”. Forzare le convinzioni del tecnico boemo significa perderselo senza appello. Allora De Rossi stringe i denti e continua a non scansarsi mai dal contrasto con l’avversario, sputa sangue e scruta il cielo con gli occhi arrossati illanguiditi dal senso dell’ingiustizia: “Io sono perfetto per lui, per il suo gioco, ma lui mai una parola, ne ha solo per Francesco”. De Rossi è anche depresso. Mentre quel paraculo di Totti si fa coccolare da Zeman, civetta con Rosella Sensi, pubblica guide tamarre di Roma (dopo i libri con le barzellette) e irride l’invasore americano che s’è comprato l’A. S. Roma come se fosse la Fontana di Trevi.

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    Giusto, ma gli americani che dicono? Un grande equivoco germinato ai margini di Trigoria è che ci sia bisogno di un presidente decisionista a stelle e strisce. Franco Sensi non c’è più, come Dino Viola e come i predecessori. Non sentiremo più un ruspante marchigiano maledire la “ciavattata de uno” mentre riepiloga un derby di ritorno pareggiato in extremis per via di un tiro da fuori dell’avversario (era il laziale Castroman, nell’anno dell’ultimo Scudetto).
    Noi gli americani non li volevamo nel 1943, figurati adesso. Però li avete fatti arrivare, gli avete fatto mettere domicilio e li avete fatti comandare. Ora che si sono anche impadroniti della società, di che vi lamentate? Ringraziate anzi che sono analfabeti di calcio, che si fidano di Unicredit – la banca ha saputo imporre la composizione della dirigenza, vincolandola alla riuscita della trattativa per l’acquisizione che si è conclusa nell’agosto scorso: caso unico di venditore che sceglie la squadra dell’acquirente – e che lasciano ai competenti le decisioni più delicate. Solo immaginarsi James Pallotta e Thomas Di Benedetto alle prese con la campagna acquisti è un esercizio di autolesionismo gratuito dall’esito prevedibilmente fatale. Quando si tratterà di ricapitalizzare, lo faranno. Attenzione però: gli statunitensi non sono venuti a Roma per farsi soltanto belli, un giorno o l’altro vorranno pure guadagnarci. E per guadagnare, nel calcio, si deve vincere (oppure costruire uno stadio nuovo, ora Pallotta è nella Capitale appunto per questo). La Roma è invece terribilmente sazia di non vittorie, compiaciuta nella sua perpetua incompiutezza, incantata dal suo sottofondo lagnoso (gli arbitri corrotti, Moggi, la sudditanza psicologica, il buco nell’ozono, il riscaldamento globale) utile a nascondere un’accidia ormai secolare che si è sclerotizzata nell’abitudine di trascorrere metà del tempo a tifare contro la Lazio (e questo sta bene) e l’altra metà a lamentarsi delle proprie sconfitte. Guai a sfidare le abitudini, a Roma.

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    Dopodiché c’è il contesto. E qui tornano utili le parole pronunciate a suo tempo da Fabio Capello, l’allenatore del terzo scudetto poi migrato alla Juventus (Baldini lo avrebbe poi raggiunto al Real) fra accuse di badoglismi e rimpianti acutissimi. Diceva Capello che a Trigoria bisogna entrare ogni mattina con un kalashnikov a tracolla, e la sera non bisogna mai andarsene senza aver prima sparato ogni pallottola del caricatore. E Capello non era uno spirito remissivo, si narra anzi che avesse una predilezione per il lancio degli armadietti in dotazione allo spogliatoio dei calciatori. Sotto la voce Trigoria non si deve rubricare soltanto il centro di allenamento dell’A. S. Roma. Trigoria è dappertutto: nello stadio, nella ragnatela delle radio giallorosse, nel demi monde delle tivù private monotematiche che si fanno asilo di antiche glorie appassite e di giovani avanzi della periferia in cerca di una cravatta e di un microfono. Trigoria è anche nella mollezza notturna che prima o poi avviluppa sempre i giocatori delle squadre romane, li vezzeggia svuotandoli e li restituisce nevrotizzati e spenti: indimenticabili le serate discotecare di Caniggia fra polveri e champagnini, straziante il ricordo di Renato Portaluppi disperso fra vinerie e transessuali brasiliani, riacciuffato una volta all’alba sulla spiaggia di Fregene, avvoltolato mezzo nudo nell’accappatoio, stordito definitivamente dalla nostalgia del Carnevale di Rio (anche detta saudade). Baldini e i suoi collaboratori hanno tentato con cangiante fortuna di affamare la bestia. Si erano convinti che il Corriere dello Sport volesse scegliere gli allenatori della Roma, e gli hanno strappato dalle pagine il pezzo settimanale di Totti. Hanno stracciato qualche contratto pubblicitario che ingrassava questa o quella emittente radiofonica troppo querula in fatto di romanismo militante, hanno dichiarato guerra ai tanti Richelieu alla vaccinara di cui si contornano i reucci di Trigoria. La controparte di tale improntitudine è l’impopolarità radioguidata, corredata dalle allusioni più lancinanti: Baldini è un massone, se ne sta andando via, lo farà alla chetichella come ai tempi di Capello. Lui ha negato con una violenza estenuata, “volete destabilizzarci”, si ostina a rifiutare la scorta armata e continua a ripetere: questo non è un centro ricreativo, è una società costruita per vincere. E ai giocatori? Ai giocatori che si lamentano per il troppo lavoro, alle primedonne, alle puttane in disarmo e ai loro figliocci, ricorda la quantità di sòle che hanno pascolato sui campi di Trigoria per poi smarrirsi negli almanacchi del calcio. E infine urla: dovete capire che qualsiasi cosa facciate, la fate per la Roma e non per voi stessi; che sia una cazzata a cielo aperto o un gol da centrocampo. Se domani Baldini se ne andasse, Badoglio o no, avrebbe comunque detto il vero. La disabitudine alla vittoria non giustifica l’assenza di professionalità e di attaccamento ai colori. E se uno la ferocia e la rabbia non ce l’ha, è indispensabile che impari a darsele. Nei tempi grigi (le stagioni di Vujadin Boskov, Carlo Mazzone, Carlos Bianchi), a tenere in piedi la squadra c’erano almeno i romani de Roma o i suoi provinciali Giuseppe Giannini, Stefano Desideri, Massimiliano Cappioli. Qualità senza quantità o viceversa, ma l’anima c’era e galvanizzava gli altri italici. Oggi Totti-De Rossi-Florenzi sono l’Italia (e Roma) che gioca nella Roma, gli altri sono barbari, spesso parlano meglio l’italiano, ma non si fanno galvanizzare.

    A memoria: il primo dopo-Zeman ha innescato lo stallo e l’avvitamento in panchina: Cesare Prandelli se n’è andato prima di arrivare (dramma famigliare, certo, ma pure istinto di autoconservazione), Rudy Voeller è fuggito dopo un mese, poco più è durato Luigi Delneri. Poi Bruno Conti e infine Luciano Spalletti, che almeno lo Scudetto l’ha intravisto da vicino, solo intravisto. Quindi Claudio Ranieri e Vincenzo Montella e infine, con Luis Enrique, gli americani hanno stabilito di non ammazzare più di un allenatore all’anno. Costi quel che costi. Zeman dovrebbe sentirsi un po’ tranquillizzato. Ma chissà. La genealogia dei fallimenti panchinari giallorossi meriterebbe ben altro cantore e ben altri strumenti ermeneutici. Meglio chiuderla qui, perciò.

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    La Roma sarà pure costruita per vincere, prima o poi, ma ogni conquista non sarà che un episodio, una cometa transitoria in un buio durato qualche decennio, fino a che non verrà ripristinato il rispetto per un nome e una storia (come sa bene la Juve) che travalicano il dato sportivo, i ludi circensi e i lupanari della Suburra. Nel suo mirabile “Inno a Roma”, il poeta e magistrato gallo-romano Rutilio Namaziano (IV sec. e. v.) lodò l’Urbe con queste parole: “Tu hai fatto una sola patria di genti diverse, hai fatto una città di quello che prima era il mondo”. Le plebi antiche se ne vantavano al Circo Massimo riconoscendo nei loro piccoli eroi un riverbero gladiatorio delle più alte gesta patrizie. Oltre non potevano. Esiste una buona letteratura al riguardo. Le plebi moderne, dimentiche di tutto ciò e devote al demone del disordine, affollano gli stadi in omaggio a una costrizione ancestrale che le conduce surrettiziamente ad alimentare dal basso il serbatoio di un culto misconosciuto, non più ufficiale come in antico: il culto della Vittoria. Non si pretende che ne abbiano coscienza né loro né Totti, né Baldini né Zeman, però funziona così. I simboli non s’indossano mai innocentemente: se scegli la Lupa marziale e la metti sulla maglia devi poi esserne all’altezza. Vincere necesse est. Anche la plebe ha i suoi attributi e i suoi doveri.