La disgregazione

Altro che magna magna

Stefano Di Michele

Quel titolo faceva impressione, l'altra mattina, sulla prima pagina del Messaggero – bonario giornale della capitale, di solito restìo a cavalcate selvagge in groppa all'antipolitica, giudiziosamente casiniano, tendenzialmente portato a ravanare sul cespuglioso argine dei moderati, del vorrei ma non posso, dei centristi possibilmente belli ma anche di quelli brutti. Ecco, da settimane sfogliare i giornali, vedere la televisione, mettersi in navigazione su Internet è un periglio, una cosa da stomaci forti, un esercizio di temperanza da sfiancare pure un monaco zen.

     

    Quel titolo faceva impressione, l’altra mattina, sulla prima pagina del Messaggero – bonario giornale della capitale, di solito restìo a cavalcate selvagge in groppa all’antipolitica, giudiziosamente casiniano, tendenzialmente portato a ravanare sul cespuglioso argine dei moderati, del vorrei ma non posso, dei centristi possibilmente belli ma anche di quelli brutti. Diceva così – recensendo le incredibili prodezze di quel tipo in Jaguar che ha prima occupato il posto e poi tagliato le gomme alla macchina di un disabile – secco come una fucilata, il primo passo su un terreno finora incolto e inesplorato: “Politico buca le gomme a disabile”. Esemplare titolo verità, s’intende, ma quella parola, “politico”, pendeva lì dove una volta – in anni politicamente meno corretti, con meno ampollosità da finti convertiti su tutti i giornali – poteva apparire la parola “zingaro” o “marocchino” o “romeno”. Non che parecchi politici – a Roma e nel Lazio poi figurarsi – non stiano esattamente al loro posto sul crinale tra cronaca giudiziaria, cronaca nera e Cronaca Vera (intesa quale onorata rivista che puntalmente dà conto di traffici vuoi dentro un letto o vuoi in commissariato), ma messo così, nero su bianco, genera una certa sorpresa. Ben oltre, parecchio oltre, il “Berlusconi mafioso” o “Comunisti assassini” o “Monti vampiro”con cui pure siamo quotidianamente assediati. Lì, in quel reciproco insultarsi, c’è una parzialità e un’esagerazione e un mostrarsi di vomito e di bile che in qualche modo lo depotenzia. Invece “Politico buca le gomme a un disabile” non è per niente esagerato, è perfetta disamina, fredda osservazione. Titolo asettico, e dunque tremendo. Come un (cattivo) referto medico.

    Ecco, da settimane sfogliare i giornali, vedere la televisione, mettersi in navigazione su Internet è un periglio, una cosa da stomaci forti, un esercizio di temperanza da sfiancare pure un monaco zen, tra gente travestita da maiale e maiali in sembianze umane, l’invasione surreale e feroce in ogni pertugio della nostra vita di ridicoli onorevoli Trombetta in Bocca, molto meno simpatici e moltissimo meno autorevoli, peraltro, di quello sbeffeggiato in treno da Totò. Però no, è sbagliato chiamare in causa l’autorevolezza dell’on. Trombetta: né costoro meritano tanto onore, né il Trombetta in Bocca tanto disdoro. E’ altra la citazione da fare: quella dei “Mostri” di Dino Risi, quella fenomenale cavalcata di cinquant’anni fa tra il tipo d’italiano che stava prendendo piede – e che forse, a mezzo secolo di distanza è giunto alla sua perfetta maturazione: il marcire, il decomporsi, l’infradiciarsi. Trascinando ogni altra cosa nel suo mutarsi in “odor di palude”. E’ come assistere a un colossale spettacolo di disgregazione – ben oltre il rubare (per il quale bastano le manette) o le escort (anche loro, poverette, accucciate dalla crisi galoppante) o le prebende politiche (giorno verrà pure lì, alla fra Cristoforo, della cacciata di questi dannosissimi incapaci). E’ ben altro, qualcosa che supera la norma e le leggi – pur se a volte sembra di stare senza riparo, come altri senza pudore, come alla imperial-mussoliniana Gazzetta Ufficiale gaddiana, che “ingollava e defecava la legge”: è qualcosa nella testa, nel nostro (di tutti) comportamento pratico, nell’idea di collettività ridotta a tribali assembramenti, dove sfugge non solo il giusto e l’ingiusto – che quelli, tanti saluti a chi ha mai potuto spartire il primo dal secondo – ma persino la logica, la semplice logica. E’ uno spettacolo, questi dei nostri “nuovi mostri” che toglie il respiro e ogni possibilità di reagire.

    Ci sarebbe da mettere di mezzo un altro film, meno memorabile, forse più calzante, di Ugo Tognazzi, il suo “Petomane” ispirato alla figura di Joseph Pujol detto “il Paganini del peto” – ma lì si sfiora il campo dell’arte, persino una melodia d’aria, qui ci si attiene più concretamente alla merda. E vedremo che verranno buone – la merda e la scoreggia: per stare alla cronaca, per nobilmente citare – in questa mesta rassegna del mostro che intorno ci gira e del mostro che forse già ha fatto la tana dentro ognuno di noi. E che scava, come innocente talpa marxista scavava, e mina le fondamenta del tutto: così che come nella sfiga (e persino la sfiga vedremo in campo) maya o in un’apocalisse da setta fanatica, la disgregazione di ogni cosa pare d’intravedere.
    E’ la fatica di capire – che è ben altra cosa rispetto alla possibilità di comprendere cosa sia un ladro o cosa sia un maiale (con sembianze umane) o cosa sia un cretino (benché quest’ultimo ben più indecifrabile sia rispetto al primo che rispetto al secondo) – quello che accade. E’ tutt’altra cosa rispetto alle mangiate pantagrueliche, le vacanze da filmacci dozzinali, le borsette di Gucci, “ce l’ha chiunque”, il risucchio delle ostriche (ieri è stata annunciata una scoperta scientifica: le ostriche hanno parecchi geni uguali ai nostri; dopo il caso del maiale, il secondo caso di quasi cannibalismo). E come nei film catastrofici si fissa la montagna che ci crollerà addosso, l’onda che ci travolgerà, il meteorite che ci schiaccerà come mosca irritante, si resta muti e immobili: né la voce sale in gola, né la forza nei pugni. Pessimo segnale. Così, cosa possiamo dire a quello che mettava la Jaguar (ma se uno non è Diabolik e non è Eva Kant, perché dovrebbe andare in giro con una Jaguar?) al posto dell’auto del disabile, e smascherato dai vigili taglia quando crede di non essere visto le gomme di quest’ultimo? Questo tipo non è un ultras da stadio, non è un componente della banda della Magliana, non è un bullo di periferia: è un amministratore pubblico, uno che, pure a non voler figurare quale modello morale (figurarsi: vien da farsi petomane per lo spasso al solo pensiero) dovrebbe almeno avere un conveniente senso della misura. E invece, cosa dice in televisione – né si va a nascondere per la vergogna, né a espiare come l’Innominato? Dice così: “Sono anni che la mettevo lì, e poi c’è gente che fa di peggio. E’ stato un errore tecnico di incazzatura”.

    Ora, quale mirabile sceneggiatore, per un qualsiasi film sul (peggio) costume italiano, potrebbe inventare un simile linguaggio per definire una simile incivile azione? “Errore tecnico di incazzatura” – così, si capisce che non si saprà mai cosa rispondere a una simile giustificazione, in nessun film sarebbe mai apparsa credibile, neanche in un film visionario e profetico come i “Mostri” di Risi. Ma eccola qui, ingiudicabile, inafferrabile: “Errore tecnico di incazzatura”. E anche la frase precedente di quel tizio: “C’è gente che fa di peggio” – e se non vuol chiamare in ballo Jack lo Squartatore o Er Canaro, probabilmente si riferisce ad altri colleghi amministratori. E che fanno, di peggio? Riti woodoo? Messe nere? Pisciano nell’acquasantiera? E poi, che razza di giustificazione è? Mi arrestano, per dire, mentre sto facendo una rapina in banca, e io faccio presente che c’è qualcun altro che sta facendo a pezzi una vecchietta? Il fatto è che non si afferrano più le motivazioni – per quanto ignobili, per quanto ripugnanti – e quindi non ci si può difendere. E’ questa la disgregazione: quando tutto pare sbriciolarsi e non hai nessun strumento né per respingere né per spiegare quello che sta accadendo. E chi potrebbe mai trovare un filo logico in quel padre che, quando suo figlio, praticamente ancora un bambino, porta a casa un iPhone rubato a un uomo appena travolto da una macchina, invece di due salutari sganassoni e di spiaccicare al muro quell’aggeggio di merda, gli consiglia di cambiare la carta Sim per poterlo utilizzare. Che dire? Lamentarsi del costume che decade, invocare Tacito come un vicepreside di liceo? Mancano le parole – non ce ne sono. E ancora, dove le parole non arrivano più, la difesa non è possibile.

    Scorrendo le pagine dei giornali per due giorni, tra ieri e l’altro ieri, questa idea di qualcosa che si disgrega senza riparo davanti a noi prendeva forma e sostanza. Ecco le immagini apocalittiche dello sciopero della metro a Milano, con gente che scivolava sotto i cancelli che si chiudevano, altri che attraversavano il tunnel nel buio – come in certi filmoni jettatori sul doponucleare. E il presidente dell’azienda dei trasporti (a ragione? a torto?) che fa? Mette di mezzo “la sfortuna”, chiama a soccorso la “jella grossa” – ma come parlano? di cosa parlano? Che c’è, Saturno contro? E’ colpa di Nostradamus? Bisogna affidare i trasporti pubblici a Branko? Ma che razza di modo di argomentare è? Ancora – non si capisce, non ci si può difendere. C’era pure un tizio issato sul cupolone di San Pietro, mancassero al Santo Padre le rogne di casa sua, nientemeno a invocare una proroga della direttiva Bolkestein sulle concessioni balneari; intanto quattro operai scalavano il campanile di San Marco – e avranno ragione, magari, chissà, persino sulle faccende balneari, quasi sicuramente gli operai – ma ecco che i simboli del paese sono scalati, ridotti a palchi, presi in qualche modo in ostaggio. E’ un paese che regge a fatica, quello dove ogni atto estremo viene concepito ed eseguito.

    E nel paradosso dei paradossi (ricordate quelli che nei mesi scorsi si davano fuoco per le tasse da pagare?), siamo a quello che viene arrestato con l’accusa di aver rubato i soldi che aveva riscosso: perché poi, nel lento scivolare verso la disgregazione, in certe situazioni siamo tornati al sistema dei gabellieri, a quelli che incassano (e prendono percentuali) per conto dello stato. E tra gli episodi che sanno di remake dei “Mostri” – ma tutto persino più cattivo, tutto addirittura peggiorato da sembrare, ancora cinematograficamente, insostenibile – un altro episodio (da ridere? da piangere?) strepitoso da commedia all’italiana: i militari della Guardia di Finanza che vanno a sequestrare dei documenti in un’azienda e a difesa delle carte trovano dei pitoni e dei boa e un’altra decina di rettili dentro delle teche. L’ultima volta, un’idea del genere si era vista dalle parti di Indiana Jones – nazisti carogne e caccia all’Arca dell’Alleanza, almeno lì, mica fatture. Tutto il reale, tutto il nostro triste quotidiano reale scivola, giorno dopo giorno, verso una zona ignota – la zona morta, la zona grigia, a chiedere ancora cinematografico aiuto: perché la realtà pare non reggere più, e il fantastico pare decisamente superato: e ogni cosa si ripiega sulla sua assoluta indifendibilità e inafferrabilità. C’è un rigurgito di fondo – tsunami da codice leonardesco? vulcano apocalittico? semplice rutto del me ne frego? – che arriva dai tunnel sotterranei, ben oltre quelli della metro milanese, e chi invoca per certi “alla forca senza processo!”, e chi esorta “facciamo almeno all’araba, le mani mozzate!” e chi gradirebbe “impalatelo alla maniera dei turchi!” – e chi la Jaguar sacrilega vorrebbe prendere e ridurre a rottame per lo sfasciacarrozze. L’ombra del cappio, che vent’anni fa accarezzò l’Aula di Montecitorio, si è fatta ora lieve e sospirosa – come una stella filante, invece che come corda per appendere qualcuno – di fronte e ciò che dalle crepe della nostra disgregazione emerge. E la festa della merda, a Roma effettivamente celebrata, con ospiti che si avventavano su dolciumi a forma e colore di stronzi, e altri sistemati su scenografici water, e puzza letale con fialette carnevalesche per scherzi liceali: e qui il “petomane” tognazziano avrebbe tenuto banco e conversazione – tutto questo accade e moltiplica, in un vortice di specchi, il labirinto inspiegabile dentro cui ci stiamo sempre più avventurando. Poi, qualche parziale correttivo verrà preso: magari il Messaggero comincerà a titolare, con più correttezza politica, e più noiosa ipocrisia: “Cittadino politico buca le gomme a disabile”.

    La Cassazione ha deciso che dire “lei non sa chi sono io”, oltre a essere palesemente una presentazione da coglione, è anche un reato che suona minaccioso. Certo senza il tono della minaccia, piuttosto quello di un’eccessiva autoconsiderazione, ecco il politico che al giornalista che lo intervista sulle sue indennità, risponde: “Certo, ma sta parlando con il vicepresidente del Consiglio regionale…”. Il vicepresidente del Consiglio regionale, proprio così: ora, a parte il naturale, istintivo “me cojoni!”, che altro si può dire, di fronte a simile sortita? Come il poeta fingitore diPessoa, “che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”, molti nel paese che si va dissolvendo (anche per loro demerito, anche per loro mancanza di sensibilità) arrivano a fingere di essere davvero importanti, e a credersi insieme davvero importanti – “quella pompa centrogravitante, quel ragnatelo del cerimoniale, a seggetta e a sala, ed a tavola: e i subjuganti festini” (Gadda). Così da considerarsi, infine, ed effettivamente, del tutto innocenti e del tutto normali: pur con la Jaguar, pur con l’iPhone, pur in coppa al cupolone…

    Ci si disgrega perché siamo tutti saturi di indignazione ed è in quasi in tutti assente ogni idea di vergogna, prima ancora che di misura. Nessuno si nasconde, tutti rivendicano: un’inciviltà, un furto, una “puttanicizia” (per il Belli, e si capisce facile). C’è invece chi per una scoreggia scomparve, una volta, ma era secoli fa – come Edward De Vere, conte di Oxford. “Questo conte di Oxford, mentre faceva un profondo inchino davanti alla regina Elisabetta, si lasciò scappare una scoreggia, al che rimase così confuso e vergognoso che se ne andò all’estero a viaggiare, per ben sette anni. Al suo ritorno, la regina gli diede il benvenuto e gli disse: Signore, ho dimenticato la scoreggia” (John Aubrey, “Vite brevi di uomini eminenti”). Almeno l’arioso conte elisabettiano dovrebbero prendere per maestro.
    Così, ogni scoreggia non solo si rivendica, anziché provare a farla dimenticare, ma direttamente la merda – seppure a motivo di denunciare nella stessa merda di essere – si degusta. La disgregazione è questo nostro avere gli occhi pieni di immagini che sembrano spesso le ultime immagini – il momento fatale dove la crosta si spezza, le fiamme eruttano, la folla impazzisce. Tutto è “inqualificabile” (come ha detto il sobrio Monti), ci sono file di politicanti di basso conio e di orrendo alito (s’intuisce) e con “la valigia grossa, che ar dazzio der Paradiso nun ce passa”, pronti a farsi penitenti così da poter riapparire sul fronte opposto, diciamo così, riverginati. E’ l’uomo comune, il bravo padre di famiglia, che pensa di essere sempre innocente – e perciò inafferrabile, il pericolo principale, senza manco un tentativo di nuova verginità. C’è una sola (orrenda) speranza: che i loro figli, come quello di Ugo Tognazzi nei “Mostri”, li superino un giorno in crudeltà – e così liberandoci dalla loro presenza. Ma forse, dopo cinquant’anni, anche l’evoluzione dei “Mostri” è giunta a termine – e ogni possibilità a questo punto persa.